VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 9

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PROCIDA L’ETERNO RITORNO PARTE 9

“Te veco bbuono, Rafilù” disse donna Rosa “se vede che ll’aria d’’o mare te fa bbene”. “Sì, mammà; veramente nun ce manca niente e po i’ stongo int’’a cambusa e mangio tutte chello che vvoglio; aggia assaggià pe’ tramente cucino; faccio ‘a pacchia e i superiore me lassano fà”. Le sorelle, soprattutto Maria lo prese in giro, ricordando uno dei giudizi sulla sua pagella dove, a parte la condotta, l’unica valutazione “Lodevole” era stata quella per “Lavori donneschi e manuali”. Risero tutti, anche Lello, ma non fece mai parola, però, della nausea che lo prendeva quando ai profumi dei cibi si mescolava il puzzo della nafta. E tra una cucchiaiata e l’altra, parlando del più e del meno, della scarsa voglia di andare a scuola del fratellino e gli impegni di lavoro del padre e dell’altro fratello e le storielle d’amorazzi veri o fittizi delle due sorelle, parlò dei suoi amici, di Umberto che tutti a Pozzuoli conoscevano ma anche di Mimì, che lo aveva invitato a Procida, in occasione del Venerdì Santo. Chiese ai suoi di poter ricambiare l’invito già per sabato a pranzo; avrebbero dovuto però mangiare velocemente qualcosa e presto, a mezzogiorno, nulla dunque di impegnativo (anche se, lo avesse voluto, non sarebbe stato facile) perché sarebbero partiti nel primissimo pomeriggio per raggiungere Civitavecchia. Lello aveva visto, anche lui, alcune foto della famiglia di Mimì ed era curioso di conoscerla; in particolare aveva notato la più piccola, Tina; ma di ciò non aveva mai parlato né con Mimì né quel giorno ai suoi.
Il resto della giornata Lello lo trascorse con il padre nei Cantieri navali per vedere il lavoro che stava portando avanti.

E venerdì mattina nella casa di campagna di Procida tutti erano svegli, come di consuetudine, molto presto. Il Venerdì Santo, poi! Tina non aveva dormito pensando a come si sarebbe agghindata. Il giorno prima si era lavata i capelli e se li era composti con un nastrino che glieli teneva dietro lasciando aperto l’ovale del viso; aveva scelto un vestitino a fiorellini molto adatto alla primavera ed un paio di scarpe basse comode. Arrossendo aveva chiesto a Mimì, che quel giorno aveva per obbligo indossato la divisa di ordinanza dei “Marò”, se lo poteva accompagnare al Porto; Mimì acconsentì ma a patto che fossero d’accordo Vincenzo e Rachele. Di lui si fidavano perché lo conoscevano come ragazzo assennato, anche lui un gran lavoratore nella pesca oltre che braccio essenziale per la campagna, e non ebbero nulla in contrario a che Tina andasse insieme a lui. Si fidavano anche dei suoi giudizi e, se Lello era suo amico, pensavano dovesse di sicuro essere una brava persona. Le sorelle mugugnarono sotto sotto, erano fatte così; in effetti mantenevano un comportamento molto austero e mal sopportavano la puledrina a volte un tantino ribelle. Erano fatte così, rappresentando forme arcaiche in tempi che avrebbero portato forti cambiamenti. E Tina era alla fin fine la più vezzeggiata e si permetteva spesso di trasgredire.
Alle otto, più o meno alle otto arrivò il vaporetto. Mimì e Tina, orgogliosa di essere accompagnata da un fratello così elegante, alto, robusto e bello, erano sulla banchina.

PROCIDA L’ETERNO RITORNO fine parte 9

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 13

 

