DUOMO DI SAN PROCOLO MARTIRE al Rione Terra di Pozzuoli (NA).

 

 

Stemma Pozzuoli 2

 

Stemma araldico di Pozzuoli

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Palazzo Migliaresi

 

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Fianco Est del Tempio d’Augusto – Duomo

 

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Via Vescovado – parallela

 

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Via Vescovado

 

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Il Seminario con la chiesetta del Coretto

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Lato Est con le colonne Corintie

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Interno con colonne Corintie – Lato Ovest

 

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Interno, controfacciata in cristallo con serigrafie delle colonne mancanti e soffitto a cassettoni
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Interno restaurato, con soffitto a cassettoni
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Interno con volta a botte e lunette unghiate, con Coro e Presbiterio

 

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Resti del Portale d’ingresso originale

 

San Procolo- A. Gentileschi

San Procolo_A. Gentileschi       

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Decollazione di San Gennaro, Agostino Beltramo 1635

Ringrazio Enzo per questo splendido contributo – fra aprile e maggio scorso ho potuto assistere alla riapertura di questo vero e proprio tesoro dell’arte. Pozzuoli ha una storia plurimillenaria che non può essere annullata dall’incuria – dobbiamo difenderla così come dobbiamo difendere la STORIA di migliaia di altre realtà che ci sono state lasciate dai nostri avi come patrimonio culturale su cui far crescere il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. (J.M.)

La Cattedrale-Duomo, è dedicata al martire cristiano Procolo, patrono di Pozzuoli, formata dall’unione di tre chiese alquanto vetuste: l’antico Duomo, la chiesa della SS. Trinità e la piccola chiesa del Corpo di Cristo detta anche Coretto adiacente al Tempio, dalla cui Porta Santa si accede al suo interno. Essa fu edificata intorno al VI sec., sui resti dell’antico Capitolium detto “Tempio di Augusto”, e che l’incendio del 1964 portò alla luce le Colonne in stile Corintio, che prima erano coperte dalle mura. L’edificio, in seguito ai terremoti del 1538, (eruzione del Monte Nuovo) fu restaurato nel 1544 e in seguito verso la metà del XVII sec., con la sapiente abilità di Cosimo Fanzago che lo trasformò in uno splendido edificio barocco. Risale a questo periodo l’ampliamento della struttura, a cui veniva annessa l’adiacente chiesa della SS. Trinità (già presente nel sec. XII). L’interno, si presenta maestoso e scenografico, a una sola navata coperta da una volta a botte unghiata e con cappelle laterali. Ospita notevoli capolavori della pittura del ‘600 napoletano – (tra cui dipinti di Massimo Stanzione, Artemisia Gentileschi (San Procolo e la madre, San Gennaro nell’Anfiteatro, Martirio di San Procolo, l’Adorazione dei Magi), , Giovanni Lanfranco (Martirio di Sant’Artema, Arrivo di San Paolo a Pozzuoli), Cesare Fracanzano (l’Adorazione dei pastori, Gesù nell’orto degli ulivi), Agostino Beltramo (Decollazione di San Gennaro e martirio dei suoi confratelli nei pressi della Solfatara, opera posta nell’Abside sull’Altare Maggiore), Giacinto Diano il Pozzolano, (28/marzo/1731- Napoli, 13/08/1803), suoi sono gli affreschi del soffitto dello scalone del seminario di Pozzuoli (1755) , le tele di S. Raffaele (Martirio di s. Caterina, (1758); Incoronazione della Vergine; Guarigione di Tobia, 1760, sul soffitto della sagrestia; nonché il Ritratto di don Domenico d’Oriano, che mostra una stampa tratta dal dipinto di N. M. Rossi del 1749 raffigurante Tobiolo e l’angelo). Il Duomo, venne dichiarato Monumento Nazionale dal 1940 e dal 1949, divenne Basilica Minore Pontificia ad opera di papa Pio XII.
Il vescovo della diocesi di Pozzuoli, Gennaro Pascarella, ha inaugurato domenica 11/maggio/2014, la riapertura e la conseguente restituzione ai fedeli della Cattedrale-Duomo di San Procolo Martire del Rione Terra, a cinquant’anni dall’incendio, che nella notte tra il 16 e il 17/ maggio/1964, la distrusse completamente. Ancora da ristrutturare e recuperare sono la Sagrestia e il Campanile. Il Duomo si presenta con una facciata esastila in stile Corintio, di cui solo 2 colonne (laterali) ci sono pervenute quasi intatte, mentre le altre 4 centrali, sono serigrafie su cristallo, i due fianchi si presentano con un aspetto maestoso e in forma octastila, sempre in Stile Corintio. La parte restaurata anteriore si presenta in bell’aspetto con dei cristalli giganteschi, tenuti magnificamente insieme con delle strutture a tiranti d’acciaio, che ben si sposano con il magnifico restauro. Il restauro è opera progettata dal prof. Marco Dezzi Bardeschi, che vinto il concorso internazionale, bandito dalla Regione Campania e dalla Sovrintendenza, iniziò i lavori. Le prime attività di restauro iniziarono nel 1968, dopo l’incendio divampato tra il 16 e il 17 maggio del 1964 che distrusse l’edificio in stile barocco come precedentemente detto. La costruzione della chiesa, avvenne tra il 1632 ed il 1649, su commissione del vescovo Martín de León y Cárdenas, innalzata sulle rovine dell’antico tempio romano preesistente. Il fenomeno del bradisismo che colpì Pozzuoli nel 1970 e, poi, quello più grave nel 1983, costrinse il governo centrale “all’allontanamento forzato”-(1970)- dell’intera popolazione dalla rocca del Rione Terra, all’insaputa dell’allora sindaco-prof. Angelo Nino Gentile. L’intervento di restauro che, seguendo il principio delle carte internazionali sul restauro del “minimo intervento”, ha consentito la salvaguardia del monumento e la sua corretta conservazione che ha restituito alla chiesa la sua originaria funzione di luogo di culto, e di Monumento di eccezionale valore storico-artistico e culturale. L’apertura del Duomo e del percorso archeologico rappresentano solo una minima parte dell’acropoli puteolana, intervento realizzato grazie ai fondi dello Stato e dell’Unione europea. Una speciale menzione va a Maria Pia Corsale  che ha curato, sotto la direzione dei lavori dell’Ing. Magliulo,  il restauro dei marmi e della conservazione delle tele del Duomo-Tempio. 

Alcune notizie storico-artistiche, sono state tratte da fonti riconducibili alla Treccani editore.

Prof. Vincenzo Neri, docente di Disegno e Storia Dell’arte in pensione.

Alcune notizie storico-artistiche, sono state tratte da fonti riconducibili alla Treccani editore.

Le foto che illustrano il Duomo e le sue opere interne ed esterne, sono di proprietà del sottoscritto, coperte da proprietà intellettuale.

