NON PROTESTE MA PROPOSTE – dal Circolo ARCI San Paolo e dall’ADSP – CIRCOLO DELLE IDEE di Prato – prima parte

LE IDEE NON VIAGGIANO MAI DA SOLE – AIUTIAMOLE A MUOVERSI

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NON PROTESTE MA PROPOSTE – dal Circolo ARCI San Paolo di Prato e dall’ ADSP – CIRCOLO DELLE IDEE all’interno di TRAMEDIQUARTIERE – Progetto seguito dall’IRIS Ricerche (Massimo Bressan, Massimo Tofanelli e Sara Iacopini) nell’ambito del PROGETTO PRATO della Regione Toscana (Andrea Valzania e Vinicio Biagi. “Gestire le diversità” è uno degli obiettivi da perseguire in una realtà come “questa” di San Paolo che è una vera e propria frontiera.
Ne avevamo parlato in altre occasioni e qui riproponiamo alcune parti di quelle elaborazioni che sono superate nelle “etichette” ma non nella necessità e nella nostra volontà (alcune parti possono essere “datate” riferendosi a nominativi oggi per fortuna “obsoleti” come quelli di Cenni e di Milone).
Ecco alcuni brani di un testo che avevamo preparato alcuni mesi fa:

OBIETTIVI E INTERVENTI INTEGRATI
L’obiettivo generale del nostro progetto è il cambiamento del clima nelle relazioni sociali ed economiche, nel quartiere dove operiamo, nella direzione della distensione e dell’accoglienza. La complessità dei temi da affrontare nel territorio di San Paolo-Macrolotto Zero impongono la scelta di interventi integrati che riguardino diversi campi d’azione: l’inter-cultura, l’ambiente, l’urbanistica e gli spazi pubblici, la viabilità, le relazioni economiche, la partecipazione dei cittadini (con le loro diverse origini culturali) alla gestione del territorio.
Inter-cultura
In una realtà così composita notevoli sono i fenomeni di disgregazione, di isolamento e di spaesamento. Per essere felici in un posto occorre avvertire il territorio nel quale si vive come luogo amico e per raggiungere questo obiettivo occorre conoscerlo nella sua storia nelle sue trasformazioni nelle sue caratteristiche sociali ed antropologiche. San Paolo è stato da tempo luogo di presenze di diversa provenienza territoriale: negli ultimi decenni forte è stata l’immigrazione interna a supporto dell’’industria tessile mentre negli ultimissimi anni notevole è stato l’afflusso di extracomunitari di origine soprattutto cinese, tanto è che il problema più rilevante è diventato proprio il rapporto fra la comunità pratese già di per sé composita ed i cinesi con le loro abitudini, i loro particolari stili di vita e la difficoltà di comunicare in modo agevole. Non è facile ma bisogna attivare ogni sforzo per ottenere anche piccoli risultati in positivo.
………………………………….

Riteniamo che il coinvolgimento della Scuola, insieme ad altre agenzie culturali, sia uno dei pilastri su cui basare un intervento efficace per mettere in collegamento i mondi diversi del territorio. Ci proponiamo di attivare i seguenti progetti:
– Percorsi di conoscenza storica, sociale e culturale in una scuola importante di San Paolo (via Toscanini).
Avvieremo incontri con i dirigenti scolastici ed i rappresentanti delle diverse etnie residenti sul territorio.
Costruiremo relazioni attraverso momenti di discussione e di “festa”.
Lavoreremo per costruire sul territorio di San Paolo occasioni per approfondimenti inter-culturali con agenzie culturali che supportano questo progetto (IRIS, ADSP – CIRCOLO DELLE IDEE, Associazione “Dicearchia2008”) e le varie comunità.
Si accompagnerà il lavoro di ricognizione e studio che l’IRIS di Prato, in modo specifico il suo Presidente Massimo Bressan, va proponendo per un’analisi approfondita delle diverse trasformazioni sociali ed antropologiche che si sono presentate sul territorio del Macrolotto Zero e di San Paolo. Verranno coinvolti anche altri Circoli presenti, come il “Curiel” di via Filzi e la Cooperativa “Aurora” di via Ciardi. Saranno organizzate giornate di studio, seminari, incontri con esperti (etnologi, sociologi, antropologi, architetti); saranno allestite mostre fotografiche ed una vera e propria Mediateca delle testimonianze in video che saranno il risultato del progetto “Gestire la diversità” che IRIS attiverà utilizzando tecniche di “digital story telling” che coinvolgerà cittadini del quartiere delle diverse etnie.

