LEZIONI DI CINEMA 6

Famiglia Ruocco Retaggio Maddaluno
Cosa significa “lezioni” nel titolo di questa raccolta di momenti diversi che in questi anni si sono susseguiti davanti a me e che hanno contribuito a farmi essere quello che sono, con tutti i limiti che posseggo e che spesso caratterizzano il mio lavoro più di quanto non lo riescano a fare i pregi?
Con il termine “lezioni” ho voluto asserire il mio ruolo di acquisitore più che quello di venditore di cultura; le “lezioni” di cui parlerò sono infatti quelle che mi hanno formato nel corso degli anni anche quando ero io a proporre, ad organizzare momenti diversi nella società, nella cultura, nella politica, nel sindacato. Le “lezioni” dunque non sono quelle che ho impartito nel corso di questi anni ai miei allievi oppure ai cittadini, quando ho dovuto svolgere il ruolo, con grande fatica, di relatore o di professore, ma sono quelle che mi hanno regalato i grandi autori del cinema attraverso i loro capolavori oppure i grandi esperti e critici dell’arte cinematografica oppure gli artisti, i grandi interpreti del cinema, oppure ancora alcuni giovani che appassionandosi al cinema mi stimolavano ad operare insieme a loro su alcuni argomenti, oppure ancora altri giovani che mi hanno insegnato a realizzare cinema pensando di poterlo imparare da me.

LEZIONI DI CINEMA 6

Nel buio della sera si attraversavano alcuni stretti sentieri fra i campi per raggiungere una casa che si trovava proprio al di sopra del cimitero, l’unico cimitero di Procida, che affaccia sulla spiaggia detta del Pozzo Vecchio, la spiaggia che è poi stata “location” de “Il Postino” ultimo film di Massimo Troisi. Se devo parlare di un vero e proprio primo amore o forse di un primo vero e proprio capriccio d’amore è lì infatti che è nato, si è evoluto ed è finito. Nelle “controre” accaldate da ragazzini nel tentativo di dormire a terra nella sala da pranzo, sopra delle lenzuola e dei cuscini appoggiati si parlava e si scherzava, ma difficilmente si riusciva a dormire. Ed in una di queste occasioni, oltre a raccontarci le solite inutili banalità, avevo provato un profondo duraturo eccitamento assolutamente irrisolto e per me in quel momento incomprensibile. “Tardivo” come molti maschi e forse del tutto sorpreso da quanto stava accadendo (ma l’ho capito soltanto qualche giorno dopo) non fui in grado di aggiungere nulla.
Quando la televisione non c’era, nei pomeriggi assolati delle caldi estati, si dormiva sul mezzanino al quale si accedeva attraverso una scala di legno con pioli molto larghi ed in questo luogo assolutamente magico ed unico nella storia della mia infanzia e della mia adolescenza a volte si svolgevano anche lavori particolari ai quali eravamo invitati a partecipare, come allargare la lana dei materassi e dei cuscini. Se nel mio ricordo sono indelebili i tuffi dall’alto dei letti nei morbidi ciuffetti di lana già lavorata vuol dire che il mio peso era minimo e che anche l’età era giovanissima. Ma quello che più ricordo è la narrazione della storia di “Pinocchio” fatta da mia zia, un racconto avvincente che serviva a tenere in quel piccolo spazio tutti i nipoti non di certo per farci lavorare, perché più che altro con i nostri giochi, i nostri scherzi, i nostri tuffi non facevamo altro che intralciare il lavoro dei grandi.
Quando non c’erano lavori quasi sempre si riposava e si sognava e si preparava il nostro futuro, quello immediato e quello lontano ma eravamo tutti ancora veri e propri bambini. Una delle cose che mi piaceva era aprire la porticina del mezzanino e verso sera guardare il mare solcato da qualche nave, con la scia che permaneva e la mia immaginazione che andava alle onde di risacca che sarebbero arrivate al Pozzo Vecchio oppure a Ciraccio. A volte riuscivo a scappare e correvo correvo fra i sentieri per andare verso il mare: la conoscevo a memoria, non avevo bisogno di guardare dove mettevo i piedi nudi, fra i sassi, la polvere ed i ciottoli del basolato, attraversando i campi e correndo sulla stradina “principale”, passando poi davanti all’ingresso del cimitero ed imboccando l’ultima discesa verso il mare, ed era un piacere arrivare sulla piccola e corta spiaggia del Pozzo Vecchio dove di sera prima che scendesse il buio non c’era più nessuno. Bagnarsi i piedi e tuffarsi per un breve bagno e sentirsi al centro della vita e del mondo ascoltando solo il mare e lo stridio dei gabbiani e delle rondini marine sempre particolarmente attive in quella fase dell’anno: era questo il mio piacere di allora. E non comprendevo i più grandi che si affacciavano dall’alto della rupe a picco sulla spiaggia, lontani dalle onde del mare ad osservare inosservati gli innamorati che a volte si appartavano forse convinti anche di godere di una privacy assoluta in qualche angolo della spiaggia in un inconsapevole quasi sempre esibizionismo: a volte c’era anche chi praticava il nudo integrale per una completa abbronzatura ed allora si radunava dall’alto una folla di morbosi curiosi.
Ed in alcuni pomeriggi c’erano anche le “partite” di calcetto: sulla sabbia, lo si sa, ci vogliono tecniche speciali – occorre giocare “di prima” – ed io le avevo acquisite, mentre avevo difficoltà a giocare sui prati normali dei campi da gioco. In una di queste occasioni per l’appunto pomeridiane (al mattino la spiaggia, un po’ corta nella sua profondità, era facilmente affollata dappertutto) nel ripulirmi dalla sabbia dopo una giocata mi feci un taglio, non ho mai capito con che cosa, al piede destro e fui costretto ad andare da solo sanguinante a piedi al “pronto soccorso” che era rappresentato negli anni Sessanta da un piccolo presidio subito dopo la chiesa di San Giacomo in via Vittorio Emanuele. A piedi perdendo sangue per circa cinquecento metri su una strada polverosa dalla quale in quel tardo pomeriggio non transitò anima viva e poi – fosse passato qualcuno – sarebbe andato in direzione opposta alla mia. Al Pronto Soccorso trovai solo alcune infermiere (c’erano due cugine di mia madre) che ripulirono il piede, mi fecero l’antitetanica e, senza anestesia, mi cucirono la ferita con quattrocinque punti. Fu, quella, una prova da “grande” stoico; il dolore era lancinante, ma alla fine, saltellando, tornai a casa di una delle mie zie, quella più vicina, zia Nunziatina, che abitava alla Madonna della Libera…

