VIAGGIATORI – una serie di racconti – I GIORNI 1972 parte 12

I GIORNI è un lungo racconto scritto agli inizi degli anni Settanta e pubblicato nel 1972 – esso risente inevitabilmente della crisi tardo-adolescenziale di un ventenne – ho apportato soltanto lievissimi e non essenziali ritocchi – è la storia di un viaggio fuori e dentro l’esistenza del protagonista. Il fuori è tutto ambientato a Ponza; il dentro è dislocato in varie parti (Campi Flegrei – Procida – Assisi) – alcuni amici mi hanno chiesto di pubblicarlo e li sto accontentando. Spero possa essere letto e compreso da altre persone, anche se mi rendo conto che si tratta di un testo molto autoreferenziale. (Giuseppe Maddaluno) 019_19   I GIORNI 1972 – parte 12 Pagammo la notte in albergo. Ce ne indicarono un altro. Eravamo tornati con il nostro carico di pietre e conchiglie “preziose” e con la nostra angoscia che di continuo reprimeva la gran voglia di vivere. Non eravamo in piena forma. Esserlo, quando la vita ti regala tante delusioni, è difficile. E più vai avanti, più devi fingere di ginorare, nell’attesa che qualcosa cambi. La gente, infatti, ti asslirebbe o, perlomeno, ti ignorerebbe, se portassi dovunque nel volto i segni del tuo umore. E così ognuno di noi, che recita la sua parte di quello che non è, è destinato a tormentarsi nel buio, è portato a non trasmettere ad altri i suoi problemi e così raramente si confida. Così tra noi. Forse gli stessi problemi, le stesse soluzioni, ma nemmeno un po’ di forza, un po’ di volontà. Al momento di entrare in scena, l’attore si dà una riaggiustatina, si adegua al tuono del suo ruolo e vi si compenetra. Mille volte entriamo in scena nella nostra esistenza, mille volte fingiamo una vita che non è la nostra, godendo temporaneamente nell’essere diversi. E gli intervalli sono duri. Cento volte ti illudi di aver toccato la perfezione nella finzione, lo credi. In fondo c’è anche in quell’attimo del marcio. Puoi ignorarlo. Tirare avanti. Ma il marcio ti contagia, ti lasci contaminare con sottile piacere, ti si attacca, si aggrappa sul tuo corpo. E non tenti neanche di purificarti, preferisci ignorare. Questo è il destino dell’uomo, ed è la sua fine. Se lo è sempre stato, vorrà dire che l’uomo non è mai iniziato ad essere tale. La gente si chiedeva cosa fossi io per lei. A dir la verità, io lo sapevo, ma fingevo di no. Ero qualcosa con cui giocare. Lei per me era stato tutto, era. Poi scopri e senti che non è bello dividerla con altri, anche se da parte mia soltanto con il pensiero. Avevo rinunciato ugualmente con molto dolore, ma ho finito per fare un’ottima elegante figura. Ora lei attenderà certamente che io mi muova di nuovo, ma io mi accontento della bella elegante figura. E poi, adesso, non ho più niente da dire, sono completamente ed irrimediabilmente vuoto. Ho dimenticato tutto. Ho tentato. Meglio di così non potevo sperare. In fondo, sento davvero che chi ha perduto non sono io. Ho guardato dietro di me e ho rivisto tutto. E adesso non m’importa niente più, né di te, né di altri. Ti ho amata, così come ho amato tutte le altre “cose” che ho avuto, ho “amato” sempre. Meglio non rivederti più. Lo so che è praticamente impossibile, per ora. La tua voce, quella dei tuoi. Riascoltarla. Ed il ritorno di una gran voglia di te. Nostri sguardi veloci. Sentimenti dal passato che rapidi ritornano e si dileguano. Meglio non rivederti più. Meglio non rivederci.

Fine parte 12 – continua….

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VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 8

PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 8

C’era qualcosa che la incuriosiva e facendosi coraggio dentro senza esprimerlo fuori si avvicinò al fratello abbracciandolo ed accoccolandosi accanto a lui saettò con le pupille sulla foto. Quel giovane era molto bello, il suo sorriso dolce e delicato quasi vicino a quello di alcuni angeli che aveva guardato ammirato e sognato nelle immagini sacre nelle chiese di Procida; Mimì non era fesso, se ne accorse e disse: “Tina, te piace? È ‘nu bravo guaglione, ‘nu grande lavoratore; nun se ferma maie. Nun cucina sultanto, fa tutto chello ca i superiori gli diceno; è bbravo a fà ‘o carpentiere e quindi aggiusta tutt’ ‘e scialuppe e a Puzzule ha fatto pure ‘o piscatore; però nun saccio se a Puzzule tene ggià ‘na guagliona. Nun t’allummà.”.

Tina, la minore, era la più coccolata dai fratelli e dalle sorelle e possedeva una grazia minuta, occhi grandi di color marrone ed una grande voglia continua di cantare e di danzare mentre svolgeva i suoi lavori domestici che erano assegnati a lei; gli altri lavori, quelli di campagna e l’accudimento degli animali, erano appannaggio delle altre sorelle, più robuste ed esperte. Sognava, invece, e aspettò il 15 aprile per vedere di persona come era quel ragazzo. Lo aspettò anche un po’ guardando dall’alto del tetto di casa la costa lontana oltre il Capo Miseno, là dove c’è Pozzuoli. Lello sarebbe arrivato di buon mattino, venerdì, quando a Procida c’è la processione del Cristo Morto, transitando attraverso Torregaveta con la Cumana.

Lello a Pozzuoli era arrivato la mattina di martedì 12 insieme a Umberto e a Mimì, che si era subito imbarcato per arrivare a Procida prima di pranzo. Umberto abitava sul Lungomare verso le Terme “La Salute”; la famiglia di Lello invece che fino a pochi anni prima aveva abitato alle spalle del Corso Garibaldi in un seminterrato molto modesto si era trasferita alle nuove Palazzine popolari alla base della Ferrovia nazionale ed a pochi passi dall’Anfiteatro Flavio lungo la Domiziana. Don Peppino e donna Rosa avevano cinque figli, 3 maschi e 2 femmine e riuscivano a stento ad andare avanti. Lello era il maggiore ed era l’unico ad essere stato arruolato; degli altri maschi uno era proprio piccolo a quel tempo e l’altro pure, ma di statura, per la qual ragione era stato esentato dal servizio militare, il che era una fortuna perché poteva contribuire al reddito della famiglia.

Don Peppino era abile carpentiere di barche: Lello aveva imparato da lui. Lello era il figlio prediletto soprattutto per il suo comportamento integerrimo e la grande disponibilità a farsi in quattro per la famiglia. In città la vita era più dura per tutti rispetto a chi abitava in campagna e spesso si soffriva la fame per cui bisognava andare verso l’interno (Toiano, Quarto, Monte Ruscello) per cercare di comprare a prezzi i più convenienti materie prime, non importava se di scarto e di pessima qualità. A pranzo, però, ora che c’era Lello donna Rosa aveva preparato “fasule e pasta” perché sapeva che a Lello piacevano e non sapeva che anche a bordo lui li cucinava molto spesso e li proponeva ai suoi compagni; per di più, in cambio di un lavoro su una barca da pesca, a don Peppino avevano regalato dei polpi e per questo a casa di Lello era una vera festa quel giorno, doppia.

fine parte 8 – continua

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