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Ambiente, urbanistica e spazi pubblici
Ci concentreremo su due aspetti distinti e paralleli. Il primo di carattere storico e culturale collegato al punto precedente tenderà ad una conoscenza degli studi accurati ed approfonditi che l’architetto urbanista Bernardo Secchi ed i suoi collaboratori, alcuni dei quali già disponibili a partecipare alla realizzazione di questo Progetto, avevano prodotto alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e che vedevano come luogo di primaria rilevanza proprio il territorio di San Paolo e quello specifico del cosiddetto Macrolotto Zero. Il secondo aspetto sarà più specificatamente collegato alle questioni ambientali sociali e sanitarie si dovrà occupare degli stili di vita e delle condizioni abitative e lavorative della comunità cinese, anche allo scopo di evitare poi spiacevoli conseguenze nel rapporto con la popolazione italiana e con gli organismi di controllo istituzionali. Le due parti potrebbero avere come titolo:
1) Dal Piano Secchi al Piano strutturale: cosa recuperare e cosa modificare – Come rendere lo spazio vitale e comune più accogliente per tutti.
2) Acquisizione delle conoscenze in materia di rispetto dell’ambiente ed in materia sanitaria da condividere ed applicare.

fine prima parte

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NIENTE E’ COME SEMBRA – cronaca di un sopralluogo per TRAMEDIQUARTIERE – Prato 19 gennaio 2015 – una metanarrazione

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L’immagine in evidenza è esemplificativa!

PER CHI LO AVESSE PERSO O PER CHI E’ PIGRO E NON VUOLE AFFATICARSI A RICERCARE LE TRE PARTI DEL RACCONTO DA ME PUBBLICATO SU QUESTO BLOG eccolo per intero

NIENTE E’ COME SEMBRA – cronaca di un sopralluogo per TRAMEDIQUARTIERE – Prato 19 gennaio 2015 – una metanarrazione

1920 gennaio – “un po’ per celia, un po’ per non morire”
Quella parte della macchina fotografica che inquadra il soggetto – o l’oggetto? – che decidi di riprendere collocandolo in un suo attimo eterno di fissità assoluta non poteva essere chiamato in maniera così distante dalla sua concreta essenza. L’ “obiettivo” è infatti ciò che più lontano non può essere rispetto alla reale “obiettività”. Tutto è fuorché “obiettivo”!
E, pur volendo rappresentare la realtà, la verità, non può che rappresentarne, sulla linea infinita del tempo, una minima minuscola infinitesimale parte di esso.
La dimostrazione pratica di quel che si scrive è data dalla impossibilità di fornire un’unica spiegazione logica “obiettiva” di qualsiasi fotografia.
Ecco, dunque, quel che accade quando ci troviamo, come persone comuni, di fronte agli oggetti che vogliamo fotografare: anche l’attimo che scegliamo e che riusciamo ad ingabbiare, che impropriamente chiamiamo “istantanea”, è inevitabilmente successivo a quello che avremmo voluto fermare. In questo caso l’obiettività ricercata sfugge a noi stessi che la intendevamo invece accogliere come unico ed essenziale punto di vista.