Notizie di carattere informativo:
Il Duomo-Cattedrale di San Procolo Martire di Pozzuoli, potrà essere visitato ogni sabato e domenica (ingresso gratuito). Sabato, dalle 9,30 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 19,00 con la celebrazione della Messa nel Duomo alle 19,00, Domenica, dalle 9,30 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 21,00 con la celebrazione della Messa alle ore 12,00.
La visita all’interno della Rocca del Rione Terra è libera e gratuita.
Se il viaggiatore lo desidera, per le visite guidate, può rivolgersi all’associazione culturale di volontariato NEMEA: telefax 081.853.06.26 – cell. 388.112.71.88 – 388.101.97.12 e-mail: assnemea@hotmail.com .
Per raggiungere la Rocca del Rione Terra di Pozzuoli (NA), si può utilizzare il servizio metropolitano per chi viene da Napoli, mentre, per chi proviene da fuori e munito di mezzo di locomozione privato o pubblico (autobus), è presente sul territorio l’AutoTerminal, sito in via Vecchie delle Vigne, nei pressi della Solfatara dove è possibile parcheggiare.

reloaded GLI ESAMI (DI STATO) NON FINISCONO MAI

http://www.maddaluno.eu/?p=228
Chiamerò questo post “reloaded Gli esami (di Stato) non finiscono mai” in attesa delle riflessioni su alcuni argomenti specifici emersi nel corso degli Esami.
Il link di sopra è riferito al mio post del 4 luglio dal titolo “Gli Esami (di Stato) non finiscono mai”, nel quale scrivevo sui motivi per cui non ho mai rinunciato a partecipare agli Esami di Stato quando potevo fare “domanda”: anzi, quelle rare volte (un paio a mia memoria) che non mi hanno convocato ci sono rimasto un po’ male. Ed ho esplicitato le motivazioni principali, che sono di tipo umano e culturale relative all’ansia per una conoscenza che si amplia grazie ad esperienze e risultati diversi posti a confronto con le esperienze ed i risultati propri del rapporto con i giovani.
Fino allo scorso anno abbiamo avuto la possibilità di essere nominati in altre province della nostra Regione; mentre alcuni anni fa potevamo scegliere anche sedi fuori Regione. Quest’anno la “spending review” ha limitato il nostro raggio d’azione sul territorio provinciale di servizio o di residenza.
Niente male: la conoscenza si amplia anche se la sede è a pochi passi da casa nostra; e la prova di quel che dico è nei fatti.. intanto in simili occasioni ci si riconcilia con i giovani, che pur con qualità diversificate dimostrano quanto ingenerosi e malevoli siano i giudizi che la società (e moltissimi dei loro rappresentanti istituzionali) formula su di loro) i livelli di preparazione sono comuni al loro background familiare e culturale, agli ambienti sociali praticati, alle capacità acquisite nella vita ed a scuola, volontarie ed involontarie. Ciascuno ha una sua propria storia inglobata ed impastata nei diversi contesti di riferimento (famiglia, gruppo, classe, scuola, circolo, oratorio, etc.) e noi docenti lavoratori fortunati li incontriamo in una serie di giorni importanti, fra quelli che potrebbero rimanere indelebili nella loro memoria per sempre. E per noi che siamo lì è un “miracolo” che non si ripeterà più nella stessa forma, un “unicum” straordinario nel quale devono essere loro i protagonisti.
Odio quei docenti che vogliono dimostrare quanto, e quello che, sanno; quanto sono bravi! Personalmente so di non sapere tantissime delle cose che sanno i giovani che ho incontrato e so di “non sapere” tout court. Lo ripeto sempre: ho insegnato per imparare e vivo per sapere. E la partecipazione all’Esame di Stato come membro esterno mi permette di imparare; certo, si impara anche di fronte a punti di vista diversi, verso i quali occorre avere rispetto e chiedere a tua volta che si usi lo stesso rispetto verso chi la vede in altro modo.
La prova nell’insieme serve ad accertare non solo le mere conoscenze ma il metodo di analisi dei temi e la capacità di elaborarli e ricondurli a sintesi attraverso approcci interdisciplinari. I “ quiz” tanto cari ai cultori della televisione non sono ammessi. Non ci si trova di fronte a macchinette ma ad esseri pensanti cui dobbiamo consegnare le prime piccole chiavi del futuro.
A scanso di equivoci la Commissione d’Esame che ho appena presieduto ha operato in modo serio e corretto; mi riferisco ad esperienze “altre” in altre realtà ed in altri anni.
Parlerò in prossimi post di alcuni spunti non i più importanti non i più interessanti, ma quelli che hanno sollevato in me curiosità e stimoli, richiamandone alcuni che erano sopiti, e non mi riferirò soltanto agli studenti.
Gli Esami ti fanno incontrare colleghi ed è un momento di confronto “alto” che colgo volentieri partendo dal mio livello più “basso”.

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AMORI…E ALTRO – LEZIONI DI CINEMA (1992)

AMORI… E ALTRO – LEZIONI DI CINEMA (1992)
Estate del 1992. Sono a Forlì in un caldo giugno impegnato in Esami di Maturità come Commissario esterno di Italiano e Storia. Campionato di calcio europeo senza l’Italia. La famiglia è a Riccione in una residenza che chiamiamo “casetta Ariosa”. Di mattina mi sveglio presto e prendo il treno; con me ho una borsa capiente per i documenti ed un piccolo registratore portatile con alcuni nastri musicali. Ho stretto un impegno, con il Comune di Prato, che ho chiamato “Laboratorio dell’Immagine” e da alcuni anni ho prodotto materiali audiovisivi coinvolgendo gli studenti di alcuni Istituti medi superiori nell’ideazione, scrittura e realizzazione di video; ne abbiamo prodotti già tre: “Capelli”, “L’ultimo sigaro” e “I giorni e le notti – parte prima”. Con gli studenti abbiamo discusso anche quest’anno, dopo una parte teorica, ma non sono venute idee particolarmente brillanti; tuttavia da parte dell’Assessorato alla Cultura, che si occupa anche dell’Educazione per gli Adulti, è venuta una sollecitazione a collegare l’impegno produttivo del Laboratorio a quel settore. A maggio mi è stato dunque chiesto di lavorare su dei prodotti che pubblicizzino i Corsi di Educazione degli Adulti che il Comune sta attivando per l’anno scolastico 9293 ed è logico che debbano essere preparati ed approntati per settembre. Ma non c’è nulla di pronto e, dunque, devo pensare a cosa proporre. Ho in mente qualcosa che si colleghi ai miei amori…cinematografici; penso in particolare a Francois Truffaut e ad uno dei suoi film, “L’uomo che amava le donne”.

