VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 parte 5

 

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I GIORNI – parte 5

Sul lavandino la formichetta andava su e giù. Basta poco per mandarla nell’acqua. Una volta bagnata appesantita non sa più andare avanti la formica. Allora un dito basta per sollevarla all’asciutto. E’ uno spettacolo. Dapprima sembra che ormai sia spacciata. Poi la vedi trascicarsi. Poi come se facesse toletta. Si strofina tutte le zampette con una delle due antenne usandone  una dopo l’altra, piegandosi. Dopo un quarto d’ora e dopo alcune prove malriuscite di partirsene, la vedi andar via, sicura e veloce.

Quasi tabulare, Ventotene. Con un porticciolo che sarà la croce, in inverno, dei suoi marinai. Articolata variamente. Vicina, imponente, Santo Stefano. Uno scoglio poco meno che perfettamente circolare. Prima di avvistar queste due sagome, in lontananza, un orizzonte completo.

Cielo e mare, la nave. Su un punto più alto, guardando in avanti, mai in giù, puoi anche pensare d’essere solo. Portare lo sguardo al cielo ed ivi lasciarlo, mentre le nuvole di fumo corrono lontano, all’indietro, e vanno man mano a morire.

Le profondità marine. A pensarci. Morire sul mare, inabissarsi. Gira la testa sul mare! Niente ad est, nulla a sud, niente ad ovest nè a nord. Un orizzonte completo.

Cielo e mare, la nave. Illusione di essere soli e di essere gli unici. Scoppia la bomba. Soli a sopravvivere. Il mondo, nostro, tutto,  nostro, tutto nostro. E approdare in una terra per assistere alla creazione nuova. Impossibile.

Dove andremo? La voce di chi guarda la poesia che si allontana, l’arida terra che è in noi, la vita che diventa un inferno di lordure, e tutto quel che noi speravamo e che non viene ancora, tutto quel che noi abbiamo odiato ed oggi prevale, la voce di chi si sente perduto: “Dio mio, Dio mio… ovunque il guardo io giro…”

E non ricordo più.

“Dove sei?” Poco prima l’avevo visto nel cerchio perfetto dell’orizzonte, dimenticando tutto il resto, guardando in su verso il cielo, dimenticando tutto il resto.

A Ventotene, nell’insenatura, quattro, cinque imbarcazioni con turisti. Sulla ripa, una tendopoli minuta. Confluire di motorette sulla stretta banchina. I viaggiatori oro ora sbarcati, salire su un sentiero sull’altura di fronte, dove tanta gente in attesa aveva scrutato i nuovi arrivati, alla ricerca di un volto amico. Lo sbarco delle merci, le cassette con frutta e verdure di mano in mano, mentre un signore, in bilico come gli altri sulla barca, non faceva altro che indicare il punto più adatto per poggiare la cassetta. E sembrava, da un momento all’altro dovesse rovesciarsi la barca.

A prua, solo. Il mare, lontano. Il mare, vicino. Giù.

Nei pomeriggi estivi come questi ella veniva a cercarmi. Nella mia piccola stanza, su di un letto montato all’occorrenza, io riposavo senza dormire nell’attesa. Ogni volta, come un gioco di bambini, fingevo di dormire. Ella veniva pian piano: con le palpebre appena socchiuse ne vedevo l’ombra avvicinarsi. Si sedeva accanto a me e mi toccava con un dito, leggera, per non farmi svegliare di colpo. Mostravo un falso stupore e fingevo di volermi riaddormentare.

Tutto il gioco consisteva solo in questo non volermi svegliare del tutto. Allora lei, vedendo me di nuovo assopito, per niente sconfitta, mi toccava poi le labbra con un dito, mi accarezzava, leziosa, con la mano. Fin quando, del tutto ormai con evidenza sveglio, non le afferravo la mano e gliela mordevo senza però farle male. Ella si piegava ai piedi del letto, poggiava la sua testa, come a voler riposare sulle mie ginocchia.

La mia mano, ella la mordeva, ma non avvertivo dolore. Era un gioco. Mi piaceva carezzarle i capelli o tenerla per mano e son pentito di averla baciata, qualche volta. Restavamo così, ore ed ore, a guardarci negli occhi, lei a fare complimenti fuori luogo, io a tentarla inutilmente, ma il gioco era sempre lo stesso, più bello di altri.

fine parte 5

 

 

mare aperto

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