I ragazzi hanno percorso le strade di San Paolo. I ragazzi – ma sono soprattutto ragazze – che seguono il Progetto delle Trame li abbiamo indirizzati ed accompagnati ed hanno così potuto interrogare le varie realtà del quartiere con i loro strumenti, a partire da quelli fisiologici, gli occhi e le menti. Tutto è, dunque, relativo: al momento, alla persona che inquadra ed a ciò che viene inquadrato. Il momento della giornata, delle stagioni e del clima diverso, della luce che cambia. Ed anche le contingenze storiche e sociali di una minima realtà condizionano sia i risultati che le loro interpretazioni in modo emotivo. Diversamente.
Dal Circolo di via Cilea partiamo e chissà perché mi vengono in mente Pirandello ed Imperiali, in particolar modo quella storia “pirandelliana” che quest’ultimo narra ne “La fontana del Comune”. Sarà un presagio? Sarà un presagio!
Un gruppo va verso il “pallaio”, luogo di incontro soprattutto di anziani ( ma i giovani non mancano anche se sono una eccezione)che giocano o solo osservano giocare a bocce e mentre trascorrono il loro tempo al coperto ed al riparo dalle intemperie discorrono sulle malefatte dei Governi e su qualche maldicenza locale.
Accompagno Valeria alla CONADDE mentre Gino e Siria con gli altri, una parte se ne è già andata subito dopo pranzo, va verso l’area Baldassini. C’è un grande giardino attrezzato ed una quinta di archeologia industriale di esaltante bellezza, tanto è che l’urbanista, lo storico ed il costruttore difficilmente condividerebbero un unico pensiero.
Con Valeria corriamo, le chiedo se il mio passo sia troppo rapido per lei: lo faccio anche per marcare il mio segreto desiderio di non essere considerato quel che oggettivamente sono, un anziano troppo spesso rammollito e pantofolaio. Parliamo; in verità parlo soprattutto io per tutto il tempo, chissà che non annoi come fanno con me alcuni. Ma siamo veloci a ritornare dopo pochi minuti. E ci ricongiungiamo al gruppo, dopo aver scartato , solo in parte, l’incontro con uno strano tipo che, chissà perché, aveva sbagliato il tempo di un appuntamento con Saverio, il nostro coordinatore di Circolo Piddì, e mi tampinava. Bye Bye, gli dico, e fatti rivedere un altro giorno. Mi sento un verme, ma non sono in grado di essere migliore se mi si limita.