 

Truffaut

 

 

E’ un film del 1977, nel quale un ingegnere di Montpellier è attratto dalle donne, in particolar modo dalle loro gambe. “Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia.” dice e poi: “Per me non vi è nulla di più bello che guardare una donna mentre cammina purché sia vestita con un abito o con una gonna che si muova al ritmo del suo passo”. Ecco: il ritmo! Immaginavo infatti due giovani, seduti sugli scalini del Duomo di Prato mentre fumano e bevono qualcosa che loro aggrada, nell’atto di osservare seguendole, accompagnati da una musica che arrivi a loro attraverso un auricolare, gambe di donne che circolano davanti ai loro occhi. Una battuta potrebbe suonare così chiudendo lo spot: “Voi, non fate come loro, non indugiate: iscrivetevi ai Corsi di Educazione degli Adulti organizzati dal Comune di Prato”. L’idea c’è, un invito a non perdere tempo, a non bighellonare; manca la musica adatta. Sono sempre stato maniacalmente portato a scegliere musiche “speciali” per i video che ho prodotto. E non è affatto il caso di smentirmi: e dunque ascolto di continuo musiche, le ascolto e le riascolto, soprattutto nei tempi morti; soprattutto quando mi tocca attendere i treni, notoriamente non sempre puntuali. Ed allora, mentre osservo varie gambe femminili nel loro movimento inserisco “varie” colonne sonore che aspirano a diventare “la colonna sonora” di quello spot che ho immaginato. “It’s a jungle out there” cantata da Bonnie Tyler è la prescelta. Provate anche voi ad ascoltarla mentre osservate gambe di donne che si muovono davanti ai vostri occhi e fatemi sapere se siete d’accordo. Il video funziona; così come funzionano gli altri spot per i quali penso di utilizzare musiche meno ricercate. In uno coinvolgerò alcuni studenti del corso serale dell’Istituto “Dagomari” (a quel tempo era ancora in viale Borgovalsugana 63); in questo caso il messaggio partirà da una realtà positiva: i protagonisti hanno già scelto e bisogna fare “come loro”! In un altro spot protagonista è una casalinga annoiata che trascorre il suo tempo bevendo alcoolici mentre in poltrona con un telecomando nervosamente fà zapping fra programmi televisivi di scarso valore: in questo caso siamo tornati ad un punto di partenza “negativo” e ad un invito in “positivo” a non ingaglioffirsi davanti alla tv. Il quarto spot si svolge in una realtà bucolica un po’ paradossale; i protagonisti sono galline e pulcini cui sovrintende un gallo sotto l’occhio stanco di un cane da caccia affacciato alla sua cuccia. Il tutto avviene in un vecchio cascinale storico ed il messaggio parte dalla consapevolezza che “loro” (gli animali) non potranno iscriversi ai corsi ma, ed ecco il gallo che “canta”, è il momento di darsi una mossa per tutti gli altri. Gli spot sono dunque pronti nella loro ideazione; occorre realizzarli. Lo farò fra luglio, al ritorno dagli Esami, e agosto con i pochi allievi disponibili. Ma spero che siano un successo. Era l’estate del 1992.

RELOADED “GIOVENTU’ BRUCIATA: NICHILISMO, ABBANDONO, DECADIMENTO ESISTENZIALE E MANCANZA DI APPARTENENZA” di Federica Nerini

di Federica Nerini

Federica Nerini

Nell’attesa del prossimo prezioso intervento di Federica su “La solitudine” vi riproponiamo un suo intervento apparso su politicsblog.it lo scorso 6 giugno dal titolo
“GIOVENTU’ BRUCIATA: NICHILISMO, ABBANDONO, DECADIMENTO ESISTENZIALE E MANCANZA DI APPARTENENZA”.

FEDERICA NERINI
“Ettore e Andromaca” è uno dei quadri più belli del periodo metafisico di Giorgio De Chirico ed ha come tema preponderante l’abbandono e l’intangibilità spaziale. Entrambi i manichini sognano e desiderano un abbraccio impossibile, visto che il loro sadico e crudele disegnatore li ha creati senza gli arti superiori. De Chirico utilizza simboli allegorici per esprimere l’inesorabile destino perturbante a cui nessuno può sottrarsi e nello stesso tempo l’accettazione, rassegnata e melanconica, da parte dell’eroe Ettore, che preferisce una morte mitica rispetto ad una vita vile ed inutile come la nostra. L’artista greco si sarà sicuramente ispirato al sesto libro dell’Iliade: gli automi privi di anima, esistenza, fisionomia ed espressione sentimentale simboleggiano immobilismo, l’innata propensione al rigetto dell’essere e il male di vivere nei confronti degli avvenimenti giornalieri, che si succedono nel “teatro irreale” del quotidiano, alludendo allo stesso spazio fantastico in cui sono avvolti i due manichini.
In realtà parte della gioventù di oggi è propensa all’ “abbandono” più che al vivere secondo “ambizione”. Ci facciamo trasportare dall’estrema relazione dell’altro, non riusciamo ad accettare, e lasciarci attraversare da essa, la penetrante ed imperitura solitudine: ci leghiamo alla personalità estranea con pulsione ambivalente, per la paura di essere soli. Allora il soliloquio dell’esistere diventa dialogo decadente e senza senso. La nostra sfera personale è altamente limitata, nessun giovane si conosce, vive e comunica con gli altri e con se stesso, ispirandosi inconsciamente all’isolamento psicotico. Ed è proprio questa “incomunicabilità” di fondo, che ci fa pensare a come ogni individuo sia un’eterna landa desolata, rispetto a questo “sputo” di universo. La solitudine sta nell’accettazione del vivere secondo consapevolezza dell’abbandono. Noi giovani d’oggi affrontiamo la vita passivamente, senza essere noi padroni del tempo interiore, non cavalcando i secondi, i minuti, gli anni: con gli occhi bendati, non percepiamo il flusso vitale che ci accarezza i capelli e ci “abbandona” crudelmente. Sì, lo scirocco è come l’eroe troiano di De Chirico, che lascia per sempre la moglie, il figlio e la vita pur di salvare il suo popolo; la torre dove incontra la sua consorte verrà distrutta, così come il “pneuma” vitale neutralizza il precipitato delle molecole metafisiche, appartenenti all’ “animus” interno ed insondabile.
Il “nulla” ci appartiene, angosciandoci di ogni sensazione materiale, non riuscendo a reagire ci inabissiamo in una realtà distorta ed aleatoria senza via di fuga. Il futuro è un’immagine lontana ed oscura, nessuno può visitare l’isola deserta della verità mai solcata dall’ombra dell’uomo. I valori sono giunti ormai al crepuscolo, vengono bistrattati, sono sconosciuti, inariditi ed inesplorati senza l’evidente conoscenza affermata. I sentimenti che sono alla base dell’abitudine umana non sono realmente personificati, e rappresentano l’anello debole del decadimento generale. Trovare un’amicizia con basi profonde è come trovare un senso all’inutilità della guerra: impossibile. Dell’amore non si conoscono le radici profonde: la sensualità viene utilizzata come mercificazione, l’attrazione come inganno, l’adorazione come opportunismo, il piacere come desiderio; così si nasconde la vera essenza della vita amorosa, la corrispondenza sensoriale non diventa il risveglio della “joie de vivre”, tanto decantata dal francese Émile Zola e dall’espressionismo di Matisse.
La vita è una malattia senza speranza: più si pensa di guarire l’incurabile, più c’è il senso di colpa legato alla condizione di malessere giornaliero. La “gioventù bruciata” odierna non pensa al senso della vita, all’insensata vuotezza umana, all’imprescindibile fato del volere divino, all’incomunicabilità generale e all’ “eterno ritorno” del nichilismo crudele. Non è il tempo di mangiare le fragole, di contemplare il cielo azzurro senza nuvole, o di assaporare il profumo dei mandorli in fiore, non dobbiamo lasciarci assoggettare passivamente dalle bellezze effimere, dalle felicità soporifere, poiché si finisce per accettare l’oblio.
Siamo una gioventù apolide, senza meta e bandiera, senza il ricordo ineffabile del passato, che ci può far rivivere momenti estremi ed emozionanti: seppellite la speme morente! Ma dopo tutte queste analisi disfattiste, ciò che manca al mondo giovanile è un punto di riferimento, un “mito” su cui confidare le proprie ispirazioni ed aspettative; eppure qualcuno ce l’ha, ed è anche evidente, solo che prima o poi farà decostruire tutte le certezze dilaganti, e adotterà come tutti la pratica dell’abbandono. Ed ecco che l’immagine del fanatismo mitico, è in analogia con il “panegirico”, pedante ed esaltato di Ettore, l’eroe del distacco familiare. E’ come osannare un assassino: chi abbandona è reo di ogni suo peccato.
In conclusione, spero solo che questa favola: brutta, apocrifa e melensa finisca, poiché non c’è niente di più malvagio di essere illusi fino alla fine. “D’altronde tutto incomincia, perché deve finire”.
Federica Nerini