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I GIORNI – parte 13

Per raggiungere il nuovo albergo sbagliammo strada e percorremmo una strada sotto una loggia coperta alla base di un dirupo. Un signore ci indicò, accompagnandoci poi, la buona strada. Era nuovissimo, l’albergo, o forse riadattato. Una signorina bruna, dagli occhi neri, ci accolse sorridente ed espansiva. A suo fratello, in tutta evidenza il direttore dell’albergo, consegnammo le nostre tessere. La stanza n. 1 era bella, accogliente e luminosa. In silenzio: “Anche la signorina”. Sorrisi tra me e me. Non ricordo bene cosa mi venne alla memoria in quel momento, ma sorrisi. La finestra della stanza dava proprio su di una strada secondaria interna. Ogni tanto sentivamo una voce, un rumore di passi ritmati con gli zoccoli marinari. Dialetti di paesi, diversissimi tra lor. Lingue straniere talvolta nettamente incomprensibili. Quindici minuti di riposo soltanto dopo aver di nuovo sbagagliato. Lasciammo la chiave sul banco, salutando. La signorina era sparita. Alla ricerca di un ristorante anche se era abbastanza tardi per il pranzo. La passeggiata di Ponza e i suoi localini, semichiusi nel caldo della controra. Ristoranti zeppi, senza un solo posto libero. Ora del pomeriggio imprecisata. In un angolo della strada principale alcuni tavoli liberi di una dozzinale trattoria. L’appetito doveva essere molto, se la scostumatezza e la gaglioffaggine del trattore non ci indusse a scegliere un nuovo ristorante. Avremmo però dovuto aspettare che si liberasse qualche posto. Certo, era proprio screanzato. I suoi modi non prevedevano nemmeno lontanamente la consueta ipocrita leziosità dei ristoratori. Ricordo di averne conosciuto anche altri così. In un’altra isola a me più familiare. Persone così dovrebbero avere una lezione di normale cortesie e bisognerebbe revocar loro la licenza. Dimostrava di non aver letto o nemmeno orecchiato alcun trattato di belle maniere, né di aver studiato per diventar quel che era. Egli aveva a sua volta però impartito lezioni di vita al suo garzone, che era altrettanto ruvido e rozzo; il giovanotto aveva in tutta evidenza tratto buon profitto. Sia nel parlare che nell’agire non faceva che imitare il suo padrone, a volte superandolo. Chi non doveva proprio stargli dietro, essere una discola ed un’ingrata era una donna di mezza età, forse la moglie, forse una sorella, che aveva solo un aspetto un po’ cattivo, burbero ma utilizzava buone e gentili maniere. Mostrava talvolta di volersi adeguare forse per reazione ma in fondo restava quella che era. Trovammo un tavolo libero, all’ombra. Qualche attimo dopo si aggregarono altri avventori, si sedettero ad un tavolo accanto al nostro, all’ombra anch’esso. Lui, un signore sulla quarantina, dalla corporatura grossa, forse con una gran voglia di restare scapolo o forse con moglie e figli abbandonati su qualche spiaggia lontana; dall’occhio, che non spiega niente, di chi ha sonno e vuol rimanere sveglio, con una stanchezza nelle ossa da troppe faticose veglie. La sua voce calda e melliflua cercava di convincere. Le sue labbra, per tutto il tempo che lo guardai, non si atteggiarono mai a sorriso. Lo immaginai al posto di lavoro, quel porco. Non sembrava vivere altro che per il piacere. Lei, donna biondastra più che castana, dalle carni grasse più che robuste, labbra sensuali, gote leggermente arrossate, occhi chiaramente insignificanti, naso grosso e fronte spaziosa, frignava capricciosa per chissà cosa. Neanche un sorriso. Lacrime trattenute a forza. Parlava nervosa, balbettante e semi-singhiozzante. Parole calde, untuose, quelle di lui. Incomprensibili, di lei. Intervalli silenziosi di tregua. Poi davanti ad un piatto di spaghetti alla marinara sembrò acquietarsi, la bambina. Con il suo giocattolo ormai rotto. Io non ho voglia di un amore così. Preferisco essere solo, ho meno paura della solitudine.

 

I GIORNI . fine parte 13 …. continua….

 

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VIAGGIATORI – una serie di racconti – GUGLIELMO IL CONQUISTATORE parte 2

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GUGLIELMO IL CONQUISTATORE  – parte 2

 

I suoi interessi prevalenti erano tutti concentrati sugli studi. Esprimeva chiaramente con accenti molto vicini alla megalomania ambizioni smisurate: non le tenva mai celate. E tutto questo gli attirava naturalmente invidie, gelosie ed ironie che non scalfivano minimamente il suo “morale”.

Se a qualcuno venisse in mente che si trattasse di un allievo monocorde si sbaglierebbe alla grande: Guglielmo non si sottraeva né all’impegno “sociale” (collaborava con l’Agenzia del Lavoro per motivare scolasticamente i suoi connazionali in difficoltà ma non intratteneva mai a livello personale rapporti con la sua “gente) né a quello “politico” (era impegnato in uno dei maggiori partiti della Sinistra).

Ogni ragazzo, in quella fase della crescita, attraversa il periodo dell’innamoramento. Guglielmo raramente parlava di ragazze, considerava una perdita di tempo l’approccio, il corteggiamento e la relazione amorosa. Aveva obiettivi precisi ma diversi, e non in relazione a preferenze di tipo sessuale. Spesso ne trattò con il suo docente di Italiano e Storia,  che lo aveva quasi adottato prefigurando i più che eccellenti traguardi e sollecitandolo, incoraggiandolo in quella direzione. Fra le funzioni pedagogiche del docente ve ne è certamente quella prioritaria di sostenere e promuovere coloro che evidenziano difficoltà, permettendo loro di raggiungere e superare la sufficienza, ma vi è anche quella di stimolare ed incentivare, coltivare le eccellenze. Sarebbe delittuoso e drammatico portare avanti soltanto una di queste funzioni.