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COSI’ VICINE COSI’ DISTANTI di NITASHA AFZAL – seconda ed ultima parte

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Il giorno successivo, all’ora di religione, Fariha se ne andò al bar lasciando le sue cose in classe. Clara vide il diario di Fariha dove lei spesso annottava delle cose. Non le piaceva ficcare il naso nelle cose altrui, ma fu incuriosita, voleva vedere cosa è che Fariha scriveva dopo ogni ora e che non voleva far vedere a nessuno. Aprì il diario e vide dei fogli dove Fariha scriveva i suoi pensieri, frasi che le piacevano, informazioni e tutto quello che le veniva in mente. Clara ne prese uno che la incuriosì particolarmente e lesse:
“Vorrei sfondare il mare di paure che ricopre la mia vita ma non ci riesco, non ne ho le forze… a volte ci provo ma la mancanza di forze mi blocca, allora me ne sto muta e immobile nella mia nicchia a contemplare infelice il lieto scorrere del tempo che beffardamente ride, ride prendendosi gioco di me. Incapace, incapace di alzare la cresta di fronte alla mie ferite, sempre pronta a crogiolarmi nel mio dolore, a considerami un essere indegno, incapace di vivere, una smidollata, come se la vita non fosse fatta per me… E’ inutile mentire a se stessi. La verità va oltre le prigioni della mia coscienza, ma ci vuole forza, forza e coraggio per osare quel salto che la vita ci impone lasciandoci in balia di un vuoto divoratore davanti a noi, un vuoto che le nostre paure ci impediscono di sfidare… qual è il limite di tutto? Quale diabolico incantesimo ha costretto le nostre anime dietro le mura delle nostre prigioni? Quale prezzo la nostra umanità deve ancora scontare? E se fossimo un errore, nient’altro che un errore della natura? Che sciocca, la natura non fa errori… come puoi pensare che l’assoluto possa sbagliare? Che sciocca, come fai a porti queste domande? E’ la natura, è la mia natura che me lo impone, la voce della follia che dalle viscere della mia anima scuote avidamente il mio cuore per condurmi a lei e ritrovare finalmente me stessa… ”
Sorpresa da queste parole, da queste verità che pure lei conosceva nel suo inconscio fu sopraffatta dalla fame della conoscenza dei pensieri altrui. Non per pura golosità di soddisfare il proprio bisogno di pettegolezzo, ma di leggere le crude verità o le domande che ciascuno di noi si pone davanti all’infinito.
Su un altro foglio con un pennarello rosso c’era scritto:
“Mi sono confinata nel mondo dei confini. Sì confini. Creati da me per me, per non invadere quelli degli altri, che se invasi creerebbero delle intersezioni, che darebbero vita a parole, sguardi, emozioni e sentimenti. I miei confini sono per proteggermi da ciò che a prima vista sembra bene, felicità, ma poi col tempo, quando i nostri confini vengono calpestati dagli stessi rapporti che noi creiamo uscendo da essi per far sì che delle persone possano avvicinarsi a noi per soddisfare quell’incommensurabile bisogno d’affetto e d’amore che affligge ogni essere umano, perdono senso e da protettivi diventano l’arma che lacera il corpo, il cuore e la psiche”.
Clara era allibita, ciò che aveva letto era vero ma non il vero assoluto. L’uomo non conosce l’infinito e non conoscendolo è inutile porsi dei limiti che possano misurarlo. Decise di farle capire che i limiti “personali” sono diversi da quelli “religiosi” e che la vita è troppo breve per poter perdersi nei pensieri o domande che non avranno mai una risposta se non nel caso in cui si giochi tutto per tutto per trovarne una. Decise di farle provare l’importanza di vivere la vita in prima persona invece di criticarla. Voleva che lei provasse il sapore della vera amicizia, della felicità, della libertà ma aveva un po’ di paura: così facendo non avrebbe mancato di rispetto ai confini di Fariha? Magari lei era felice così, magari aveva deciso di vivere la vita così e aveva il diritto di viverla secondo il suo volere. La sua mente era fusa. Sapeva solo che voleva starle vicino senza oltrepassare i suoi limiti. A quel puntò vide arrivare Fariha in classe, si avvicinò a lei con un dolcissimo sorriso e la abbracciò

Nitasha Afzal

COSI’ VICINE COSI’ DISTANTI di NITASHA AFZAL – prima parte

Pubblichiamo un racconto, diviso in due parti, che un’allieva dell’Istituto “Dagomari” di Prato (l’anno prossimo sarà in quarta classe) ci ha inviato. Nitasha scrive sia in versi che in prosa e tratta argomenti collegati soprattutto ai temi dell’integrazione e della interculturalità all’interno della multiculturalità espressa dalla presenza a Prato di ben 116 gruppi etnici, vale a dire che “a PRATO c’è il MONDO!”