LA PRIMA COSA BELLA 21 MARZO 2014 – POZZUOLI – (ANTEFATTO) INCONTRO CON G.M.GAUDINO A PRATO

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LA PRIMA COSA BELLA 21 MARZO 2014 – L’ANTEFATTO dell’incontro con Giuseppe Mario Gaudino

“Professore, c’è qui un giovane che la cerca” la segretaria dell’Assessore aveva un tono ilare insolito e lo esplicitò subito dopo. “Ha chiesto di essere ricevuto dall’Assessore Maddaluno”. Ora, a parte la perplessità generica e lo sbandamento relativo al fatto che avrei potuto supporre che l’equivoco fosse stato generato da una mia bugia, mi venne da sorridere. In effetti non ero Assessore e non conoscevo in maniera diretta questo giovane anche se ne avevo sentito parlare negli ambienti culturali e cinematografici come “promessa” della produzione di ricerca: in quegli anni (la metà degli anni Ottanta) più di ora mi occupavo di Cinema seguendo in particolare le giovani generazioni ed ero in contatto con molti fra i rappresentanti dell’arte cinematografica sia nei settori della produzione che in quelli della realizzazione. Avevo già progettato “Film Video Makers toscani” e di questo giovane avevo visto “Aldis”, che mi aveva colpito particolarmente per la fotografia ed il montaggio, oltre che per la scelta di girare la maggior parte del video sul Lago Fusaro e nella Casina vanvitelliana che è collocata su quel Lago dei Campi Flegrei e vi si accede attraverso un pontile. Era chiaro che Giuseppe arrivasse da Roma con un’informazione ricevuta da amici comuni di Pozzuoli che gli avevano segnalato la mia presenza a Prato come “collaboratore” esterno dell’Assessorato alla Cultura e nel passaggio comunicativo si era prodotta una distorsione del tutto evidente. Conoscevo, dunque, alcuni elementi della sua storia e sapevo di avere amici tra i suoi parenti che non sentivo né vedevo da alcuni anni. Avevo lasciato Pozzuoli nel 1975 ed i fratelli Tegazzini (Silvio e Giancarlo), cugini di Giuseppe, erano stati fra i migliori amici che avessi frequentato in modo continuativo. Alla Segretaria (non ricordo se fosse Dori, Carla o Enrica) dissi di farlo attendere, scusandomi per l’equivoco che era stato creato e che – lo ribadii – non dipendeva di certo da me, anche se non saprò mai se fossi stato convincente. In una mezzora fui in via Cairoli (l’Assessorato alla Cultura del Comune era nel Palazzo Buonamici poco prima dell’Hotel Flora); Giuseppe mi aspettava nell’ingresso del Palazzo e, dopo una breve presentazione, mi disse che non poteva trattenersi e mi consegnò un pacchetto che, prima di salutarlo, aprii: c’era la sceneggiatura di un suo film che andava preparando. “Giro di lune tra terra e mare”; già dalle prime pagine che mi apparvero, accompagnate da fotocopie in bianco e nero di fotografie “di scena”, notai che, in continuità con “Aldis”, permaneva lo stile, visionario ed onirico, basato su ricerca ambientale collegata ad un mondo per me “comune” di esperienze vissute. Le immagini descritte per circa trenta pagine appartenevano agli ambienti naturali che ben conoscevo e rievocavano in me sensazioni riposte abbandonate da circa un decennio. Salutai Giuseppe Gaudino e mi ripromisi di ricontattarlo (c’era un indirizzo sul frontespizio, ed un numero di telefono). A dire il vero ho sempre avuto con me quella sceneggiatura ed ho sempre pensato con piacere a Giuseppe ma per molti anni, troppi, non ero riuscito ad incontrarlo; quando scendevo a Pozzuoli i miei impegni erano quelli “di famiglia”: anche gli amici “comuni” e quelli che per me avevano avuto un significato fortissimo nella mia formazione non venivano da me contattati. E non so di certo dire perché mai mi comportassi così; c’era un muro che non riuscivo a valicare, anche perché sapevo di non poter condividere percorsi comuni, dato che il mio lavoro non mi consentiva di spostarmi a piacimento. So bene di ricercare una giustificazione al mio atteggiamento a dir poco superificiali ma i miei impegni professionali, culturali e politici – che erano un tutt’uno con quelli familiari – mi impedivano davvero di poter pensare a costruire qualcosaltro, anche se nel mio luogo di crescita esistenziale. Dal 2013, pur essendo più vecchio, qualcosa è cambiato; con l’età della pensione ho scelto di ritornare a Pozzuoli – non stabilmente ma con maggiore assiduità. In effetti sono stanco della vita politica; è diventata insopportabile! La Cultura per me rimane l’unica ancora di salvezza; e gli antichi amori e le amicizie sono per me elemento di recupero di una dimensione umana necessaria per poter sopravvivere a questo disastro. Ed è venuto dunque il tempo per riprendere contatti. E così, dopo poco meno di trenta anni da quell’incontro, mi lancio alla ricerca del tempo perduto e dei passi smarriti. I recapiti sul frontespizio della sceneggiatura non sono più utili; il tempo anche per Giuseppe Gaudino è passato. Ma sono determinato ad incontrarlo di nuovo, stavolta possibilmente più a lungo. Ho bisogno di sapere quello che non so. Gaudino ha realizzato ovviamente in tutti questi anni non solo “Giro di lune…”, ha lavorato come scenografo, ha costituito una casa di produzione (la Gaundri) con Isabella Sandri, sua compagna di vita e di lavoro, ed il mio desiderio di recuperare parte, anche minima, di quanto avremmo potuto fare è fortissimo.

