“LA VITA E’ SOLO SOFFERENZA! ma allora fate in modo che cessi la vita che è solo dolore !” (F.W. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”

“LA VITA È SOLO SOFFERENZA! MA ALLORA FATE IN MODO CHE CESSI LA VITA CHE È SOLO DOLORE!”. (F.W.Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”)

di Federica Nerini

Federica Nerini

La sofferenza è la più sublime condizione dell’anima. Uno degli enigmi più difficili ed irrisolvibili per l’uomo come singolo e come umanità è la “conoscenza della coscienza”, ossia il diventare “autocoscienti”. Quando nell’uomo si riesce a raggiungere quel rafforzamento quasi orgiastico della autocoscienza , in cui c’è il contatto sensoriale con l’anima e l’essenza in sé? In quei minuti si ha una delle più alte avventure, perché si ha l’estrema consapevolezza della presenza del nostro essere come sofferenza. Sono istanti memorabili in cui i sentimenti, le passioni, le paure, i rimpianti, le colpe, le tenebre, gli sforzi e gli avvenimenti vissuti ti passano accanto senza poterli sfiorare. È un “momento in cui si può dare tutta la vita”. In altre parole, la coscienza non appartiene all’esistenza individuale dell’uomo, ma alla sua natura; quindi se il genere umano è per natura dolente, significa che la sofferenza è la via per arrivare all’autocoscienza, e all’oggetto cardine della coscienza: “la conoscenza di se stessi”. Comprendere se stessi attraverso le atrocità della vita è un modo per elevarsi e nutrirsi di anima propria. La sofferenza è una delle cose più straordinarie che Dio ci abbia mai dato, grazie ad essa diveniamo consapevoli della nostra esistenza. “Io soffro, quindi esisto”, questo è il nuovo mantra che dovremmo incidere sopra gli usci delle case! Raggiungeremo l’elevazione di noi stessi!
Noi cerchiamo spudoratamente di “attendere il tempo”, poiché prima o poi “qualcosa deve pur arrivare”, qualcosa di evangelico, surreale ed incredibilmente onirico. Siamo schiavi della “sorpresa” tiranneggiante, ma l’uomo non sa che la sorpresa è soffocata da due forze inscindibili ed ambivalentemente affascinanti: “il bene e il male”. Quando si è presi dalla sorpresa si abbandona la monotonia vitale, quella che frequentiamo assiduamente ogni giorno (che genera convenienza e sicurezza), e captiamo la “felicità” o la “sofferenza” del cambiamento generato dall’ indesiderato. È una formula triste e sconsolata quella a cui assistiamo, come quando si osserva in un lungo viaggio un rudere vecchio ed abbandonato; veniamo assaliti dalla melanconia se pensiamo che quest’ultimo prima era un nido familiare, magari vissuto fino all’ultimo mattone e abitato dal tedio giornaliero, forse in un’altra vita…
Felicità e sofferenza sono medicine per malati ingordi ed incurabili: “Solo attraverso la sofferenza si può conoscere l’epifania labile della felicità”. Nietzsche aveva ragione in “Al di là del bene e del male”; infatti la passione per l’ “eudemonia” e la sua incredibile scoperta, si può avere solo attraverso la “conoscenza della sofferenza in tutta la sua essenza”. Nella “Gaia Scienza” egli afferma con estremo zelo: “Sicché oggi, anche troppo volentieri, (gli uomini) sono ormai disposti a sospirare e a non trovare più nulla nella vita, nonché a guardarsi l’uno nell’altro con aria afflitta come se questa vita fosse assai pesante da sopportare. In verità, essi sono enormemente sicuri della loro vita e di essa sono innamorati, e sono pieni di indicibili astuzie e sottigliezze per spezzare quel che non fa piacere, e togliere al dolore e all’infelicità la loro spina. Mi pare che si parli sempre in modo esagerato del dolore e dell’infelicità”. Queste parole possono penetrare l’anima disturbata di qualunque uomo afflitto, sono come fulmini potenti che illuminano l’Olimpo della ragione. I decibel dei tuoni percuotono in frequenza, e sono come sincopati dal ritmo armonico dalla caduta delle lacrime salate: tutti soffrono vivendo.