COSÍ VICINE, COSÍ DISTANTI. di Nitasha Afzal

In quella mattinata il professore di scienze naturali decise che Clara non poteva stare più accanto a Matteo, chiacchieravano troppo, e la mise accanto a Fariha.
Clara era una ragazza piena di vitalità, vivace, allegra, spontanea, una di quelle che all’inizio spaventa mentre poi, chi si impegna a conoscerla meglio, capisce che è molto simpatica e piena di energie, divertente e altruista. L’unico suo difetto è di essere molto esuberante.
Fariha dentro dentro non era tanto diversa da Clara, ma fin da piccola era stata cresciuta in modo tale da renderla molto sensibile, questo rendeva difficile i suoi rapporti con la gente, ma non riusciva a isolarla perché, dopo un po’ che la si conosceva, balzava agli occhi che, nonostante il suo carattere discreto, era generosa, candida e aveva una grande capacità di esprimere tenerezza, che inutilmente cercava di nascondere, perché se ne vergognava.
Fariha e Clara si conoscevano da oltre quattro anni, erano vicine tutti i giorni, in quella scuola, in quelle quattro mura, ma in tutto questo tempo si erano scambiate ben poche frasi.
Per la prima ora né Fariha né Clara aprì bocca, se non per chiedere qualcosa in prestito . Quando lo sguardo di Clara si incrociava con quello di Fariha le rivolgeva un lieve sorriso, ma lei non ricambiava, guardava in basso e faceva finta di nulla. Clara decise allora di rompere il ghiaccio, un po’ perché si stava annoiando e un po’ per curiosità di conoscerla meglio, iniziò a parlare. Fariha in realtà non era riservata, come poteva sembrare, ma solo un po’ timida all’inizio. Parlarono di tutto perché c’era stata un’ora di supplenza, così trovarono tutto il tempo di scambiarsi idee e opinioni.
Clara chiese a Fariha come mai le ragazze che provenivano dal suo paese sono così “strane”, chiuse, riservate, e come mai indossano quegli abiti lunghi che coprono tutto il corpo. Fariha sapeva di già la risposta, perché spesso glielo avevano domandato. Così cominciò a spiegare:
«Noi pakistane dobbiamo sottostare ad alcune regole familiari che appartengono alla nostra cultura. In pratica, la donna, finché rimane in famiglia è sottoposta all’autorità del padre e dopo, quando si sposa, passa sotto l’autorità del marito. Secondo la nostra religione la donna ha gli stessi suoi diritti e doveri. I problemi però cominciano quando dal campo religioso si passa a quello sociale.
Hanno un sacco di divieti, per molte è impossibile uscire di casa, è vietato vestirsi come vogliono e ad alcune è perfino vietato andare a scuola, al massimo permettono loro di farlo fino a sedici anni. Di solito non le fanno andare a scuola perché i genitori hanno già programmato il futuro delle proprie figlie, hanno già deciso che, appena raggiungeranno l’età giusta e saranno abbastanza mature, le faranno sposare e a quel punto la responsabilità passerà al loro marito. Per questo pensano che sia inutile mandarle a scuola, farle studiare. Per quanto riguarda le ragazze che si coprono tutto il corpo, per loro significa semplicemente vestirsi decentemente. Ma il punto è un altro, gli uomini Pakistani non sanno controllarsi, non riescono a impedire di lanciare occhiate alle ragazze, anche se mostrano solo il collo, il viso e i tre quarti inferiori delle braccia! È l’effetto del divieto: quando si vieta qualcosa si è tentati maggiormente a trasgredire per cui le nostre stesse regole di “decoro” li fanno venire pensieri “indecorosi”».
Clara rimase stupita dalla spontaneità con cui Fariha rispose e dalla franchezza con cui espose quel problema, come se in tutto quello che avesse detto ci fosse la normalità in persona. Clara per un attimo non capì cosa dire, poi dopo aver riflettuto fece un’altra domanda: «Allora dopo gli studi i tuoi genitori ti faranno sposare con chi vogliono loro e te per tutta la vita servirai quell’uomo?».
Fariha, infatti non aveva grandi progetti per il futuro e quello che Clara aveva detto sostanzialmente era giusto quindi rispose: «Sì, più o meno è così.»
Clara era sbalordita e subito le disse: «Ma come puoi vivere così? Sei anche maggiorenne! Perché lasci che qualcun’altro prenda le decisioni più importanti della tua vita al posto tuo!? Questo non è giusto lo capisci? La tua vita devi viverla te, non loro!».
Clara aveva insistito molto su quell’argomento, ma nulla, Fariha non volle rispondere. Era dell’idea che dando un nome ai propri problemi, questi si sarebbero materializzati e non sarebbe più stato possibile ignorarli, invece, se si fossero mantenuti nel limbo delle parole non dette, avrebbero potuto scomparire da soli, col passare del tempo.
Suonò la campanella e finì anche l’ultima ora, tutti si diressero verso casa felici e spensierati tranne Clara.
Mentre andava a casa stava pensando che spesso gli insegnanti avevano proposto a Fariha di partecipare a molti progetti perché lei era molto intelligente e capace, ma lei aveva sempre rifiutato, Clara pensava che Fariha rifiutasse perché era un po’ pigra o aveva di meglio da fare ma mai si sarebbe immaginata che aveva lasciato tutte quelle opportunità di provare nuove esperienze perché qualcuno glielo impediva. (1.continua)
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LEO -parte terza ed ultima con brevissimo commento