Gaudino

 

CARO MICHELE SERRA, LA TUA (FORSE) E’ UNA RESA, UN PATETICO TRAMONTO!

Patetico tramonto 2Patetico tramonto Tramonto sul mare

Immagine mia

Caro Michele Serra, la tua (forse) è una “resa”, un patetico tramonto! di J.M. Non è facile, di questi tempi, intrattenere una discussione su “ Le magnifiche sorti e progressive” della gente… in un tempo come quello che ci è toccato in sorte di vivere. C’è una profonda stanchezza di una parte della popolazione che non ha più speranze se non quel timido lumicino della veemenza di una “nuova” classe dirigente che sembra ottenere ampi consensi. Questi sono soltanto delle vere e proprie “cambiali in bianco” difficili da onorare. Sull’ultimo numero del “Venerdì” di “Repubblica” del 18 luglio nella rubrica “Per Posta” Michele Serra risponde ad una lettrice che espone le sue profonde perplessità sulle attività del Governo Renzi soprattutto in materia di “Riforme” affermando che, anche se per lui Renzi incarna, come Berlusconi, un sogno fatto di semplificazione e per questo ne condivide l’alto tasso di “rischio”, nondimeno lo ha votato. E lo ha fatto perché stanco politicamente di se stesso e della sua generazione. Michele Serra riconosce che Renzi è soprattutto “gigione”, possiede un ego sovrastimato e mostra eccessi di disinvoltura ma difende la sua scelta perché stanco del deja vu del deja entendu e gli si abbassano le palpebre. Ora, ecco quel che ci rivela Serra affermandolo solo in parte: stanco di se stesso e dei suoi non trova altra soluzione che affidarsi alla sicurezza delle parole di un demagogo, tale anche se appartiene ad una delle “correnti” che fondarono il PD. Non è diverso da altri, Michele Serra, e per la soddisfazione di chi amministra il Partito sono tanti come lui a sentirsi tranquilli, “sereni” come voleva lo stesso leader che si fosse. Sono tanti che non hanno più tanta voglia di discutere e si affidano con fiducia nelle mani di un leader e di pochi altri; sono tanti coloro che non chiedono altro che l’economia riprenda, a partire dai posti di lavoro ancor meglio se quelli riservati a se stesso o a propri congiunti ed amici, e si pone in attesa fiduciosa, infischiandosene di sapere se verranno rispettati davvero ( a chiacchiere se ne fa gran parlare) i termini di regolarità riferiti soprattutto al merito. Ora, a dire il vero, non c’è da meravigliarsi se tante di queste persone “disperate” (è uno stato molto diffuso, infatti, ed è pericoloso perché si abbina ad “ultima spiaggia”, il richiamo alla quale non mi convince tuttavia ad affidarmi ad un “bamboccio” dispettoso e rancoroso, oltre che profondamente irrispettoso nei confronti di chi non condivide il suo “pensiero”) vogliano affidarsi ad un predicatore capace di trascinare le masse. Lo è, a meno che non si debba pensare ad interessi personali, per uno come Michele Serra. E’ possibile – mi chiedo – che vi sia una “linea editoriale” collegata anche ai rapporti molto forti fra il “padrone” di “Repubblica” ed il Governo Renzi? Ed ancora, quali sono gli interessi che legano queste due entità? Devo pensare che lo stesso “affaire Barca” con quella telefonata misteriosa (c’è stata o non c’è stata?) fra lui e De Benedetti che lo contattava per proporgli un Ministero sia riferibile a qualcosa di molto ma molto misterioso; e la scomparsa, dalle principali colonne editoriali, di Fabrizio Barca, che pure sta portando avanti esperienze in molte parti d’Italia, ne potrebbe essere una riprova. Se la questione è di tipo “personale” credo che quella di Michele Serra sia una vera e propria resa, un patetico tramonto nel quale non intendo essere coinvolto. Per fortuna ci sono personaggi importanti come Gianfranco Pasquino che non si lasciano coinvolgere da questo appiattimento. Su un Blog che credo sia riconducibile a lui stesso il cui link è il seguente (http://www.gazebos.it/ElencoArticoli.aspx?autore=1209) Pasquino scrive un articolo dal titolo “La luna in cielo e la coscienza in Senato” nel quale analizza la situazione caotica che stiamo attraversando rilevandone la pericolosità e denuncia la pretesa di un Governo non eletto nell’ affrontare il nodo delle Riforme di non voler riconoscere la libertà di coscienza ai parlamentari dissenzienti. L’articolo si apre con un riferimento ad un episodio che coinvolse “cento parlamentari laburisti che una decina di anni fa scattarono in piedi uno ad uno a Westminster per negare il voto al loro popolarissimo giovane e veloce Mr Prime Minister che imponeva al Regno Unito di andare in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. No, quella guerra non era stata decisa in nessun Congresso di partito. Non era stata preannunciata in nessuna campagna elettorale. Non era neppure (sic) soltanto un problema di coscienza, che, secondo la vice-segretaria del PD non si può chiamare in causa quando si riforma quel piccolo particolare che si chiama Costituzione. I parlamentari laburisti che, senza ombra di dubbio, ne sanno più di Serracchiani, Guerini e Moretti, sostenevano la loro coscienza con la scienza: non c’erano prove convincenti dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Sarebbero arrivate con gli americani di quel genio di Bush. Non siamo inglesi. Qualcuno, però, potrebbe, studiando, cercare di diventarlo.” Ho riportato la prima parte dell’articolo. Il resto lo potete trovare cliccando il link che vi ho allegato. Buona fortuna!

NITASHA AFZAL una poesia

Pubblichiamo una delle poesie di Nitasha Afzal (autrice anche del racconto “COSI’ VICINE COSI’ DISTANTI” pubblicato in due parti il 17 ed il 18 luglio scorsi)
Il tema è ancora una volta quello dei rapporti interculturali in una realtà così viva e composita come quella pratese!
Siamo molto fieri di conoscere Nitasha e di apprezzarne le qualità intellettuali.

Poesia

Non pensiate che io sia diversa, per favore concittadini Pratesi
Non porto scarpe della Nike e magliette firmate Chanel
Ma è davvero questo che conta?
Non pensiate che io sia diversa, per favore concittadini Pakistani
Non porto il velo e metto i jeans
Ma è davvero questo che conta?
Nella vita bisogna scegliere
Non ho soldi per la roba firmata
Non ho personalità per il velo
In un mondo di conformismo,
e di pregiudizi
Io ragazza Italo-Pakistana
Mi farò valere
Quando scarpe della Nike e il velo si uniranno

Di: Nitasha Afzal

“FUGA GRANDIOSA VERSO L’INFINITO” – FRANZ KAFKA “Lettera al padre”

Federica Nerini

 