E tutti gli anni, sia in terza che in quarta, i risultati scolastici di Guglielmo sono stati ottimi con punte di eccellenza. Non solo ma per confermare le sue ambizioni, alla fine del quarto anno ha scelto di fare un colloquio telefonico (interview) per entrare ad una delle più prestigiose università internazionali nel settore degli studi economici, l’ Harvard University.

E ce l’ha fatta; anzi se confermerà l’eccellenza al termine del corso di studi, gli sarà concessa anche una “borsa”.

Un anno intenso, l’ultimo, caratterizzato da tanti altri problemi: l’assenza della madre, che è ritornata in Cina; la crisi lavorativa che va mettendo in difficoltà la piccola azienda del padre, un omino piccolo piccolo riservato e modesto come la maggior parte della sua gente ma completamente diverso dallo spumeggiante ed estroverso carattere del figlio; la tensione diffusa sia fra gli allievi che fra i docenti tesi al perseguimento dei massimi obiettivi nel corso dell’ultimo anno. Guglielmo è in maniera sorprendente il più insoddisfatto di tutti; lui vorrebbe per sé considerazioni ed attenzione particolari e sempre più spesso va in tilt. L’anno che doveva essere l’apoteosi della sua storia scolastica, l’apice, il culmine si va rivelando un “calvario” di sofferenze.

Anche la classe ne risente ed i conflitti scoppiano.

E’ perciò sempre più nervoso, Guglielmo. Ce l’ha anche con alcuni suoi parenti che a suo dire sono ricchi sfondati ma altrettanto avari e non aiutano nel momento del bisogno suo padre, che va meditando di ritonare in Cina,  a risollevarsi. Guglielmo glielo ha detto, non lo seguirebbe, e gli chiede di resistere ancora qualche mese. Egli poi andrebbe  negli Stati Uniti a studiare. Tutto ciò lo snerva: sta rischiando di mandare all’aria tanti dei suoi sogni, i sacrifici che ha fatto.

 

GUGLIELMO IL CONQUISTATORE – parte 2

 

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VIAGGIATORI – una serie di racconti – I GIORNI 1972 parte 12

I GIORNI è un lungo racconto scritto agli inizi degli anni Settanta e pubblicato nel 1972 – esso risente inevitabilmente della crisi tardo-adolescenziale di un ventenne – ho apportato soltanto lievissimi e non essenziali ritocchi – è la storia di un viaggio fuori e dentro l’esistenza del protagonista. Il fuori è tutto ambientato a Ponza; il dentro è dislocato in varie parti (Campi Flegrei – Procida – Assisi) – alcuni amici mi hanno chiesto di pubblicarlo e li sto accontentando. Spero possa essere letto e compreso da altre persone, anche se mi rendo conto che si tratta di un testo molto autoreferenziale. (Giuseppe Maddaluno) 019_19   I GIORNI 1972 – parte 12 Pagammo la notte in albergo. Ce ne indicarono un altro. Eravamo tornati con il nostro carico di pietre e conchiglie “preziose” e con la nostra angoscia che di continuo reprimeva la gran voglia di vivere. Non eravamo in piena forma. Esserlo, quando la vita ti regala tante delusioni, è difficile. E più vai avanti, più devi fingere di ginorare, nell’attesa che qualcosa cambi. La gente, infatti, ti asslirebbe o, perlomeno, ti ignorerebbe, se portassi dovunque nel volto i segni del tuo umore. E così ognuno di noi, che recita la sua parte di quello che non è, è destinato a tormentarsi nel buio, è portato a non trasmettere ad altri i suoi problemi e così raramente si confida. Così tra noi. Forse gli stessi problemi, le stesse soluzioni, ma nemmeno un po’ di forza, un po’ di volontà. Al momento di entrare in scena, l’attore si dà una riaggiustatina, si adegua al tuono del suo ruolo e vi si compenetra. Mille volte entriamo in scena nella nostra esistenza, mille volte fingiamo una vita che non è la nostra, godendo temporaneamente nell’essere diversi. E gli intervalli sono duri. Cento volte ti illudi di aver toccato la perfezione nella finzione, lo credi. In fondo c’è anche in quell’attimo del marcio. Puoi ignorarlo. Tirare avanti. Ma il marcio ti contagia, ti lasci contaminare con sottile piacere, ti si attacca, si aggrappa sul tuo corpo. E non tenti neanche di purificarti, preferisci ignorare. Questo è il destino dell’uomo, ed è la sua fine. Se lo è sempre stato, vorrà dire che l’uomo non è mai iniziato ad essere tale. La gente si chiedeva cosa fossi io per lei. A dir la verità, io lo sapevo, ma fingevo di no. Ero qualcosa con cui giocare. Lei per me era stato tutto, era. Poi scopri e senti che non è bello dividerla con altri, anche se da parte mia soltanto con il pensiero. Avevo rinunciato ugualmente con molto dolore, ma ho finito per fare un’ottima elegante figura. Ora lei attenderà certamente che io mi muova di nuovo, ma io mi accontento della bella elegante figura. E poi, adesso, non ho più niente da dire, sono completamente ed irrimediabilmente vuoto. Ho dimenticato tutto. Ho tentato. Meglio di così non potevo sperare. In fondo, sento davvero che chi ha perduto non sono io. Ho guardato dietro di me e ho rivisto tutto. E adesso non m’importa niente più, né di te, né di altri. Ti ho amata, così come ho amato tutte le altre “cose” che ho avuto, ho “amato” sempre. Meglio non rivederti più. Lo so che è praticamente impossibile, per ora. La tua voce, quella dei tuoi. Riascoltarla. Ed il ritorno di una gran voglia di te. Nostri sguardi veloci. Sentimenti dal passato che rapidi ritornano e si dileguano. Meglio non rivederti più. Meglio non rivederci.

Fine parte 12 – continua….

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VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 8

PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 8

C’era qualcosa che la incuriosiva e facendosi coraggio dentro senza esprimerlo fuori si avvicinò al fratello abbracciandolo ed accoccolandosi accanto a lui saettò con le pupille sulla foto. Quel giovane era molto bello, il suo sorriso dolce e delicato quasi vicino a quello di alcuni angeli che aveva guardato ammirato e sognato nelle immagini sacre nelle chiese di Procida; Mimì non era fesso, se ne accorse e disse: “Tina, te piace? È ‘nu bravo guaglione, ‘nu grande lavoratore; nun se ferma maie. Nun cucina sultanto, fa tutto chello ca i superiori gli diceno; è bbravo a fà ‘o carpentiere e quindi aggiusta tutt’ ‘e scialuppe e a Puzzule ha fatto pure ‘o piscatore; però nun saccio se a Puzzule tene ggià ‘na guagliona. Nun t’allummà.”.

Tina, la minore, era la più coccolata dai fratelli e dalle sorelle e possedeva una grazia minuta, occhi grandi di color marrone ed una grande voglia continua di cantare e di danzare mentre svolgeva i suoi lavori domestici che erano assegnati a lei; gli altri lavori, quelli di campagna e l’accudimento degli animali, erano appannaggio delle altre sorelle, più robuste ed esperte. Sognava, invece, e aspettò il 15 aprile per vedere di persona come era quel ragazzo. Lo aspettò anche un po’ guardando dall’alto del tetto di casa la costa lontana oltre il Capo Miseno, là dove c’è Pozzuoli. Lello sarebbe arrivato di buon mattino, venerdì, quando a Procida c’è la processione del Cristo Morto, transitando attraverso Torregaveta con la Cumana.

Lello a Pozzuoli era arrivato la mattina di martedì 12 insieme a Umberto e a Mimì, che si era subito imbarcato per arrivare a Procida prima di pranzo. Umberto abitava sul Lungomare verso le Terme “La Salute”; la famiglia di Lello invece che fino a pochi anni prima aveva abitato alle spalle del Corso Garibaldi in un seminterrato molto modesto si era trasferita alle nuove Palazzine popolari alla base della Ferrovia nazionale ed a pochi passi dall’Anfiteatro Flavio lungo la Domiziana. Don Peppino e donna Rosa avevano cinque figli, 3 maschi e 2 femmine e riuscivano a stento ad andare avanti. Lello era il maggiore ed era l’unico ad essere stato arruolato; degli altri maschi uno era proprio piccolo a quel tempo e l’altro pure, ma di statura, per la qual ragione era stato esentato dal servizio militare, il che era una fortuna perché poteva contribuire al reddito della famiglia.