LEO parte terza ed ultima

“Ho pensato a te anima mia. Come sei fatta? Perché sei così? Esperienze diverse ci hanno fatto quasi uguali, io ti amo come forse anche tu, ma non abbiamo più la forza ed ognuno adesso sta con un’altra persona, come se niente fosse mai avvenuto. Amiamo corrisposti di un amore burocrate, fatto di baci dati alla mattina, di baci dati alla sera, di lunghi silenzi tormentosi, di incomprensioni, disperazioni e pianti nascosti senza lacrime e ci fa piacere il rivederci nelle serate mondane che il nostro circolo organizza ma sono sempre più retoriche, più fredde le nostre parole e i nostri sguardi tendenti a divenire furtivi.”
“Ho pensato a te anima mia. Sei ancora la mia anima e mi rassomigli, forse sorella. Perché non ci vediamo stasera? Ma è inutile adesso proporti appuntamenti che ugualmente non risolverebbero. Restiamo così nel nostro microcosmo, contenti di guardarci da lontano, di sentire qualche tenue tuffo al cuore, finché la vita ce lo consentirà. Ma forse è meglio scomparire e dirti addio per sempre, anima mia!”
Ieri mi sono sorpreso nel sentirmi chiamare. Sono venuto in questa località di villeggiatura per riposarmi e non avrei mai pensato di ritrovare Leo.
Leo non vi sta in villeggiatura, vi abita. E’ diventato anche un personaggio in vista nell’amministrazione locale e, lui dice, mi ha trovato per niente cambiato. Anche lui, tranne che per la calvizie quasi totale, non è diverso da allora. Mi ha raccontato tutto di sé: è rimasto nel luogo che aveva scelto per il suo lavoro anche per dimenticare il rifiuto netto che aveva ricevuto al tempo del nostro incontro. Si meravigliò che non fossi con lei “Lei ti amava” mi disse “proprio per questo avevo lasciato”. A quel tempo invece a me era parso che lei amasse Leo. Eravamo stati giocati dal suo strano comportamento. Invitai Leo a pranzo a casa mia. Si schermì, rifiutando, e poi, dopo avermi abbracciato e salutato con grande affetto e calore, si allontanò lentamente, senza voltarsi. (fine)

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Il racconto, da me ritrovato in un vecchio quaderno fra la polvere dei miei scatoloni, è degli anni Sessanta. L’affermazione “Ogni riferimento ad eventi, cose e persone è puramente casuale” corrisponde alla assoluta verità. Leo è una persona vera ma non ha mai avuto nella mia vita il ruolo che gli ho dato. Li chiamerei “Esercizi” senza aggiungerci altro.

Pubblicherò domani il racconto nella sua interezza     (j.m.)

LA CICLABILE DI SAN PAOLO A PRATO – Esempio di uno “spreco” che non sa di essere tale

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La “ciclabile” di San Paolo a Prato – Esempio di uno “spreco” che non sa di essere tale di J.M.

A volte l’Amministrazione non sa cosa fare per un Quartiere e si inventa delle soluzioni che sono peggiori dell’inazione. E’ infatti uno di questi casi quello di cui parleremo qui: la “ciclabile” di San Paolo. E’ accaduto che l’Amministrazione di Centrodestra si sia trovata in “debito” elettorale con la popolazione di San Paolo ed abbia avuto la necessità di investire su quel territorio; vi erano dei “fondi” regionali che stavano per scadere e che riguardavano “interventi a favore dell’ambiente e dell’ecosostenibilità”, interventi tipo “ciclabili” per incentivare lo spostamento ecologico delle persone. Interventi che erano stati già preventivati nella legislatura 20042009 e che riguardavano sia la manutenzione delle ciclabili esistenti sia la messa in opera di nuovi percorsi che dalla “periferia” si collegassero al Centro storico. Per San Paolo era stato previsto un percorso che dalla stazione di Borgonuovo si dirigesse verso il Centro in una linea più che altro parallela a quella ferroviaria. Ma vuoi mettere una linea retta banalissima con una a zig zag fra le stradine di San Paolo? Ecco, crediamo che i tecnici del Comune si siano rifiutati di procedere in un progetto così ovvio privilegiando scelte avveniristiche  per le emozioni ed i pericoli da affrontare ad ogni giravolta; in effetti è evidente che chi si mette in bicicletta voglia provare anche qualche brivido, no? Penso che si siano chiesti, per l’appunto, se non valesse la pena costruire qualcosa che somigliasse un po’ di più alle “Montagne russe” al posto di una noiosa lunga e diritta linea rossa. Tra le altre cose quest’ultima avrebbe attraversato luoghi tranquilli e poco trafficati, mentre quella prescelta presentava insidie ad ogni passo sia per la presenza di “passi carrabili” sia per gli attraversamenti su strade molto intensamente praticate. Ma, si sa, l’uomo è sognatore ed ha bisogno di mostrare che sa inventare e pensare, per cui a San Paolo ci si è trovati di fronte ad un Progetto che faceva invidia alla Danimarca ed alla Svezia, che non mancheranno di venirlo a studiare. Il percorso, straordinario, ha avuto anche il pregio di passare davanti a molti passi carrabili in pendenza, davanti alle porte di molti negozi, sopra tombini pubblici (Publiacqua)  e privati (pozzi neri); percorre uno spazio riservato esclusivamente al mercato settimanale e si interrompe provvisoriamente nell’ingresso con tornelli ad un viale di uno dei Giardini pubblici del Quartiere; inoltre entra in almeno tre casi in strade trafficate con scarsa e difficoltosa visibilità. Ora, è chiaro che – essendo cambiata l’Amministrazione (da Centrodestra a Centrosinistra) – a qualcuno potrebbe venire la voglia di chiedere che questo obbrobrio sia eliminato. Sarebbe una iattura e quasi certamente non lo avremmo chiesto nemmeno se la caratteristica dell’Amministrazione non fosse cambiata; intanto perché è bene che rimanga a memento di come si sprecano i soldi pubblici fingendo di saperli utilizzare. E poi perché il danno sarebbe maggiore; l’avessero potuto chiamare, quell’intervento “cura ed abbellimento del Quartiere” sarebbe stato accettabile: ma la “ciclabile” no, anche perché ora che avete letto questo articolo provate a passarci, magari fatelo anche con una bicicletta. Intanto vi troverete pressochè soli (i lettori di questo Blog non sono tanti ed i frequentatori sono rarissimi) e poi potrete verificare gli addebiti che poniamo. La nuova Amministrazione faccia tesoro di questa esperienza; fra l’altro in essa (in posti chiave!) si trovano anche alcuni strenui difensori del tracciato della “ciclabile” che, per contrappasso, inviterei a frequentare quotidianamente anche per recarsi in Centro. Eh sì, perché in difesa di quell’ obbrobrio di cui i “tecnici” (che sono peraltro sempre gli stessi di prima) si vantano, si sono schierati anche alcuni alti dirigenti del Partito Democratico, che non hanno voluto – se non in minima parte quando si è cercato di limitare i danni – ascoltare le ragionevoli critiche. Occorre dire anche che alcuni pseudo verdi ecologisti d’antan nel corso dei dibattiti telematici senza mai venire a verificare in diretta i motivi dei dissensi espressi hanno difeso a spada tratta la “ciclabile” fidandosi esclusivamente del sostantivo o aggettivo che dir si voglia a dimostrazione che la battaglia per noi concreta veniva interpretata solo in chiave ideologica. E non bastava premettere “non abbiamo nulla in contrario per le “ciclabili”” per convincere della nostra buona disponibilità per la salvaguardia dell’Ambiente. Eppure avevamo ingaggiato contese con l’Amministrazione chiedendo anche che i fondi previsti per l’obbrobrio fossero destinati alla manutenzione delle ciclabili esistenti; ma non eravamo stati ascoltati. Ora, con il cambio di Amministrazione, non siamo affatto convinti che l’atteggiamento possa cambiare. Anche perché i “tecnici” che hanno partorito il progetto sono sempre lì al loro posto. A proposito, che fine hanno fatto le bici di BICINCITTA’ di via Toscanini?