FRANZ KAFKA E LA SUA “FUGA GRANDIOSA VERSO L’INFINITO”.
Di Federica Nerini
“E’ come quando uno sta per essere impiccato. Se lo impiccano sul serio, allora muore ed è tutto finito. Se invece deve assistere a tutti i preparativi dell’impiccagione e poi apprende di essere stato graziato solo quando il cappio gli penzola davanti alla faccia, forse ne avrà un trauma per tutta la vita”. Così declamava Franz Kafka nella sua lunghissima lettera al padre (oltre sessanta pagine), scritta nel 1919 e mai consegnata al destinatario. Ciò che ci deve di più interessare è il sentimento di paura presente già dalle prime righe. Ogni singolo uomo nella vita ha il diritto ad aver paura: “La paura è un modo per trovarsi”. E’ ciò che non ci fa dormire la notte, non fa passare il giorno, e non ci fa vivere. La paura non è angoscia, perché l’angoscia è essenza.
Solo attraverso la fobia si ha la consapevolezza della presenza del nostro essere come sofferenza, e questo “l’inadatto alla vita” lo aveva capito fin da subito. Per Kafka, il padre era “la misura di tutte le cose” e la sua educazione gli aveva cambiato l’esistenza, insieme al modo di capirsi e comprendersi. Si sentiva una nullità, era avvolto da un senso di colpa insostenibile, provocandogli così la limitazione del respiro, quasi assente. Il senso di colpa è dato dalla presenza insistente di una Autorità Superiore, dal giudizio duro, da auto-rimproveri ossessivi, dal senso del dovere, dal meccanicismo dell’anima, dalla punizione e dalla indegnità. Tutto questo è alla base della struttura portante delle nevrosi. Una persona libera non soffre, cerca come dicevano i greci la propria “qualità interiore”, rigetta il senso di colpa e ha voglia di toccare la gioia della vita.
Purtroppo l’essere umano è una macchina più che complicata, poiché chiunque può essere condizionato nei modi di fare e di agire, dopo aver vissuto determinati eventi nel corso del cammino esistenziale. Nella lettera Kafka descrive con lucida esattezza un evento appartenente alla memoria emotiva della sua infanzia: “Una notte non la smettevo più di piagnucolare chiedendo dell’acqua , non perché avessi sete, ma probabilmente un po’ per dare noia, un po’ per tenermi compagnia […] Mi hai preso di petto dal letto, portato sul ballatoio e lasciato lì per parecchio tempo, in camiciola, davanti alla porta chiusa. Intanto ne riportavo un danno interiore”. Il sentimento di nullità che spesso assale lo scrittore ceco, deriva in maniera diretta dall’influenza del padre tirannico. Molti anni più tardi Kafka verrà tormentato dall’idea che suo padre, l’ “istanza superiore”, quasi senza motivo lo porti in piena notte, dal letto al ballatoio. L’evento ha fatto sì che si creasse una nevrosi ossessiva post-traumatica, peggiorando progressivamente il suo stato psichico. Dopo la sua nevrosi è degenerata in un “disturbo ossessivo-compulsivo” scaturito dal complesso di inferiorità.
Una delle sue famose paranoie, oltre all’innata predisposizione a sentirsi inferiore (per l’educazione sostenuta), è il “rimando sistematico” della data del matrimonio, infatti il fatidico giorno non verrà mai. Tre donne ebbe nell’ arco della sua vita, ma non si sposò, poiché l’immagine del padre e della famiglia felice lo turbavano, riempendolo di malinconia, paura, disperazione, noia; anche se più tardi avrebbe detto: “il matrimonio è la garanzia della più potente autoliberazione e indipendenza”. Ma il “matrimonio” è soprattutto l’elemento che lo lega al padre “in maniera più intima”, per questo motivo c’è l’azione meccanica del “rimando” dell’evento tanto annunciato e sperato. È una conseguenza della psicopatologia della vita quotidiana: “il dimenticare” è l’allegoria dell’ “indesiderato”. La mancanza di autostima dipendeva molto dal padre, più di qualsiasi altra cosa, come ad esempio un successo esterno, che poteva tutt’al più irrobustirlo solo per qualche istante, mentre sull’altro piatto della bilancia, il peso del padre spingeva sempre verso il basso.
Inoltre come diceva il suo amico Max Brod, Kafka era “felice” nella sua “infelicità”, poiché il disturbo ossessivo-compulsivo aveva fatto sì che diventasse ipocondriaco, infatti nei suoi Diari scriveva: “Sono arrivato ad una conclusione, che la forma di tubercolosi che ho non è una malattia vera e propria, non è un morbo, ma soltanto la parvenza del germe della morte”.
La domanda che più mi sorge spontanea è: “Ma se Kafka, grandissimo scrittore del Novecento europeo, e grande esistenzialista si sentiva un’emerita “nullità”, noi in questo mondo come ci dobbiamo sentire?”.
Noi non siamo Nessuno.

 