Don Peppino era abile carpentiere di barche: Lello aveva imparato da lui. Lello era il figlio prediletto soprattutto per il suo comportamento integerrimo e la grande disponibilità a farsi in quattro per la famiglia. In città la vita era più dura per tutti rispetto a chi abitava in campagna e spesso si soffriva la fame per cui bisognava andare verso l’interno (Toiano, Quarto, Monte Ruscello) per cercare di comprare a prezzi i più convenienti materie prime, non importava se di scarto e di pessima qualità. A pranzo, però, ora che c’era Lello donna Rosa aveva preparato “fasule e pasta” perché sapeva che a Lello piacevano e non sapeva che anche a bordo lui li cucinava molto spesso e li proponeva ai suoi compagni; per di più, in cambio di un lavoro su una barca da pesca, a don Peppino avevano regalato dei polpi e per questo a casa di Lello era una vera festa quel giorno, doppia.

fine parte 8 – continua

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VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – PARTE 7

VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – PARTE 7

A tavola erano in otto, quella sera. Mancava uno dei giovani maschi, Michele, che già da tempo aveva deciso di andare a vivere da solo; ritornava di tanto in tanto più per necessità che per vero senso di appartenenza familiare, ed era un po’ un isolato, forse misogino, inadatto a vivere in una comunità con la prevalenza femminile. C’era aria di festa; Domenico era tornato per un breve congedo dal servizio militare. Come si conveniva ad un lupo di mare era stato arruolato nella Regia Marina, Corpo Reale Equipaggi Marittimi, prima sul’incrociatore Garibaldi fino al marzo del 1938 e poi sul cacciatorpediniere Ostro. Erano vicine le festività pasquali e si respirava un’aria di primavera inoltrata; non aveva molti giorni ma avrebbe partecipato alle funzioni della Settimana Santa, quelle del giovedì, il 14 aprile e del venerdì, di certo; ma doveva far ritorno la mattina del sabato per consentire ad altri suoi compagni di poter andare in congedo. Era fortunato perché a Procida quella settimana ha un forte connotato religioso innervato nella realtà sociale: tutti, in modi diversi, vi partecipano.
“Comme te va, Mimì, te veco ‘nu poco dimagrito” disse Vincenzo, il capofamiglia con un paio di baffoni curati alla Umberto I e seduto in cima al tavolo largo e capiente. “Nun te fanno mangià comme a casa; ma chi è che te cucina?”. Mimì sorrise e, tra una cucchiaiata di minestra di fagioli bolliti nel tradizionale fiasco e poi conditi con patate, erbe, cipolle e cotica, di quella conservata in gelatina con una parte di carne di maiale, mise le mani nel giubbotto che aveva appoggiato dietro la spalliera della sedia e ne tirò fuori un portafoglio dal quale estrasse alcune foto. “Ecco, qui simmo in libera uscita, a Taranto” mostrando la sua divisa ancor più elegante nel suo portamento di giovane poco più che ventenne “e comme vedite c’è tanta ggente, tanta bella ggente, tante gguaglione ca ce guardano e, insomma, ce stà da fà” fece con orgoglio maschile. “Chest’ata fotografia è a bordo, eccolo qua, chillo ca ce fa da mangià” e mostrò un giovane dal sorriso aperto “ è nu guaglione de Puzzule, Lello; pur’isso è in congedo e forse, ci aggio ditto io, me vene pure a truvà, venerdì, e po’ ce ne iammo assieme”. La famiglia di Mimì era molto ospitale ed accolse con piacere l’annuncio della visita di chi, alla fine, si curava del benessere del loro congiunto. “E che cucina?” chiese la maggiore delle sorelle, forse curiosa forse invidiosa di un ruolo che aveva da tempo assunto con perizia. “Di tutto; però, basta che sape fà nu bbuono raù, ‘na bbona frittura, nu poco ‘e carne e quacche vvota ‘na bella ‘nsalata e a nnuje ce basta. Nun te preoccupà, Agnesì; a tte nisciuno te batte”. La madre Rachele gioiva solo al vederlo, quel figliolo, seduto in mezzo a loro, e non parlava. Mimì parlava con il padre e con le quattro sorelle scambiava poche parole, tanto erano esse riservate e di conseguenza silenziose. La più piccola era intimidita da quel fratellone grande e grosso ma aveva gettato lo sguardo, mantenendosi lontana, su quella foto nella quale c’era il “cuciniere” di bordo

FINE PARTE 7

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VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA – racconto con sceneggiatura – parte 4

 

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VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA – racconto con sceneggiatura – PARTE 4

Voce fuori campo di Giuseppe sulle immagini del giardino: “Dove eravamo? Ci sembrava di essere arrivati in un paradiso! Non ricordo mai di essermi sentito così pacato e tranquillo. Quel luogo mi piaceva…”

Voce fuori campo di Maria mentre le immagini girano intorno alla fontana centrale seguendo lo sguardo di Maria in soggettiva: “Dove poteva essere la città industriale? mi  pareva di essere arrivata in aperta campagna. La città ci aveva ben accolti, smorzando l’angoscia per l’incerto futuro e rinnovando l’entusiasmo per la scelta che si stava compiendo”.

In un angolo non visto dai due viaggiatori un piccolo set allestito con due giovani seduti su una panchina.

Giuseppe e Maria proseguono verso il Ponte alla Vittoria. Controcampo Giuseppe e Maria superano il Ponte.

Panoramica su Piazza San Marco con il “Buco di Moore”.

Voce fuori campo di Giuseppe: “Ci siamo chiesti subito cosa fosse…quella pietra fatta ad arco che troneggiava sul prato di fronte a noi.”

Primo Piano dei due in raccordo con la scultura. Senza parlare lui la indica a lui. Poi PP dei due che fermano un signore di passaggio, gli chiedono (evidentemente) cosa mai sia. Ricevono con mimica inequivocabile  una risposta negativa.   Voce fuori campo di Maria: “Non eravamo gli unici a chiedercelo, anche fra i pratesi c’era chi non sapeva ancora cosa volesse significare”.   Dissolvenza in chiusura  e buio e sotto voce di Maria “Lo sapemmo solo più tardi, arrivando in albergo”. Suono di un campanello – dissolvenza in apertura e particolare del dito di Giuseppe sul pulsante.

Dissolvenza in chiusura. Musica in sottofondo “new age”. Dissolvenza in apertura. Reception di modesto albergo. Al desk non c’è nessuno. Campo totale su ambiente. Giuseppe si avvicina al desk mentre Maria si accomoda in una poltrona al suo lato con i bagagli. Giuseppe prepara intanto i documenti. Un signore di mezza età, chiaramente l’albergatore, si avvicina: “Buongiorno. I signori hanno prenotato?” “Giuseppe: “Sì, sotto il nome di Chiaromonte. Una matrimoniale”. L’albergatore osserva – siamo in Campo Totale – il registro. Poi Piano Americano dei due (albergatore e Giuseppe) alternato e Primo Piano sull’albergatore alternato con Primo Piano di Giuseppe dalle spalle dell’albergatore che preleva i documenti: “E’ la 205. Spero possa essere di vostro gradimento. E’ tranquilla e panoramica. Al quarto piano. C’è l’ascensore. In fondo a  sinistra quando uscite. Benvenuti a Prato, signori Chiaromonte.”

Entrano nell’ascensore in Campo Totale con albergatore e i due. Ellissi in soggettiva. Siamo di fronte alla 205. La porta si apre (non si vede chi la apre) e nel semibuio la ripresa avanza fino all’apertura delle tendine e della finestra su un panorama cittadino con abitazioni tutte più basse e campanili. La stanza si illumina e la ripresa la rappresenta. Voce fuori campo di Maria a partire dall’apertura della finestra, dal panorama e dalla camera: “Luminosa ed accogliente, saremmo stati bene, anche se non si trattava di una vera e propria vacanza. Avevamo il desiderio di trasferirci in un luogo che fosse più aperto, più ricco di stimoli, più colto; avevamo insieme pensato alla Toscana, a Firenze o ad un centro che fosse tranquillo ma anche pieno di attività artistiche e culturali, un luogo dove anche i rapporti umani e civili fossero altrettanto positivi aperti e proiettati verso il nuovo.”

Giuseppe intanto ha aperto le valigie ed ha ordinato gli oggetti personali suoi sul comò e sul comodino. Maria conclude il suo pensiero “off” e fa lo stesso mentre Giuseppe si avvicina alla finestra. La ripresa va a cogliere in soggettiva altri luoghi dall’alto della visuale: “La mia attività in provincia di Belluno era stata entusiasmante. Accanto alla professione di insegnante avevo speso più di una stagione nella pratica politica, sindacale e nell’organizzazione culturale di tipo integrale. Avevo avuto dei buoni risultati, soddisfatto sì ma volevo comunque cambiare aria, mi affascinava questa piccola possibile nuova avventura, questa nuova stagione ed avevo deciso che con quel poco d’esperienza avrei dedicato la mia attività all’arte, alla cultura, tralasciando la deludente pratica politica e sindacale.”

