VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 14

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I GIORNI – 14

Giocavo con me stesso. La pallina saltava con l’aiuto della mia mano. Nessuno me la raccoglieva se finiva lontano. La stanza era piccola ed io dovevo correre in quei pochi metri quadrati. Mia madre, intenta alle sue faccende, preferiva isolarmi. Dal balcone vedevo la gente sulla strada. I “monelli” facevano birichinate, talvolta grosse. Il mondo sotto e di fronte litigava e viveva.
Che pace in casa mia! Come vorrei aver compiuto quelle grosse birichinate quand’ero bambino. I fanciulli erano sporchi, rotolavano nella polvere, sedevano a terra normalmente sporcandosi, avevano amichetti con cui giocare e litigare. A loro dovevo proprio sembrare un damerino. Ebbi in dono una bicicletta, ma non mi lasciavano mai uscire da solo. Paura della morte. Mia madre.
Di bello, la campagna. Sapevo scappare, allora. Il mio sorriso timido che conservo ancora sapeva di strano per tutti. Tutto quello che riuscivo a raccogliere con gli occhi diventava mio. Era quello che portavo prigioniero a casa, profumo di erba, di libertà…
Sorridevo con me, quel sorriso strano, che la vita con i miei genitori, forse troppo ritirata ed intima, quasi forzata dall’eccessivo affetto di una madre, mi aveva regalato. Venni su silenzioso ed ipocondriaco, con un gran desiderio di indipendenza. Scontroso, aggressivo, in casa. Docile, simpatico ed educato, fuori.
Gli amori dei miei amici, i miei. Gli stessi. Non riuscivo ad amare in modo autonomo. Venne lei, la prima. Mi accorsi giocando che stringerla mi dava uno strano senso. Mai provato prima. Forse mai più come allora alla prima volta. Giocavo tanto. Tanta paura. Vicini e lontani. Senza parlare.
Tombola in casa, cercavo sotto il tavolo le sue gambe, le sfioravo timidamente. Tanta paura. Vicini e lontani. Senza parlare.
Di tutto e di niente. Mi amava. Sì, ma tanta paura.
Conoscere, cercare di conoscere, spezzare questo velo che mi offusca. Lo voglio. C’era lui. L’altro. Venne dopo. Quasi fratelli. Tutti insieme. Capivo e soffrivo. Per me, per lui. Finito. Notti insonni, meditative. Nessuna risoluzione, ma solo un’attesa snervante di una scelta definitiva. Aria di rottura completa. Ritirata su due fronti. Unica vera vincitrice. Non si dimentica il passato. Quasi.
Il trattore ci portò il conto. Brontolammo fra i denti, curando di non farci sentire. Pagammo. Saluti. Ci palpammo la pancia, facendola suonare come un cocomero. In effetti, avevamo già problemi di linea.
Andare in albergo, era tardi. Passeggiare, ci avrebbe fatto bene.
Percorremmo la zona dei tunnel. Cominciò, leggera, la salita. Le spiagge erano grosse pattumiere. Una dona prendeva il sole su di un grosso cubo. Un indiano ci guardò. Occhi luccicanti, nerissimi. Bambini che giocavano sul mare in un punto di secca. Richiami preoccupati di madri.
Io non lo sentivo, non volevo sentirlo. Quando eravamo in campagna scappavo e non lo sentivo. Le ragazzine ridevano, mostrando, nella raccolta delle ciliegie, tutto se stesse. Avevo l’età per poter ridere con loro, ma una timidezza!… Quando riuscii ad ostentare disinvoltura, uno schiaffo. Rosso di vergogna!
Cambiammo rotta e ci dirigemmo su una stradina secondaria. Case bianche, mediterranee. Silenzio nella controra. Ricordo di favole ascoltate nell’infanzia. Incantesimo sfatto dal suono di una radio gracchiante.
Tornati indietro sulla strada che si inerpicava ora di più. Il sole ci accompagnava. Rari posti ombrosi. Fuori dal centro abitato ormai. Montagne brulle, dai colori sempre vari, coltivate nelle basse pendici a vigneti. Le agavi, sulla strada, brulicavano di formiche. Qua e là una casa, ben poche.

fine cap. 14 – continua…

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