Parte 2
……Gli altri sono già agli “orti sociali”, una bella realtà, non c’è che dire: e di spazi così, abbandonati e ricettacolo di sterpi, rettili e qualche oggetto di arredamento fuori posto ma ancora degno di essere esposto in qualche “mercatino dell’usato” o in qualche “installazione di arte contemporanea”, ve ne sono altri qui in giro. Spazi che potrebbero essere utilizzati proprio come “orti sociali” destinati ad anziani, a famiglie, a bambini. I giovani del workshop si sbizzarriscono nel chiedere e nell’impostare inquadrature di uomini e natura. E qualcuno vi si perde e smarrisce. E il gruppo lo perde, proseguendo il suo viaggio pomeridiano tra strade, giardini privati, spazi verdi ordinati e spazi grigio-verdi disordinati e polverosi, antiche fabbriche dagli eleganti sontuosi aristocratici contorni architettonici che emanano sensazioni vetuste ma ancora caratterizzate da una certa nobiltà: quante operaie ed operai vi hanno agito? Quali tragedie quante e quali sofferenze e quante e quali festose ricorrenze hanno vissuto? Dentro esse abita la Storia di questa città e ne respira ora solo un lontano sentore colei o colui che vi transita riconoscendone i profondi valori storici che da lì promanano. Ora esse, pur rimanendo ancora erette con grande signorile apparente dignità, rischiano di essere destinate dall’incuria dei contemporanei ad essere abbandonate al degrado. Qualche espressione da “terzo paesaggio” attira le attenzioni dei giovani fotografi ed in particolare una struttura muraria che divideva gli spazi fra San Paolo e quello che era al di là di San Paolo, che poi solo di recente è stato identificato da Bernardo Secchi come “Macrolotto Zero”, mostra ad ogni modo di possedere una sua peculiare storica distinzione. Fra un’area coltivata ed uno spazio dove il disordine regna indisturbato si giunge al grande Giardino di via Colombo, luogo di incontro e raduno dal mattino alla sera della pacifica e disciplinata comunità cinese – con orari scanditi da ordinanza sindacale dopo le vibranti assurde proteste di un cittadino che lamentava la confusione ingenerata dagli strumenti che accompagnano la pratica del Tai-chi. Altre etnie – Prato ne è piena e ne conta più di cento – frequentano questo luogo. Ci sono anche gli italiani, ma provate per credere e venite pure a vedere, i cinesi – ebbene sì – sono la maggioranza. E ce ne sono davvero tanti, cosicché Valeria si appresta a rubare istantanee con le quali intende dimostrare ( e ce lo dirà solo dopo ) che è pur sempre un lunedì pomeriggio e c’è ancora luce e dunque non può essere del tutto vero che i cinesi lavorino soltanto, che lavorino tanto come si dice così spesso. Racconto a chi mi sta vicino l’esperienza di Emma Grosbois, una giovane fotografa che installa provocazioni artistiche e narro del comportamento dei cinesi, la loro compostezza, la ritrosia, la timidezza su cui però poi, quando Emma aveva completato l’installazione e se ne allontanava, prendeva corpo e forza la curiosità. Andiamo oltre e Valeria si diverte a fotografare i panni stesi dentro e fuori i terrazzini delle abitazioni cinesi lungo il nostro percorso. Li ricerca con curiosità: utilizzano gli “stand” industriali non potendo, per limiti regolamentari dei condomini, esporli all’esterno alla maniera delle famiglie mediterranee; ma non tutti in effetti sono rispettosi e Valeria di questo non può che essere contenta: riprenderà questi tessuti colorati che creano una sarabanda cromatica di straordinaria bellezza.

J.M.