Kafka

reloaded – MA COSA E’ QUESTO AMORE

Federica NeriniPoveri in riva al mare

“L’AMORE AI TEMPI DELLA GENERAZIONE 2.0”
di Federica Nerini

“Poveri in riva al mare” è uno dei quadri più comunicativi ed immediati, riguardante il periodo “blu” del pittore catalano: Pablo Picasso. L’incomunicabilità e la staticità dei componenti della famiglia sono l’emblema dell’incomprensione, che sta attraversando la nostra Società odierna. Solo una parola bisogna annotare in fretta, dopo averla dipinta sopra i muri e i tetti delle case: “immobilismo”. Solitudine, chiusura, melanconia, dolore, disperazione, angoscia, terrore, paura e inettitudine: questo è lo spettro inquietante, che si proietta verso il nostro futuro. Insicuri difronte ai giorni venturi; indifesi nei confronti di un presente cupo, spento, senza sogno, fantasia e aspettativa. Noi siamo tutti inermi come foglie semi-morte, che saranno gettate al suolo, aspettando il primo maestrale.
Tra tutti i sentimenti, quello che deve essere difeso con la stessa foga del cavaliere, che salva la principessa su una torre infuocata è: l’ “amore”. L’amore non è un’arte, ma è una condizione intensa di perdizione dell’apparato sensoriale, una destabilizzazione del sistema razionale, un’estasi mistica generata da situazioni non-programmate, uno stato di incoscienza psichico, una migrazione dell’anima personale, una totale donazione estranea, e un piacere infinitamente desiderato in tutto l’arco della vita. L’”a-mors” è ciò che ci fa sentire “vivi”, ma anche “morti” allo stesso tempo; è ciò che ci fa disperare come i bambini piangenti, quando non vengono più coccolati e adorati, perché ogni uomo ha il bisogno e il diritto di essere amato, almeno una volta nella propria esistenza.
L’essere umano è consapevole di se stesso, della propria persona, della brevità della vita, del senso di vuotezza del nulla, del vivere senza averlo voluto, e sa che prima o poi, come in un sogno tutto questo finirà. Quindi la “brevitas” temporale è troppo incessante per vivere la vita da soli, così cerchiamo l’altro per pura necessità e mero istinto narcisistico. Siamo reattivi solo per sconfiggere la solitudine, una delle condizioni più brutte ed imperdonabili che l’anima deve sopportare. “Solo un Dio ci può salvare”, non abbiamo più forza per sopravvivere ormai. Ci lasciamo sopraffare dal vento, che diventerà freddo e ci distruggerà pian piano. Quest’ è l’amore: lasciarsi attraversare incondizionatamente, perché noi siamo deboli di fronte all’immensità della sua vastezza.
“Il conoscersi” è alla base del sentimento umano dell’amore: noi pensiamo di essere liberi, di vivere svolgendo azioni che appartengono alla nostra persona, mentre agiamo secondo cuore, inconscio e irrazionalità. Dobbiamo quindi sovrastare le barriere invalicabili dell’isolamento e fonderci simbioticamente con l’altra istanza appartenente alla coppia amorosa, solo per l’illusione di gioire affogando nel piacere di un attimo fugace. Ma allora se l’amore genera felicità e piacere, perché la maggior parte delle coppie combatte contro l’infelicità e la menzogna? Perché poche storie d’amore si basano sulla fedeltà e il rispetto? E perché si parla sempre di sogno d’amore e mai di realtà? Sfido chiunque a rispondere senza sfiorare la paranoia.
L’amore è uno dei più alti sentimenti cristiani, e alla base di tutto c’è un verbo: “dare”. Cosa significa dare? Lo psicanalista Erich Fromm, nel suo libro “L’Arte di Amare” a tal riguardo scrive: “La risposta sembra semplice, ma in realtà è piena di ambiguità e di complicazioni. Il malinteso più comune è che dare significhi «cedere» qualcosa, essere privati, sacrificare […] Dare è la più alta espressione di potenza. Nello stesso atto del dare, io provo la mia forza, la mia ricchezza, il mio potere. Questa sensazione di vitalità e di potenza mi dà gioia. Mi sento traboccante di vita e di felicità. Dare dà più gioia che ricevere, non perché è privazione, ma perché in quell’atto io mi sento vivo”.
“Amare” per sentirsi “vivi”, questo è il terreno fertile su cui costruire il futuro, magari dando tutto ciò che di vivo si ha in corpo, solo così possiamo raggiungere la splendente felicità. Ma allora c’è speranza di ristabilire e di ricostruire il sentimento amoroso, cercando di crederci come abbiamo fatto in passato? Spero di sì, perché gli uomini solitari devono gioire prima o poi. Tutti, in un modo o nell’altro, aspettano insistentemente di essere abbracciati ed amati. D’altronde, parafrasando Lucio Dalla: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io”…

LEO – IL RACCONTO nella sua interezza

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LEO è una specie di racconto che ho ritrovato fra le mie carte in un vecchio quaderno rosso sul quale appuntavo qualcosa negli anni Sessanta. In quegli anni la mia consorteria era formata da personaggi come Renato d’Oriano e Raffaele Adinolfi ed insieme organizzavamo incontri e feste. Raffaele, oltre ad essere un cultore dell’archeologia in modo particolare di quella flegrea su cui ha scritto testi fondamentali era una mente fervida e poliedrica che produceva anche versi e prose di grande valore. Con lui scrissi “I giorni”, racconto lungo al quale abbinò uno dei suoi, “La notte”, che vorrei nei prossimi giorni riproporre su questo Blog. Come già scrivevo nell’altro post (terza ed ultima parte) Leo fisicamente esiste ma non poteva esserci alcun elemento che possa richiamare alla “verità” quello che è scritto in questo racconto. In breve, non c’è stata alcuna ragazza che facesse battere i nostri cuori “in comune”!

LEO

“Leo, Leo!…”, sotto una pioggia leggera leggera Leo si allontanava. Mi appoggiavo al portone, assaporando un non so che di erotico allo sfiorare la pelle del mio viso sul liscio del legno. Un’idea abbandonata ormai veniva di nuovo a ritrovarmi. Viva come era stata anni fa; la pioggia era lieve, abbandonai il portone, contento di bagnarmi il volto. “Se la festa fosse stata fatta stasera….” pensai e non so se sadico o dispiaciuto. Avevo una voglia pazza di litigare, non ero più come una volta. Se ami devi essere ricompensato di uguale affetto, ma io mi ritrovo sempre con un pugno di mosche. “Quest’anno mi fidanzo seriamente, una volta per tutte, quest’anno comincio una nuova vita…” e ricordo Natale, Pasqua e le letterine di buoni propositi celati sotto il piatto di papà.
“Ho visto chi eri, ti ho capita, è inutile che ti nascondi, bambina, dietro i tuoi castelli di sabbia. Vedi, basterebbe un calcio!!! … Ma tu mi precedi e sei brava a distruggere anche il “mio” piccolo castello”. “Quando sorridi forse pretendi anche troppo da una persona come me che non ha più fiducia, e non chiedermi perché sono così, per amore non ti risponderei”. Poi tu mi ripagavi di uguale umore, quando la mia vita aveva qualcosa da comunicare. La gente che ci circondava era quella che poteva parlare, poteva dire ogni cosa. Solo noi con qualcosa che ci rompeva dentro, ci scavava e si rintanava ogni giorno quando ci toccava di vederci per una quotidiana specie di tortura, non parlavamo mai, se non con frasi convenzionali, del tipo che più si può immaginare consueto. “Cosa fai, oggi?” mi veniva da indagare. Leo era annoiato, per un motivo uguale, lo si vedeva sempre stanco, un sorriso sforzato ed io risparmiavo ogni volta di guardarmi allo specchio. Avevo sospettato che fosse anche lui innamorato, forse di gente che mi interessava talmente da non potermi permettere di perdere colpi. E così ritornavo alle bambinate dei diciotto anni. “Oggi rimango a casa, a leggere…” diceva e semmai la mia mente vagava seria e gelosa al pensiero di una grossa bugia, disperandomi al supporre che potesse anche lei essere innamorata di Leo. Ma in fondo chi era Leo? A dire la verità, io non lo sapevo, ma avevo avuto subito l’impressione che fosse una persona a modo, molto seria e questo mi aveva fatto paura. La sua dimestichezza con Leo dopo qualche giorno mi aveva angosciato, sentivo sfuggirmi la vita e non sapevo reagire. Certamente non sapevo anche se potevo. A quel punto mi sentivo di reagire violentemente e non mi piaceva, per la seconda volta, usare violenza. “Le mie voci le conosci, quella bassa, carezzevole, vellutata, invitante; quella alta, violenta, irosa” Così avevo deciso, avrei parlato a Leo, perché non me la sentivo più di continuare. Sotto la pioggia, si allontanò, invece, veloce, cercando invano di scansare più gocce possibilmente. Non lo rincorsi. Improvvisamente avevo pensato di fare altrimenti: di partire per un breve viaggio, dando il tempo ad ognuno dei due di decidere senza la mia presenza, senza che io rimanessi a soffrire insieme a loro. E così preparai il piano autoletale. “Ti permetti di girare, conciato in questo modo, solo perché sei fuori casa; al tuo paese ti prenderebbero per un folle, ma da turista te lo puoi permettere” Il sapore dolce, il profumo dell’alba, ottimo palliativo per i miei dolori; su una barca affittata, in mezzo al mare senza mettere mano ai remi, trainato dalla corrente. ” Ed ora dovrei dirti addio! Scomparire per sempre, dovrei dirti addio! Ma chi sei tu, così importante da sconvolgere la mia vita, da farmi sentire quasi male benché vivo?” “Ho bevuto alla fontana di un’acqua che mi sembra “purezza”, ma non mi basta, ho sentito volare qualcosa, forse un uccello marino, ma mentre sollevavo lo sguardo per vedere è scomparso, andato via in un’isola che non conoscerò” “Ora sento che ti amo e se tu fossi qui non te lo direi, anche perché non so farlo, ma di più perché andavo pensando: “A che vale un amore quando è rivelato? A che vale un amore se non è sofferenza, se non è nascosto, se non ti ispira liriche di dolore, di rammarico per quel che potevi e non hai fatto, ed intanto ti avvampa, ri rende ora irascibile e geloso, ora calmo e risoluto e ti senti invincibile, laddove prima sembravi solo un vinto”.