 

Biciincittà

UN INVITO AI LETTORI DI QUESTO BLOG

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JOSHUA MADALONImmagine mia

Questo Blog è “aperto” alla collaborazione di ciascuno di coloro che vorranno parteciparvi. In questa fase “iniziale” è del tutto evidente che la partecipazione non può che essere per “passione”. Non esiste un target precostituito né una linea prefissata. Quello che è il mio pensiero non costituisce in alcun modo pregiudizio verso il libero pensiero di chicchessia purchè non si travalichino i limiti del buon gusto e non si rechi offesa ad alcuno.
Invito dunque tuttei coloro lo desiderino ad inviarci loro proposte in tema di Cultura – Politica – Narrativa. Ad ogni buon conto potete inviare anche proposte su tematiche che non abbiamo ancora avviato nel nostro primo mese di presenza.

JOSHUA MADALON

LEZIONI DI CINEMA 5

CARCIOFI

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LEZIONI DI CINEMA 5

La vita in campagna era anche contrassegnata da alcuni compiti, che tuttavia essendo io di città non ero in grado (o meglio non ero considerato in grado) di svolgere. Andare ad accudire alle capre, significava anche raccogliere il loro latte ed io non l’ho mai fatto: potevo invece raccogliere le uova ed era molto piacevole prenderle calde e rompendone un pezzo della parte più stretta succhiarne il contenuto; oppure andare a raccogliere l’erba, una certa erba, non tutta quella che cresceva nei campi, per i conigli, una tal altra per le capre, una tal altra ancora per le galline. Si potevano raccogliere i pomodori, si potevano raccogliere le more, si potevano raccogliere i peperoncini, non di certo le patate perché era possibile sia darsi una zappa sui piedi sia rovinarle completamente: ci vuole una certa maestria nel raccogliere le patate ed io non l’ho mai fatto bene. Era molto facile ed a volte anche divertente salire sulla pianta di fico e stare lì, semmai con un tozzo di pane a fare merenda in diretta. Uno di questi fichi sempre stracarico di frutti maturi era sopra una casupola ben recintata dove c’erano le capre e le galline ed alla base della quale c’era anche una vasca nella quale con un sistema di canalizzazione affluiva l’acqua piovana per poterla utilizzare alla bisogna nei periodi di siccità. Su quella vasca si affacciava una pianta di limone che lasciando cadere ivi le sue foglie ed i suoi frutti maturi creava macerandosi nell’acqua stagnante un odore particolare di un’intensità mai più provata fuori dell’isola. Sul tetto a spioventi lievemente bombati e convessi come tutti gli altri delle abitazioni procidane si accedeva appoggiando ad uno dei lati una scala di legno a gradini ed era uno dei luoghi magici che preferivo: il profumo degli alberi di limone (non è un caso che parli di alberi e non di limoni, in quanto è il complesso che rende l’ambiente unico: è un po’ come succede al vino che trasportato da una località all’altra perde quella fragranza che lo caratterizza nella sua sede naturale) a Procida ha una caratteristica totalmente diversa da quella delle altre località partenopee, diversa ad esempio da quello della costiera amalfitana, diversa anche dallo stesso limone dell’Isola di Ischia, che da quel posto dove vivevano i miei si riusciva quasi a toccare con mano. Ho, adesso che sono lontano non solo dal punto di vista geografico, mantenuto un rapporto strano con questa singolare caratteristica di tipo certamente antropologico: non riesco a vivere serenamente se in casa o anche nella sede in cui mi trovo manchino i limoni, per cui molto spesso chi mi viene a trovare scopre ceste e cassetti del frigo pieni di limoni, dei quali molte volte annuso la buccia. Non sono assolutamente gli stessi, ma mi accontento. La vita dalle zie tutte nubili fino al termine dei loro giorni era ancor più straordinaria fino a quando alla fine degli anni Cinquanta non è arrivata prima l’ elettricità e poi l’acqua corrente. Non è più possibile ricreare quell’atmosfera che si verificava verso l’imbrunire, allorquando sia gli uccelli sia le galline riprendono in modo diversamente rumoroso la via di casa: noi bambini eravamo attesi per le abluzioni serali (intere o quasi intere) dentro ampie tinozze di coccio o di stagno, e difficilmente riuscivamo, anche se dei tentativi li attuavamo, a sfuggirle. Il buio scendeva lento ed intanto nelle stanze venivano accesi i lumi a petrolio che fornivano luce sulla tavola imbandita parcamente e, quando era inverno, si accendeva anche la carbonella per i bracieri che avrebbero dovuto riscaldare più tardi le nostre membra intirizzite e piene di “geloni”. Non era ancora il tempo né dell’elettricità né della televisione, o almeno non lo era per la casa delle mie zie. Infatti qualche altra famiglia meno lontana dalla strada principale aveva già la corrente elettrica ed aveva già, come segno di grande ricchezza acquisita (a Procida la maggior parte viveva negli agi perché in una famiglia spesso più di un membro lavorava sul mare, sui grandi transatlantici o sulle petroliere, e guadagnavano molto bene per quell’epoca), l’apparecchio televisivo. A volte come del resto accadeva da ogni altra parte in quel tempo, trasmigravamo, di solito avveniva la sera del sabato o della domenica, allorché c’era il programma di maggiore generale gradimento (di solito “Canzonissima” o altro equipollente): si andava tutti a casa di questi amici più fortunati ed erano, queste visite, anche occasioni buone per rafforzare amicizie e far nascere, e morire semmai, nuovi amori.