Allora come faremo noi a cogliere l’attimo e a sfuggire ad un’esistenza che è solo dolore? Utilizzando la “vita come mezzo della conoscenza”: con questo principio nel cuore si può soltanto valorosamente, ma perfino gioiosamente vivere e gioiosamente ridere! Anche se non sappiamo niente della guerra e della vittoria. Si deve imparare ad amare, a soffrire, a vivere e morire, altrimenti non c’è verso. Perché mai dovremmo accettare la nostra vita dissolutamente infelice fino allo stato cronico, aspettando l’ora maligna in cui cambia la “bonaccia” salvifica?
Spinoza diceva: “Non ridere, non piangere, né detestare, ma comprendere!”. Poiché “il comprendere” (ossia, l’ “intelligere” in latino), racchiude in sé con tutto il suo splendore e in maniera straordinariamente evidente i tre verbi all’infinito precedenti. La conoscenza è la forza assoluta per “imparare a vivere”, altrimenti l’ignoranza si impadronirà dei nostri pensieri fino a delirare! L’ignoranza è il più grande male! È questo “intelligere” la summa di tutti i flussi e gli impulsi che il mondo abbia mai creato. Soprattutto attraverso la conoscenza, impariamo ad amare tutte le cose che abbiamo amato fino ad ora, perché le abbiamo prima comprese ed “esplorate con le vele a mezz’aria”, e poi amate. Però purtroppo, un’ enorme passione per la cosa o persona amata porta ad una sofferenza latente e ad una infelicità irrisolta, e solo Dio sa il perché… Si deve imparare da tutto, anche dall’amore. Allora, come affermerebbe Nietzsche: “questo dovrebbe avere come risultato una felicità di un Dio colmo di potenza e di amore, di lacrime e di riso, una felicità, che come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge in mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro!”. Questo sentimento è la felicità? No, è l’ “umanità”, ed è più grande di qualunque sofferenza. Dovremmo comportarci come i grandi “uomini giapponesi” verso chi ci ferisce. Questi ultimi, quando ricevono un oltraggio si squarciano il ventre di fronte al nemico che li ha offesi, dicendo: “Solo io ho il diritto di farmi soffrire!”. Noi di fronte alla nostra sofferenza urleremo con “voluttà e peccato”: “Non hai il diritto a non farmi vivere!”.
Forse noi dovremmo trascorrere ogni giorno, vedendo la nostra storia con gli occhi di un condannato a morte che poi verrà graziato solo nell’ultimo istante, così vivremo la nostra vita “tenendo conto”, afferma Dostoevskij di “ogni minuto”, sebbene si perdano degli “istanti preziosi” sempre. Negli ultimi cinque minuti prima dell’esecuzione capitale dovremmo esaltare l’intera nostra essenza esistenziale: due li utilizziamo per salutare i nostri pensieri più sofferti ed irrisolti; gli altri tre li lasciamo per noi, sì, solo per noi stessi, perché dovremmo pur pensare alla nostra colpevole esistenza! Ma se noi siamo dei lestofanti destinati alla gogna, allora la vita è un palcoscenico tetro in cui si recita la ripetitiva ed indomata “tragoedia” latina? Che tristezza, viviamo saggiamente! Così se in un giorno lontano mi urleranno: “Sei felice?”; io risponderò: “Non lo so, devo aspettare i miei ultimi cinque minuti!”.
Una volta caduti nell’abisso crudele della sofferenza, bisogna rialzarsi attraverso una rinascita dei sensi e del corpo. Solo la “speranza” ci può far vivere felice! Questo è il concetto preponderante per ricoprire degli istanti di una vita beata e serena. Ringrazio il mio chirurgo, colui che mi ha operato d’urgenza: Diego Cuccurullo. Poiché a volte la tua esistenza ti offre dei fiori che prima o poi devi cogliere ed adorare. Io sono ancora qui.

Sofferenza

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *