EPIFANIE – CAPRICCI DI BAMBINI – parte 6 (con prologo) ed ultima

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EPIFANIE – CAPRICCI DI BAMBINI – parte 6 (con prologo)

Prologo

“Capricci di bambini” non è un intervento da pedagogista; è semplicemente una delle tante modalità con cui esprimo il mio stupore sulla Vita. Non ha intendimenti di completezza ed infatti si concluderà con questo prossimo post; l’universo infantile è caratterizzato da migliaia e migliaia di “exempla” che non intendo, anche perché non vi riuscirei, trattare. Ciascuno di noi è stato bambino e saprebbe con molta più grande perizia costruire racconti che trattino episodi di incomunicabilità che troppo frettolosamente siamo soliti chiamare “capricci”.

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parte 6 ed ultima

Guai ad andare alle Poste, in un piccolissimo ufficio di periferia, una periferia affollata prevalentemente da gente anziana nei primi giorni del mese. Valerio, però, non poteva farlo che in quella mattina; doveva nella maniera più assoluta pagare delle bollette. Sarebbe poi partito per la Cina il giorno dopo e ci sarebbe rimasto per tutto l’inverno: non voleva, anche se la scadenza non era imminente, lasciare alla sua compagna anche quella incombenza.
L’ufficio era pieno di gente, tanti anziani ma anche qualche straniero (a Prato da alcuni anni se ne sono visti di tutti i “colori”), soprattutto albanesi, romeni, marocchini, pachistani e cinesi. Valerio ritirò il numero alla macchinetta distributrice e si sedette in un angolo disponendosi ad osservare. La giornata era luminosa ed abbastanza calda per trattarsi di novembre; molte di quelle persone che erano in fila preferivano starsene un po’ fuori a godersi il sole, chiacchieravano delle malefatte del governo che aumentava le tasse ma non garantiva servizi e non creava nuovi posti di lavoro soprattutto per i giovani, proprio mentre i meno giovani lo perdevano e chi per fortuna riusciva a mantenerlo vedeva sempre più allontanarsi l’età della pensione. Di tanto in tanto costoro lanciavano lo sguardo verso l’interno e brontolavano per la solita lentezza delle operazioni. Valerio osservava e ascoltava; molte delle donne, per lo più anziane, sedute accanto, dietro e davanti a lui attendevano in silenzio. Una giovane donna cinese aveva portato con sé un bambino, faccino tondo espressivo con una capigliatura scura scura e ben curata, che se ne stava buono buono tranquillo a giocherellare con una minuscola macchinina in un angolo sognando chissà cosa. Di tanto in tanto agli sportelli si accendeva qualche protesta, si alzava la voce, quasi sempre per ignoranza di meccanismi davvero barocchi, quelli che impediscono le persone oneste più di quanto limitino le disonestà sempre più diffuse.
Entrò un raggio di sole. Un signore in età da lavoro (un cassintegrato? Un disoccupato?) seguito da una piccola bambina nascosta tutta praticamente sotto un ombrellino coloratissimo con disegni di roselline e fiorellini vari. Era l’ombrello che si muoveva dietro quel signore, forse il padre, perché la bambina risultava coperta da quella bellissima cupola disegnata. Occhietti vispi e spiritosi saettavano intorno per raccogliere consensi meravigliati impossibili da nascondere e negare, mentre la piccolina si pavoneggiava rigirando l’ombrellino così come farebbe una provetta mannequin su un palco da sfilata.
Il signore badò innanzitutto a ritirare il suo “ticket” poi con amore si rivolse alla bambina e, senza parlare, le prese l’ombrellino richiudendolo. Le i non la prese bene, non aveva più un ruolo “unico” sulla ribalta; all’improvviso troppo uguale a tutti gli altri, anzi una vera nullità. I sorrisi che l’avevano accolta che l’avevano fatta sentire importante con quel suo bell’ombrellino colorato ora che lui, quell’omone gigantesco che l’accompagnava, glielo aveva chiuso si erano trasformati in sguardi compassionevoli di solidarietà timida ed ella si sentiva umiliata infinitamente. E non fu davvero facile placare la sua ira, fermare le lacrime frutto della frustrazione, della profonda offesa subita.

Fine

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