GIUSEPPE E MARIA parte 4 – continua

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 11

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 11

Sorridere, sorridere sempre. Ma quando non ne ho voglia, non lo faccio, pur se inconsciamente. Eppure quando finisce la carica, “Chi ha sbagliato?”. E non si sa o non si vuol rispondere.
Vorrei dire: “Ti voglio bene”. Ma ho paura dei tuoi turbamenti.
“Ti voglio bene” e tu nel silenzio della mia fantasia: “Anch’io”. Poi niente.
E guardarci negli occhi, fermi, così, per un po’ senza parlare. I tuoi occhi dolci e buoni che non hanno bisogno di parole, che non hanno bisogno di parole. I miei occhi che cercano un affetto e non sanno disperare. I nostri occhi che si guardano e non sappiamo nemmeno cosa dire, ora che il tempo è passato e non può ritornare.
“Ti voglio bene”. “Anch’io”, la risposta che attendo “Anch’io te ne voglio”. E poi niente. Separarsi per sempre. “Io di qua, tu di là. Poche parole nel vento: “Ti voglio bene”. “Anch’io”.
“Non c’è più uno spazio di mare veramente pulito”
Esagerando a mo’ di rottura. Assentì senza ulteriori commenti.
La ragazza aveva capelli più corti dei miei, un viso veloce, come quello di un bambino vispo e intelligente. Si manteneva appena a galla. Più in là aveva le sue compagne ma solo lei sembrava disposta a chiacchierare. Il suo dialetto la tradì romana ed anche lei, checchè io tentassi di tenere nascosto le mie inflessioni dialettali, scoprì la mia origine napoletana.
Domande retoriche ed uguali risposte dall’una e dall’altra parte. Il mare aveva in superficie qualche pezzettino di pece galleggiante.
Il mio amico, in silenzio, mi teneva d’occhio ai bordi della riva. Seppi molto di loro, ma poi ci salutammo e basta. Avrei voluto dar loro un appuntamento per il pomeriggio, ma non ebbi la forza necessaria di scegliere il momento, né d’altronde l’ebbe il mio amico. Andarono via.
Noi continuammo a marciare sulla sabbia e sui ciottoli. Fingemmo di niente, notando anche che le tre amiche della sera prima, quelle del locale, erano lì sedute e ci guardavano sorridendo con malcelata malignità.
Alcuni ragazzi tornarono dal mare in completo da sub ma senza alcuna preda. Due ragazzotte, dai capelli castani, volgevano le loro tette alla sabbia per prendere il sole in maniera più omogenea. Finsero di turbarsi al nostro sguardo interessato. Almeno così evidentemente lo considerarono. Due ragazzi, di certo loro amici, le invitarono ad una nuotata, tirandole ora per le mani ora per i piedi. Via nel mare con un tuffo per pulirsi della sabbia.
Le giornate di pioggia trascorse nella soffitta erano magnifiche. Mi piaceva mettermi comodo. Spesso veniva a trovarmi, la mia amica. Anche a lei piaceva stare comoda. Non nascondeva mai niente, senza inibizioni. Nelle giornate di pioggia, doccia al naturale sul terrazzo. Ci drogavamo d’ozono respirandolo insieme. Al vento ed al sole ci asciugavamo, l’aria trasmetteva la sua voce stridula e la sua risata.
Mi sembra talvolta di sentirla, la sua risata, tra il fruscio degli alberi scossi dal vento, mentre sono solo nella mia soffitta.
Finito, tutto. Non so nemmeno dove sia, adesso. In quale soffitta.
I GIORNI 1972 – fine parte 11

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VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 6

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PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 6

La mia giovane semplicità mi fece entusiasmare quando feci conoscenza con una donna che aveva fatto voto di castità, un personaggio interessante ma forse un po’ fuori dagli schemi normali, un po’ folle, di quella follia che accomuno ad una passione disinteressata, ad un dedicarsi totale al servizio degli altri. Folle, sì; ma sono sicuro che a nessuno sia mai saltato in mente di chiamare folle una donna che viva santamente la propria esistenza fra una funzione religiosa e l’altra avvicinandosi anche più volte al giorno ai sacramenti ma sempre con l’obiettivo di praticare del bene. Ed in fondo se non altro per lei questa è la vita! La donna era fondamentalmente sola, era da troppo tempo stata sola come in una sorta speciale di clausura dalla quale era riuscita ad emergere; la tragedia della solitudine ci passa accanto chissà quante volte ma non ci coinvolge e quindi non riusciamo a comprenderla, non possiamo capirla, non possiamo, non potete conoscerla mai pienamente. L’aria di santità la circondava completamente; entrare in casa sua era come varcare una parte segreta di un santuario; prima di arrivare nella sua stanza si attraversava un corridoio buio un po’ funereo illuminato solo dalla luce fioca di candele poste davanti a quadretti di vari santi. Ella di solito sedeva in una stanza in fondo al corridoio principale su un’ampia poltrona – le sue forme negli ultimi tempi tendevano all’obeso spinto – davanti alla quale aveva un ampio ma basso tavolo sul quale poggiava alcuni libri di preghiere, una bottiglia d’acqua ed un bicchiere, un piatto di porcellana dozzinale ed un’oliera piccola. Nei miei ricordi la stanza era buia ed illuminata da lumi a petrolio e da candele accese davanti a fotografie di persone morte. Si avvertiva un odore di antico, di pulito ma anche di vecchio, una mistura unica ed irripetibile che non ho mai più avvertito da tempo. Fra le mani di solito stringeva una coroncina del Rosario e murmuliava parole sconnesse in un italiano-latino tutto particolare. Il tutto faceva un po’ senso, ma il ricordo oggi non mi appare negativo; ero in quel tempo abituato più di ora a frequentare quei luoghi. Sembra che ella riuscisse a parlare anche con i morti e praticava arti un po’ insolite per gli ambienti religiosi come la lettura e l’eliminazione di quello che popolarmente chiamano “il malocchio”. Ho visto anch’io in diretta apparire e sparire misteriosamente gli “occhi” d’olio nel piatto dove prima aveva versato un fondo d’acqua e poi attingendo con le dita dall’oliera due-tre goccioline d’olio le aveva fatte schizzare nell’acqua. Ma ora a raccontarla sembra sia stata tutta un’allucinazione, una suggestione.
E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”
In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