Parte 3
Lungo il tratto – via Puccini via Respighi via Rota, tutti grandi musicisti – che porta verso via Pistoiese, si incrociano etnie orientali islamiche, donne velate e bardate da drappeggi variopinti di gran buongusto. Anche io fotografo qualche scorcio e privilegio la figura umana e la documentazione del lavoro dei nostri giovani. Inquadro infatti la realtà in movimento e per questo temo sempre che vi sia qualcuno che possa non gradire queste mie intromissioni. Ecco infatti che da un auto ferma c’è qualcuno dall’interno, che a me sembra proprio un cinese, che mi apostrofa – lo vedo agitare la mano – e suona per tre volte anche se non in modo imperativo il clacson: faccio finta di nulla, potrei non essere io il destinatario, anche se sembra proprio il contrario, di tale protesta; ma il tizio insiste ed un signore dai tratti occidentali che gli è accanto all’esterno mi fa segno di avvicinarmi. Diamine, che vorrà da me, ora; e temo per la mia incolumità. Ma no! E’ un amico che ha voglia semplicemente di scherzare, dal momento che mi vede in mezzo a tanta bella giovane compagnia. Lo saluto con cordialità, rinfrancato. Una parte della bella compagnia se ne va verso la Stazione di Porta al Serraglio. Rimaniamo in cinque e ci inoltriamo nel cuore di quella che chiamano “Chinatown” un guazzabuglio di corpi e linguaggi in luoghi pittoreschi ma maleodoranti. Procediamo in questi ambienti e ne cogliamo alcuni aspetti conservandoli nei nostri “aggeggi” elettronici: ristoranti, pescherie, ortofrutta, supermercati caotici, sale giochi e per la strada avventori, passanti casuali, garzoni di bottega, signori ben vestiti con valigette e computer accesi ed operanti si mescolano in ambienti degradati. In una di queste strade, leggermente più riservata, accanto ad un’officina meccanica chiaramente italiana ( in questo settore i cinesi non si sono mai inseriti) c’è una chiesa cristiana rivolta ad ospitare parte della comunità cinese (è in un capannone industriale ) e di fronte ad essa si nota un asilo nido anche questo in tutta evidenza – oltre che per le insegne esterne bilinguistiche dalle decorazioni interne – al servizio delle famiglie cinesi, che attualmente sono le più prolifiche.
Si va facendo sera e così si ritorna verso il Circolo. Attraversiamo di nuovo via Pistoiese e per via Umberto Giordano (ritorniamo ai musicisti!) costeggiamo le mura ben mantenute della vecchia fabbrica Forti. Ne ammiriamo alcune parti soprattutto gli spazi antistanti via Colombo che ne evidenziano l’abbandono. La luce sta venendo meno ed è sempre più difficile fotografare; ci limitiamo a documentare ed infatti riprendo alcuni atti del gruppo residuo sulla “rotonda” di via Giordano/ via Colombo con la cornice bassa delle fabbriche abbandonate. E poi in un’istantanea Siria è con Valeria ed in fondo lungo la recinzione Gino leggermente voltato indietro verso un auto della Polizia Municipale “apparentemente” ferma allo Stop.
Diciamoci la verità: quell’auto si era messa in posa per essere fotografata! La foto “istantanea” casuale scattata senza una vera e propria volontà non avrebbe alcun significato. E non avrei potuto scattarne altre per documentare i fatti per non aggravare la situazione del “povero” Gino, malcapitato. L’auto era ferma, proprio, non apparentemente, ferma, ben piantata sullo Stop. Così come fermo era Gino, impietrito e stupito.
Cosa era accaduto? Fa parte della relativizzazione di cui accennavo soprattutto nell’avvio. Ciò che si vede può essere realtà ma anche impressione, suggestione. Questo lo sapevo, ma vaglielo a spiegare ai due solerti vigili urbani.
Lo dico sempre a mia moglie quando la sento imprecare contro quel tizio che ha parcheggiato malissimo ed ha occupato parte del posto nel quale lei dovrebbe parcheggiare. Ma cosa succede al ritorno? La macchina dell’autista che le ha maledetto è andata via ed ora è inevitabile che sia proprio la sua, quella di mia moglie, ad essere parcheggiata “da bestia”. Apparenza ma anche parte di realtà! Anche ai due vigili urbani era parso che il nostro Gino avesse divelto quel reticolato rugginoso ed incerto che si sbriciolava a pezzi solo a toccarlo: il nostro amico a tanti tipi può somigliare ma non di certo all’incredibile Hulk. Oppure sì? È forse un altro esempio di “relativizzazione” della realtà? Siamo di nuovo a chiederci se sia o meno “reale” quel che vediamo, quel che percepiamo? O soltanto ci illudiamo? Forse sì, la vita davvero è un sogno, bello a volte brutto in altre, ma pur sempre un sogno.

G.M.

AGGREGAZIONE DEMOCRATICA SAN PAOLO (A D S P) – CIRCOLO DELLE IDEE – riflessioni sui nostri percorsi

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AGGREGAZIONE DEMOCRATICA SAN PAOLO (A D S P) – CIRCOLO DELLE IDEE – riflessioni sui nostri “percorsi”

Nella vita c’è chi precorre i tempi e chi invece si attarda. Noi al Circolo di via Cilea da alcuni mesi avevamo compreso (sappiamo che è tutto “soggettivo” e “relativo” ma per noi è COSI’) che non potevamo più rimanere all’interno di un contenitore nel quale si erano infiltrate persone di cui non ci fidavamo più. Non ci hanno mai impressionato il piglio e la volontà di “cambiare”: abbiamo a lungo condiviso la necessità di metterci alle spalle anni ed anni di “governo” della cosa pubblica in modo “personalistico” e discutibile dal punto di vista etico; abbiamo denunciato le modalità accentratrici scarsamente democratiche delle gestioni passate; abbiamo criticato i metodi e proposto – scrivendone e praticandoli – le giuste alternative.

