VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 24 e ultima

VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 24 e ultima

Le quattro ragazze di Roma, della mattina prima, lì.
Il viso intelligente e bambino della mia amica. Attaccammo di nuovo a parlare. L’eclisse, primo argomento, era stata magnifica, da Chiaia di Luna. Il mio amico felicemente si immette nel discorso e mi evita l’imbarazzo retorico della presentazione.
“Cosa fate la sera?” Aria di noia da una parte e dall’altra.
“A noi piacerebbe divertirci insieme a queste ragazze e, forse, anche a loro”, dovemmo pensare all’unisono e così cominciammo a parlare come se la nostra vacanza dovesse prolungarsi per almeno una settimana ancora.
Si recita dunque su questo nuovo soggetto. Progetti futuri, falsi. Una speranza nel cuore, segreta, nel cuore di entrambi.
Si parte da Frontone. Un addio silenzioso a quella spiaggia. Ci guardammo, io e il mio amico, e fummo d’accordo. Aneddoti, battute spiritose ed opportune, gran voglia di riuscire simpatici. Offrimmo spettacolo a buon prezzo, botta e risposta fra noi due. Vantammo scherzando le nostre eccelse qualità, con presunzione disperata falsa ed accentuata. Larghi sorrisi ci mettevano di nuovo in forma, ed il controbattere.
Al culmine, la lettura della mano. In più per scherzo, quella dei piedi, ma soltanto annunciata, minacciata e promessa per la sera. Prendemmo l’appuntamento per il pomeriggio, alle diciotto, a Chiaia di Luna. Ci salutammo col nostro e con il loro entusiasmo.
Appena soli, ci guardammo. Lo sguardo tradiva tutto. Gioia, incertezza e timore di non so cosa. Decidemmo di rimanere… Era chiaro! Ma altri problemi si profilavano, meno gravi: noi eravamo in due e le ragazze quattro.
All’albergo, pero. Ci dissero che non c’era più posto. Lasciammo le valigie all’ingresso.

Durante il pranzo, in un locale migliore di quello del giorno prima, ma meno costoso, decidemmo di tentare in altri alberghi. Certo, il tutto per tutto.
Profumo di fragole, in un cespuglio accanto alla tua testa. Pensavo fossero le tue labbra. Lì, allo stesso posto. Ti aspetto. Senza le fragole profumerà di te. Il castello è fatiscente, ma il giardino dentro è diventato selvatico, pieno di grovigli erbosi. Un tappeto magnifico e soffice di muschio riveste le mura. Il vecchietto non si affaccia più dai merli a sgridare i bambini. E l’acqua sotto il ponte levatoio è disseccata. Dicono ci sia un tesoro. Un fantasma lo custodisce. Io non ho paura dei fantasmi. Tu?
Fai segno di no. Poi, una lucciola ti fa paura. Non voglio ammazzarla. Stringi la mia mano, fortissimo. Mi segui. Forse non hai più timore.
Ora anche tu vuoi trovare il tesoro e non temi più il fantasma.
Il cielo, senza stelle. Pioverà. E noi resteremo lì nel castello fino a quando svanirà la tempesta, al sicuro, scaldandoci coi baci. Sarà sempre così?
Tanti alberghi, nemmeno un posto. Durante il pranzo, una tragica decisione. Partire, all’occorrenza, senza salutare. Era logico. Senza un luogo di riferimento per trascorrere la notte, non si poteva certo restare.
Una tristezza improvvisa, che non ci faceva neanche aprir bocca. Ognuno cercava di far decidere l’altro. Quattro ragazze, insomma, erano pur sempre quattro ragazze. Ma con tutto ciò non ce la sentivamo di restare senza un tetto, nemmeno per una notte.
Non si capirebbe facilmente come ciò potesse essere possibile senza quella crisi profonda nella quale versavamo.
Alle diciassette, sul vaporetto. Ognuno con il volto opaco come se rimproverasse all’altro di averne la colpa. Il mio amico sfoggiava a tratti un po’ di calma, ma dentro lo capivo io. Io, poi, dovevo essere ben nero di spirito, da farlo trapelare chiaramente sul viso.
Accesero i motori.
Pensammo per un attimo: “Scendiamo!”.
Ma ormai non ne avevamo più la forza. Meglio lasciare. Io accusavo l’altro e l’altro me.
Si scusava “Ma non eri sicuro nemmeno tu. D’altronde, se vuoi, puoi ancora scendere”.
Scendere, sì, diceva bene, ma dove sarei andato? No, no, era meglio lasciare. Oramai, sconfitti come eravamo, non potevamo pretendere di più. Pensavo alle ragazze.
“Stupidi!…” non vedendoci arrivare ed avranno attaccato con altri.
Rideva della mia tristezza, il mio amico, per dimenticare se stesso.
Quando fummo al largo e Ponza una massa rocciosa lontana, scoppiai a ridere anch’io, guardando il viso imbronciato del mio amico. La testa del toro era, a terra, staccata dal busto cui apparteneva. Cominciava un nuovo corso, per la mia storia. Così come era incominciato tre giorni prima. La testa del toro era a terra, la testa del toro.

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“Complimenti!”, così, sprovveduto, imbambolato, sorpreso di sentirsi dire “Complimenti!”. Una mano tesa nell’attesa dell’altra. E la stretta è diplomatica.
I discorsi si allontanano dall’argomento. E poi vi ritornano con un moto repentino. Scoprire così quel che ti rende alternativamente simpatico e antipatico ed essere sorpreso di sentire:
“Complimenti!”
E di cosa “Complimenti!”, di saper dare se stesso agli altri, di svelarsi tutto, di diventare un niente all’improvviso?
“Complimenti!”
Nient’altro che “Complimenti!”
“Bello, sai, molto bello!”
E lì dentro ci sono tutto, tranne piccola parte di me non sviluppata ed insignificante, ancora segreta. E voi mi dite solo questo, soltanto questo, nient’altro. E la riuscita formale è quella che più di tutto piace….

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