PROCIDA L’ETERNO RITORNO – fine parte 6

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VIAGGIATORI – una serie di racconti – GUGLIELMO IL CONQUISTATORE parte 1

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GUGLIELMO IL CONQUISTATORE – parte 1

“No, professore, io voglio dire tutto. Non mi basta parlare solo della guerra civile…. ho studiato tutto il libro”. Erano da venti minuti a parlare di Storia, di Cesare (tutto Cesare), di Cleopatra, di Marco Antonio ed Ottaviano, e Guglielmo non si fermava. Era l’ultima materia e gli altri commissari per l’idoneità alla terza superiore un po’ alla volta, solo con cenni riservatissimi, si allontanarono lasciando da solo a sbrigarsela il collega di Storia ed Italiano (su questa materia aveva già espresso con loquela eccellente le sue ottime conoscenze, oltre al fatto che con il compito da 10 la Commissione avrebbe anche potuto saltare il colloquio). Ma “Ho letto “Il sentiero dei nidi di ragno” e tutta un’antologia di racconti del mistero e del terrore. Professore, mi interroghi!” aveva preteso quel ragazzo cinese arrivato in Italia appena tre anni prima. E come fai a contrariare chi, all’Esame, vuole cimentarsi pienamente, avendo a che fare per lo più con allievi cui occorre cavare le parole dalla bocca come un dentista nell’atto dell’estrazione!
Anche Guglielmo, nome di battaglia ad uso scolastico italiano, come gran parte dei suoi connazionali veniva dallo Zhejiang. Aveva raggiunto, insieme alla madre, il padre che già da dieci anni lavorava a Prato, prima alle dipendenze di un cugino imprenditore tessile e poi da solo in un piccolo capannone a ridosso del Centro ma fuori da quella che chiamano “Chinatown”. Era figlio unico, sommamente curioso ed attento osservatore, concentrato negli studi della nuova lingua e della nuova cultura sin dal primo anno di scuola media inferiore, nel quale aveva bruciato le tappe saltando la seconda ed accedendo con un esamino in terza. In effetti già in prima il ragazzo, facendosi prestare i libri da un suo vicino di casa, più o meno suo coetaneo, aveva preso a studiarsi il programma di seconda e, forse, glielo avessero consentito, avrebbe potuto anche provare a fare l’Esame finale. Era il tormento dei docenti ma anche la loro delizia: c’era chi lo vedeva come “croce” e chi come grande opportunità di un esempio fulgido di dedizione agli studi: quel che i “ragazzacci” per dare una giustificazione alla loro infingardaggine normalmente chiamano secchione. Perché mai “croce” o “tormento”? in effetti troppe volte durante le lezioni interveniva dimostrando ai docenti ed agli allievi di conoscere già gran parte del Programma da venire ed a volte lo faceva in tono provocatorio, forse involontariamente, ma tant’è che qualche docente se ne ebbe a male, sentendosi messo in discussione.
La stessa storia capitò alle superiori; in prima il giovane cominciò sapendo già parte dei Programmi ( riuscì ad acquistare a tempo di record alcuni libri di testo e se li mangiò a colazione in men che non si dica ) per cui dedicò la seconda parte dell’anno scolastico alla preparazione per l’idoneità alla terza. E lì lo abbiamo lasciato, mentre prima ha tenuto in scacco l’intera Commissione ed alla fine si è accanito contro il povero e abbandonato da tutti docente di Italiano e Storia.
“Questo ragazzo ha del talento” disse il docente allo scrutinio e nessuno ebbe modo né ragione di contraddirlo “mi piacerebbe averlo con me in classe”. Il Preside lo accontentò.

GUGLIELMO IL CONQUISTATORE fine parte 1

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