Non intendiamo più essere presi per i fondelli; chi lo desidera lo fa ad esclusivo suo piacere. Ecco che di tanto in tanto si leva qualche voce dissidente; oggi tocca a Bersani dopo Fassina, Civati e Cofferati. Intanto la Dirigenza si è accorta che vi è stato un gran calo del tesseramento, tanto è che si è levato il “grido d’aiuto” degli “amministratori” che battono cassa anche per “il calo generale degli introiti derivati dal tesseramento”.
Ecco, si chiedano come mai; ma, lo si sa, come accade per noi di San Paolo c’è un muro che ci separa e nessuno ha avuto la benché minima idea di dover dialogare.

Poiché queste cose le scriviamo da tempo, ora il tempo è scaduto irrimediabilmente: il nostro PARTITO DEMOCRATICO non è più quello del quale vanno parlando loro che lo hanno ridotto ad un “partito democratico” qualunque che riesce ancora a vincere grazie ai sempre più numerosi “sfiduciati” della POLITICA che rinunciano ad andare a votare.

Noi abbiamo un grande rispetto della parola “POLITICA” e non rinunciamo a praticarla.

Siamo stati e siamo punto di riferimento forte ed essenziale nell’area di San Paolo e del Macrolotto Zero. Lo attestano anche le “IDEE” che abbiamo messo in pubblico e che ci vedono veri “PROTAGONISTI” nella vita sociale, politica e culturale di quest’area.

G.M.

PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – ottava parte – la testimonianza di un grande protagonista delle lotte operaie nel “pratese”: PIETRINO VANNUCCI

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – ottava parte – la testimonianza di un grande protagonista delle lotte operaie nel “pratese”: PIETRINO VANNUCCI

Pietrino Vannucci è stato dirigente sindacale, segretario degli edili, negli anni ’50, poi membro della segreteria CGIL, segretario dei tessili dal 1963 e negli anni ’70 segretario della Camera del Lavoro.

‘Giovanna’ e le lotte operaie a Prato negli anni ‘50. Testimonianza di Pietrino Vannucci

La realizzazione di Giovanna avviene in un momento molto difficile per il movimento sindacale e democratico. Con la cacciata delle sinistre dal governo nazionale finisce quella esaltante stagione della unità nazionale che tanti frutti politici aveva dato al nostro paese per il suo risorgere e che tanta speranza aveva riposto nell’animo dei lavoratori e delle masse popolari. La cacciata del fascismo, la nascita della Repubblica, la Costituzione erano marcati da questa partecipazione, e la stessa ricostruzione morale, civile e democratica del nostro paese era avvenuta attraverso le lotte popolari e l’unità nazionale.

A Prato i lavoratori e il movimento partigiano riuscirono da soli a salvare dalla distruzione buona parte delle attrezzature industriali tessili. Il sacrificio dei fratelli Buricchi e di altri partigiani è un esempio del prezzo pagato per questa dura lotta, per la quale, oltre ai fratelli Buricchi, perirono molti lavoratori e partigiani. Immediatamente dopo la liberazione fu così possibile riprendere l’attività produttiva. Le macchine che erano state smontate dai lavoratori e portate in vari luoghi furono rimontate, ed iniziò prima del previsto la ripresa produttiva, che avveniva sotto l’egida dei comitati di gestione, dei consigli operai, secondo una volontà ed una decisione espressa dai comitati di liberazione nazionale. Il potere dei lavoratori si era potuto così positivamente affermare, sia nelle fabbriche che nel paese.

I capitalisti italiani ed anche gli industriali pratesi, che erano stati emarginati da questi processi politici liberatori, anche perché molti di questi erano compromessi col fascismo, approfittarono della nuova situazione politica per tentare la restaurazione alla vecchia maniera. L’attacco ai lavoratori ed ai diritti sindacali e democratici si giustificava e avveniva in nome dell’anticomunismo e poco importava se il Partito Comunista e il Partito Socialista erano dalla parte dei lavoratori e in difesa della democrazia. Lo scopo era di giungere ad una piena restaurazione capitalistica e quindi alla eliminazione del potere contrattuale dei lavoratori nelle fabbriche e nel paese.