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LEO seconda parte

LEO un racconto da un manoscritto degli anni Sessanta

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Lì dove andai c’era gente che io non conoscevo, che non mi salutava. Cominciai a sentirmi solo, anche se era quello che avevo voluto con quella scelta. Pensai subito a tornare, a lottare e se necessario a soccombere. Ma l’idea mi gettava in una prostrazione immensa, quando pensavo a quest’ultima possibile soluzione. “Ti ho sempre detto cosa pensavo di te, ma con amore; ma non abbiamo mai parlato del passato, che ci fa tanto male ricordare, il passato che conta e che per noi, ipocriti che diciamo che non conta, è ancora più importante che per gli altri. I fantasmi, li vedi, li senti, ci perseguitano, li vedo e anch’io li sento e la stessa ragione per la quale io fuggo, ti rende invece capace di reagire, di cacciare via il passato, anche se ti è così vicino, da poterlo difficilmente dimenticare in là. Ed io ti dico addio, perché non posso e non riesco a sfollare la mia mente dai personaggi odiosi che vi ci hai portato. Serenità che non ho, tutto quello che voglio e che non ho. Dovrà passare, andar via questo tempo, finire e cominciare il nuovo viaggio, la nuova vita fiorire come una primavera. Addio ti ho promesso e sarà l’addio. Se tu mi capissi, staresti lì ferma, ora, senza reagire, ed incosciente aspetteresti anche tu la fine, dimenticando i fantasmi cattivi del passato, fra cui ci sarò anche io, quando non mi vedrai più girarti intorno in quel gioco ariostesco di fiaba, con tornei, cavalieri e dame, cacce d’amore ed intrighi insospettati.” “Sei contentissima di vederti circondata ma non sai più amare, né so se prima tu lo sapessi fare. Sei diventata timida e inceppata ed incuti timore anche a chi ti guarda con amore. Ora che ritorno troverò un’altra vittima, un altro uomo adulato e poi scacciato. Non sei cattiva come vuoi apparire, forse la vita ti ha ridotto così, forse non sai agire diversamente. Ho l’impressione di non aver mai sbagliato con te, ho il timore di averti amato troppo poco, di non essere stato in grado di farmi capire. Ti proibisco di parlare di me come un amico. Non mi interessa che tu non mi abbia amato, il fatto importante è che sia stato io a farlo con te.”

Tornavo a casa. Mi ero fermato in una strada della mia città ed ero trasalito al vedere una vettura dello stesso tipo e dello stesso colore di quella di Leo con due innamorati intenti a scambiarsi i loro affettuosi sentimenti con baci e carezze: ma la targa non corrispondeva.

“Ho sentito il vuoto dentro me e la morte mi ha ghermito per un attimo, ti ho immaginata tra le braccia di un altro vedendo in tutto questo la mia fine. E’ anche dolce provare un dolore che provenga dall’amore, specialmente quando è una sofferenza fittizia della gelosia, che subito passa. Ma quando non passa…. e il dolore è reale messo in confronto con una realtà concreta non più immaginata…si arriva alla disperazione e forse è meglio piangere nel buio. Allora i sogni sono tormentati e mentre la stringi a te ti sfugge e non puoi più averla, tu piangi…tu piangi nel buio”

Tornato al mio paese, nella mia casa, mi accorsi che, volendo dimenticare, avevo troppo ricordato e di non poter fare a meno di quella donna. Avevo troppo sofferto per la lontananza; quei pochi giorni che fui lontano da lei mi avevano ben altrimenti preparato, avevo propositi diversi e mi apprestavo a metterli in pratica. E così la vidi e non appena questo avvenne mi accorsi di amarla ancora moltissimo. Il mio dentro si turbò ed i propositi si dissolesro. La guardavo estasiato e, parlando, non le dicevo che frasi retoriche ed inutili. Non avevo la forza di dirle e di darle tutto me stesso, o quella parte di me che io le avevo dedicato.