Lì dove andai c’era gente che io non conoscevo, che non mi salutava. Cominciai a sentirmi solo, anche se era quello che avevo voluto con quella scelta. Pensai subito a tornare, a lottare e se necessario a soccombere. Ma l’idea mi gettava in una prostrazione immensa, quando pensavo a quest’ultima possibile soluzione. “Ti ho sempre detto cosa pensavo di te, ma con amore; ma non abbiamo mai parlato del passato, che ci fa tanto male ricordare, il passato che conta e che per noi, ipocriti che diciamo che non conta, è ancora più importante che per gli altri. I fantasmi, li vedi, li senti, ci perseguitano, li vedo e anch’io li sento e la stessa ragione per la quale io fuggo, ti rende invece capace di reagire, di cacciare via il passato, anche se ti è così vicino, da poterlo difficilmente dimenticare in là. Ed io ti dico addio, perché non posso e non riesco a sfollare la mia mente dai personaggi odiosi che vi ci hai portato. Serenità che non ho, tutto quello che voglio e che non ho. Dovrà passare, andar via questo tempo, finire e cominciare il nuovo viaggio, la nuova vita fiorire come una primavera. Addio ti ho promesso e sarà l’addio. Se tu mi capissi, staresti lì ferma, ora, senza reagire, ed incosciente aspetteresti anche tu la fine, dimenticando i fantasmi cattivi del passato, fra cui ci sarò anche io, quando non mi vedrai più girarti intorno in quel gioco ariostesco di fiaba, con tornei, cavalieri e dame, cacce d’amore ed intrighi insospettati.” “Sei contentissima di vederti circondata ma non sai più amare, né so se prima tu lo sapessi fare. Sei diventata timida e inceppata ed incuti timore anche a chi ti guarda con amore. Ora che ritorno troverò un’altra vittima, un altro uomo adulato e poi scacciato. Non sei cattiva come vuoi apparire, forse la vita ti ha ridotto così, forse non sai agire diversamente. Ho l’impressione di non aver mai sbagliato con te, ho il timore di averti amato troppo poco, di non essere stato in grado di farmi capire. Ti proibisco di parlare di me come un amico. Non mi interessa che tu non mi abbia amato, il fatto importante è che sia stato io a farlo con te.”
Tornavo a casa. Mi ero fermato in una strada della mia città ed ero trasalito al vedere una vettura dello stesso tipo e dello stesso colore di quella di Leo con due innamorati intenti a scambiarsi i loro affettuosi sentimenti con baci e carezze: ma la targa non corrispondeva.
“Ho sentito il vuoto dentro me e la morte mi ha ghermito per un attimo, ti ho immaginata tra le braccia di un altro vedendo in tutto questo la mia fine. E’ anche dolce provare un dolore che provenga dall’amore, specialmente quando è una sofferenza fittizia della gelosia, che subito passa. Ma quando non passa…. e il dolore è reale messo in confronto con una realtà concreta non più immaginata…si arriva alla disperazione e forse è meglio piangere nel buio. Allora i sogni sono tormentati e mentre la stringi a te ti sfugge e non puoi più averla, tu piangi…tu piangi nel buio”
Tornato al mio paese, nella mia casa, mi accorsi che, volendo dimenticare, avevo troppo ricordato e di non poter fare a meno di quella donna. Avevo troppo sofferto per la lontananza; quei pochi giorni che fui lontano da lei mi avevano ben altrimenti preparato, avevo propositi diversi e mi apprestavo a metterli in pratica. E così la vidi e non appena questo avvenne mi accorsi di amarla ancora moltissimo. Il mio dentro si turbò ed i propositi si dissolsero. La guardavo estasiato e, parlando, non le dicevo che frasi retoriche ed inutili. Non avevo la forza di dirle e di darle tutto me stesso, o quella parte di me che io le avevo dedicato.
Leo non c’era, né da quel giorno l’ho più rivisto, ma dopo Leo ce ne sono stati tanti altri, meno inceppati e sprovveduti di me, che hanno lottato perdendo.
“Ho pensato a te anima mia. Come sei fatta? Perché sei così? Esperienze diverse ci hanno fatto quasi uguali, io ti amo come forse anche tu, ma non abbiamo più la forza ed ognuno adesso sta con un’altra persona, come se niente fosse mai avvenuto. Amiamo corrisposti di un amore burocrate, fatto di baci dati alla mattina, di baci dati alla sera, di lunghi silenzi tormentosi, di incomprensioni, disperazioni e pianti nascosti senza lacrime e ci fa piacere il rivederci nelle serate mondane che il nostro circolo organizza ma sono sempre più retoriche, più fredde le nostre parole e i nostri sguardi tendenti a divenire furtivi.”
“Ho pensato a te anima mia. Sei ancora la mia anima e mi rassomigli, forse sorella. Perché non ci vediamo stasera? Ma è inutile adesso proporti appuntamenti che ugualmente non risolverebbero. Restiamo così nel nostro microcosmo, contenti di guardarci da lontano, di sentire qualche tenue tuffo al cuore, finché la vita ce lo consentirà. Ma forse è meglio scomparire e dirti addio per sempre, anima mia!”
Ieri mi sono sorpreso nel sentirmi chiamare. Sono venuto in questa località di villeggiatura per riposarmi e non avrei mai pensato di ritrovare Leo.
Leo non vi sta in villeggiatura, vi abita. E’ diventato anche un personaggio in vista nell’amministrazione locale e, lui dice, mi ha trovato per niente cambiato. Anche lui, tranne che per la calvizie quasi totale, non è diverso da allora. Mi ha raccontato tutto di sé: è rimasto nel luogo che aveva scelto per il suo lavoro anche per dimenticare il rifiuto netto che aveva ricevuto al tempo del nostro incontro. Si meravigliò che non fossi con lei “Lei ti amava” mi disse “proprio per questo avevo lasciato”. A quel tempo invece a me era parso che lei amasse Leo. Eravamo stati giocati dal suo strano comportamento. Invitai Leo a pranzo a casa mia. Si schermì, rifiutando, e poi, dopo avermi abbracciato e salutato con grande affetto e calore, si allontanò lentamente, senza voltarsi.