Nel pratese l’attacco fu duro e veemente. Gli industriali, invece di affrontare il rinnovo del macchinario e lo sviluppo produttivo dell’industria tessile, scelsero la via dell’attacco alle libertà dei lavoratori, la via dei licenziamenti e della smobilitazione. Sono questi anni terribili e di grandi sofferenze per il movimento sindacale pratese, per i lavoratori. e le loro famiglie, in particolare per coloro che perdevano il lavoro. Sono gli anni della nuova resistenza, caratterizzata da memorabili lotte, da un grande impegno in difesa del posto di lavoro contro il ricatto della fame, per lo sviluppo economico, democratico e sociale del paese. Il 1953 e tutti gli anni ’50 sono caratterizzati in tutta Italia dalla lotta per il lavoro, con l’occupazione delle terre incolte o mal coltivate, con gli scioperi a rovescio nel quadro del piano di lavoro promosso dalla CGIL. Sono anche anni segnati dal sangue operaio e contadino, con gli eccidi di Avola, Montescaglioso, Modena, Reggio Emilia, dove operai e contadini vengono uccisi solo perché partecipavano alla difesa del posto di lavoro, chiedendo di poter vivere assieme alle loro famiglie in libertà e in democrazia. Il 1953 è anche l’anno in cui la sinistra e il movimento sindacale ottengono un primo grande successo con l’affossamento della ‘legge truffa’, che doveva rafforzare e far avanzare la tentazione autoritaria nel paese. I lavoratori e le masse popolari bocciano, con le elezioni, questo disegno ed è per tutto il movimento una boccata d’ossigeno. Riprendono le lotte con più vigore e più fiducia, e continuano per tutti gli anni ’50, culminando nel ‘60 nei grandi movimenti popolari dove i primi giovani con le maglie a strisce sconfiggono la prepotenza del governo Tambroni.

…fine ottava parte… prosegue testimonianza di Pietrino Vannucci

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TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – un nuovo esempio

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venerdì 27 febbraio ore 17.30 – Circolo ARCI San Paolo di via Cilea – presentazione progetto TRAMEDIQUARTIERE

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – un nuovo esempio

“Sì, in quella foto che ti ho mostrato ieri ero proprio in questo giardino! Ma, e tu lo hai visto, non c’era ancora. C’era un cantiere e, senza il nostro impegno, in questo posto ci sarebbe stato un altro palazzo….Erano altri tempi, ero giovane, lo hai visto no? Avevo ancora tanti capelli! Incazzato sì! Forse più di ora, anche se oggi non ho più la “speranza”.”