Leo non c’era, né da quel giorno l’ho più rivisto, ma dopo Leo ce ne sono stati tanti altri, meno inceppati e sprovveduti di me, che hanno lottato perdendo. (2. continua)

Eh no, quello che stringo nelle mani non è il manoscritto: qui siamo alla fine degli anni Quarantainizio Cinquanta

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VOCI FUORI DAL CORO

Libertà e Giustizia

VOCI FUORI DAL CORO
Da qualche mese non riesco a condividere più la linea ufficiale del Partito Democratico, che ho contribuito “in primo (non primissimo, ma comunque primo) piano” a far nascere, concependone la necessità già molto prima che altri la prendessero in considerazione. Orgoglioso e presuntuoso, sì; sono tale e sfido coloro che ne avvertissero per strumentalità la necessità di muovere questi addebiti come accuse ed elementi negativi a farsi avanti. Nondimeno, pur non condividendo tale linea, non rinuncio ad una battaglia “legale”, ma senza impegnare terze persone, perché venga riconosciuto il diritto a coloro che “fecero il PD” di sostenere le loro posizioni liberamente senza rinunciare all’appartenenza. Avverto che ciò, anche se nell’indifferenza “offensiva” di ipocriti gruppi dirigenti, in una situazione che spinge la leadership a limitare la libertà di espressione di alcuni parlamentari (il caso Mineo è evidenza logica e razionale = se non fai quel che ti si chiede sei fuori), non è affatto facile; ma questo aspetto non mi spaventa. Piuttosto, soccorso dalla Storia, quella più e quella meno recente mi avvio a delle riflessioni che, come intravedo da alcune letture recenti, non sono vaghe peregrine e meramente personali. Abbiamo sentito il leader del PD tuonare contro i disfattisti e farsi forte di una volontà popolare che è trasversale ed a-politica semplicemente riferendosi senza menzionarli a sondaggi che tendono ad accontentare il popolo indistinto ed inferocito a causa dei demeriti di una classe politica non estranea né a Renzi né a tantissimi di quelli che si dichiarano suoi sostenitori. Quel popolo a cui si intende dare ascolto è lo stesso popolo che dovrebbe ribellarsi (in effetti lo farebbe pure se non avesse perduto la fiducia nell’essere ascoltato nelle richieste sacrosante di far ripartire l’economia e far riavviare il mercato del lavoro) ma non lo fa perché non sa più nemmeno organizzarsi e non riesce più – anche per un deficit di cultura – a rappresentare le sue istanze se non in maniera individuale come elemento di sondaggio. Questo sfilacciamento consente ad una classe di potere furba ed avida che si picca di rappresentare il “rinnovamento” nelle forme e nella sostanza (ma né quelle – homines novi e giovani vecchi nei metodi – né questa – la furia selvaggia in un accelerato iter di “riforme” che mortificano la nostra Storia repubblicana – affermano o preludono ad un cambiamento davvero rivoluzionario) di appropriarsi (o riappropriarsi) delle leve del comando senza averne il “merito” ma semplicemente con un’azione scorretta di pirateria politica (le Primarie dello scorso anno). E così, andando avanti, continuando ad umiliare l’intelligenza e la cultura si rende sempre meno importante la partecipazione dal basso e si “valorizzano” (!) i piani intermedi e quelli alti del Potere. A casa mia tutto questo – sia chiaro – ha ben poco a che vedere con la Democrazia.
Parlavo di “disfattismo” e sono andato a rileggere un intervento di Adriano Prosperi su “Repubblica” del 15 giugno 2009. Il prof. Prosperi parlava di Mussolini e Berlusconi ma le sue riflessioni appaiono quanto mai attuali. L’articolo ha per titolo “Il fantasma necessario del disfattismo” e vi si legge:
“Il filo dell’ attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit motiv della propaganda del regime. Se rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo. Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese. E’ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l’ Italia ha già conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi.”

Anche Libertà e Giustizia nell’aprile scorso ha elaborato una riflessione cruda ma drammatica del “cul de sac” in cui si è andato ad infilare la Sinistra con la sua incapacità di esprimere una via d’uscita negli anni passati. Ci si è felicemente crogiolati nei solipsismi intellettuali senza comprendere che si attraversava un periodo di “guerra-nonguerra” nel quale bisognava fare fronte comune senza storcere la bocca ma anche senza doversi necessariamente turare il naso.

E Salvatore Settis sempre nell’aprile di quest’anno elabora una riflessione sui rischi che con il Governo Renzi ad essere “rottamata” sia la nostra “Democrazia”:

“… occorre fermare la «svolta autoritaria» del governo, perché il progetto di riforma costituzionale tanto voluto dal premier è «affrettato, disordinato e assolutamente eccessivo». Tanto per cominciare, «non si può accettare che a incidere così profondamente sulla Carta sia un Parlamento di nominati e non di eletti, con un presidente del Consiglio nominato e non eletto»….Il guaio è che il male viene da lontano: si tratta di «decisioni prese in stanze segrete», che «non ci sono mai state spiegate», perché sono i diktat del neoliberismo che vorrebbe sbaraccare lo Stato democratico, visto come ostacolo al grande business…”
Continua il prof. Settis: “ Solo che finché si adeguano Berlusconi e Monti mi stupisco ben poco. Ma che ceda il Pd, che dovrebbe rappresentare la sinistra italiana, è incredibile. E porterà a un’ulteriore degrado del partito, e dunque a una nuova emorragia di votanti».

Secondo Settis, «La sinistra sta proprio perdendo la sua anima: si sta consegnando a un neoliberismo sfrenato, presentato come se fosse l’unica teoria economica possibile, l’unica interpretazione possibile del mondo».
Renzi cavallo di Troia di questo neoliberismo che ha colonizzato la sinistra? «Certamente l’unico elemento chiaro del suo stile di governo è la fretta».Dice Settis. «Dovrebbe prima spiegarci qual è il suo traguardo e poi come vuole arrivarci. Non basta solo la parola “riforma”, che può contenere tutto. Anche abolire la democrazia sarebbe una riforma». “Quello che cerca Renzi” continua Settis, «è l’effetto annuncio, il titolone sui giornali: “Renzi rottama il Senato”. Lui punta a una democrazia spot, a una democrazia degli slogan. Se il premier sostiene che la Camera alta non è più elettiva, ma doppiamente nominata, allora significa che ha veramente perso il senso di che cosa voglia dire “democrazia”». Un nuovo Senato composto da sindaci e presidenti di Regione? «Mi pare una concessione volgare agli slogan leghisti secondo i quali il Senato dev’essere la Camera delle autonomie, cioè l’anticamera dei secessionismi. È inutile festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia se poi i nostri figli rischiano di non celebrare il 200esimo compleanno».

Ecco perché, sentendomi purtroppo in buona compagnia, c’è da preoccuparsi e non si può far finta di niente.

MCM20027

Settis Salvatore

LEO prima parte

 

MCM20027

 

di Joshua Madalon

– da un manoscritto degli anni Sessanta –

 

è questa la prima parte di un racconto scritto nel 1967 – la seconda e la terza parte saranno pubblicate nei prossimi giorni

 

 

“Leo, Leo!…”, sotto una pioggia leggera leggera Leo si allontanava. Mi appoggiavo al portone, assaporando un non so che di erotico allo sfiorare la pelle del mio viso sul liscio del legno. Un’idea abbandonata ormai veniva di nuovo a ritrovarmi. Viva come era stata anni fa; la pioggia era lieve, abbandonai il portone, contento di bagnarmi il volto.  “Se la festa fosse stata fatta stasera….” pensai e non so se sadico o dispiaciuto.  Avevo una voglia pazza di litigare, non ero più come una volta. Se ami devi essere ricompensato di uguale affetto, ma io mi ritrovo sempre con un pigno di mosche.  “Quest’anno mi fidanzo seriamente, una volta per tutte, quest’anno comincio una nuova vita…” e ricordo Natale, Pasqua e le letterine di buoni propositi celati sotto il piatto di papà.

“Ho visto chi eri, ti ho capita, è inutile che ti nascondi, bambina, dietro i tuoi castelli di sabbia. Vedi, basterebbe un calcio!!! … Ma tu mi precedi e sei brava a distruggere anche il “mio” piccolo castello”. “Quando sorridi forse pretendi anche troppo da una persona come me che non ha più fiducia, e non chiedermi perché sono così, per amore non ti risponderei”. Poi tu mi ripagavi di uguale umore, quando la mia vita aveva qualcosa da comunicare. La gente che ci circondava era quella che poteva parlare, poteva dire ogni cosa. Solo noi con qualcosa che ci rompeva dentro, ci scavava e si rintanava ogni giorno quando ci toccava di vederci per una quotidiana specie di tortura, non parlavamo mai, se non con frasi convenzionali, del tipo che più si può immaginare consueto. “Cosa fai, oggi?” mi veniva da indagare. Leo era annoiato, per un motivo uguale, lo si vedeva sempre stanco, un sorriso sforzato e così risparmiavo ogni volta di guardarmi allo specchio. Avevo sospettato che fosse anche lui innamorato, forse di gente che mi interessava talmente da non potermi permettere di perdere colpi. E così ritornavo alle bambinate dei diciotto anni. “Oggi resto aleggere:::” diceva e semmai la mia mente vagava seria e gelosa al pensiero di una grossa bugia, disperandomi al supporre che potesse anche lei essere innamorata di Leo. Ma in fondo chi era Leo? A dire la verità, io non lo sapevo, ma avevo avuto subito l’impressione che fosse una persona a modo, molto seria e questo mi aveva fatto paura. La sua dimestichezza con Leo dopo qualche giorno mi aveva angosciato, sentivo sfuggirmi la vita e non sapevo reagire. Certamente non sapevo anche se potevo. A quel punto mi sentivo di reagire violentemente e non mi piaceva, per la seconda volta, usare violenza. “Le mie voci le conosci, quella bassa, carezzevole, vellutata, invitante; quella alta, violenta, irosa” Così avevo deciso, avrei parlato a Leo, perché non me la sentivo più di continuare. Sotto la pioggia, si allontanò, invece, veloce, cercando invano di scansare più gocce possibile. Non lo rincorsi. Improvvisamente avevo pensato di fare altrimenti: di partire per un breve viaggio, dando il tempo ad ognuno dei due di decidere senza la mia presenza, senza che io restassi a soffrire insieme a loro. E così preparai il piano autoletale. “Ti permetti di girare, conciato in questo modo, solo perché sei fuori casa; al tuo paese ti prenderebbero per un folle, ma da turista te lo puoi permettere”  Il sapore dolce, il profumo dell’alba, ottimo palliativo per i miei dolori; su una barca affittata, in mezzo al mare senza mettere mano ai remi, trainato dalla corrente. ” Ed ora dovrei dirti addio! Scomparire per sempre, dovrei dirti addio! Ma chi sei tu, così importante da sconvolgere la mia vita, da farmi sentire quasi male benché vivo?”  “Ho bevuto alla fontana di un’acqua che mi sembra “purezza”, ma non mi basta, ho sentito volare qualcosa, forse un uccello marino, ma mentre sollevavo lo sguardo per vedere è scomparso, andato via in un’isola che non conoscerò”  “Ora sento che ti amo e se tu fossi qui non te lo direi, anche perché non so farlo, ma di più perché andavo pensando: “A che vale un amore quando è rivelato? A che vale un amore se non è sofferenza, se non è nascosto, se non ti ispira liriche di dolore, di rammarico per quel che potevi e non hai fatto, ed intanto ti avvampa, ri rende ora irascibile e geloso, ora calmo e risoluto e ti senti invincibile, laddove prima sembravi solo un vinto”.(1. continua)