Chissà perché ma pochi giorni prima mi ero arrampicato sull’alto della libreria “Antica Venezia” con una scala, uno “scaleo” di legno, molto incerta e traballante e ne avevo estratto una vecchia cartella arabescata ricolma di vecchie fotografie. Qualche giorno prima avevo partecipato ad un work shop con Enrico Bianda e ne avevo tratto lo stimolo per fotografare il territorio ma anche per recuperare quel che avevo nei cassetti o nelle parti alte dei mobili antichi. Chissà perché i nostri ricordi li collochiamo così fuori dalla nostra portata; non ho soffitte in casa: da quaranta anni vivo in un condominio di sei piani ma abitiamo solo al quinto. Forse sarà una forma di difesa o la volontà di allontanare da noi il passare del tempo, la volontà di contrastare in modo infantile i segni che il tempo ci infligge.
Ho provato poi a metterle in ordine… le avevo lasciate lì da un po’ di anni in maniera confusa… ma sentivo da tempo una formidabile esigenza di riordinarle ed il lavoro comune al Circolo l’aveva moltiplicata… foto senza date, di difficile collocazione all’interno di un diagramma cronologico… E così, mentre ero sul tavolone nella stanza luminosa della mia casa abbastanza alta sui tetti di San Paolo con centinaia di fotografie buttate a casaccio in ogni suo angolo è venuta a trovarmi come fa ogni fine settimana mia figlia Arianna con il mio nipotino Andrea che ha cinque anni ma è un ragazzino in gamba che dimostra di essere ben più maturo di quelli della sua età, un ometto, un uomo in miniatura con un’esuberante curiosità. Ed è così che tutta quella roba, forse anche lo stesso disordine lo ha attratto immediatamente.
Avevo poco più della sua età quando sono arrivato in questa periferia di Prato; con la mia famiglia abitavamo nelle “baiadere” in una zona di confine oltre la quale ampi erano gli spazi verdi quasi tutti coltivati. Venivamo da un’altra periferia, quella non troppo lontana di Firenze e trovai qualche difficoltà ad inserirmi fra i miei coetanei a scuola perché, a volte può apparire ben strano, non parlavamo proprio la stessa lingua.
Tardai anche per questo ad inserirmi in uno dei gruppi di ragazzi che in San Paolo erano nati, tranne che con Ginotto, la cui famiglia era venuta già da qualche anno prima della mia giù dal Mugello: il padre lavorava come stalliere in una importante Fattoria ai piedi del Monteferrato e la madre andava a servizio in una casa signorile appena fuori delle Mura di Prato.
Di quegli anni e di quelle avventure non ho foto; non le facevamo mai e quelle che ho conservato riguardano solo la mia famiglia. Non so cosa sia stato di Ginotto… e non ho nemmeno una sua foto.

“Vedi, Andrea, il più della volte i territori sono il risultato della volontà delle comunità che le abitano. E questo accade anche quando la volontà è debole e vi prevalgono interessi di pochi. Questo giardino non ci sarebbe stato senza l’impegno di alcuni di noi”.

…fine prima parte….

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – (ri)mettiamoci alla prova – terza parte e conclusione

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – (ri)mettiamoci alla prova – terza parte e conclusione di Giuseppe Maddaluno

Lungo il tratto – via Puccini via Respighi via Rota, tutti grandi musicisti – che porta verso via Pistoiese, si incrociano etnie orientali islamiche, donne velate e bardate da drappeggi variopinti di gran buongusto. Anche io fotografo qualche scorcio e privilegio la figura umana e la documentazione del lavoro dei nostri giovani. Inquadro infatti la realtà in movimento e per questo temo sempre che vi sia qualcuno che possa non gradire queste mie intromissioni. Ecco infatti che da un auto ferma c’è qualcuno dall’interno, che a me sembra proprio un cinese, che mi apostrofa – lo vedo agitare la mano – e suona per tre volte anche se non in modo imperativo il clacson: faccio finta di nulla, potrei non essere io il destinatario, anche se sembra proprio il contrario, di tale protesta; ma il tizio insiste ed un signore dai tratti occidentali che gli è accanto all’esterno mi fa segno di avvicinarmi. Diamine, che vorrà da me, ora; e temo per la mia incolumità. Ma no! E’ un amico che ha voglia semplicemente di scherzare, dal momento che mi vede in mezzo a tanta bella giovane compagnia. Lo saluto con cordialità, rinfrancato. Una parte della bella compagnia se ne va verso la Stazione di Porta al Serraglio. Rimaniamo in cinque e ci inoltriamo nel cuore di quella che chiamano “Chinatown” un guazzabuglio di corpi e linguaggi in luoghi pittoreschi ma maleodoranti. Procediamo in questi ambienti e ne cogliamo alcuni aspetti conservandoli nei nostri “aggeggi” elettronici: ristoranti, pescherie, ortofrutta, supermercati caotici, sale giochi e per la strada avventori, passanti casuali, garzoni di bottega, signori ben vestiti con valigette e computer accesi ed operanti si mescolano in ambienti degradati. In una di queste strade, leggermente più riservata, accanto ad un’officina meccanica chiaramente italiana ( in questo settore i cinesi non si sono mai inseriti) c’è una chiesa cristiana rivolta ad ospitare parte della comunità cinese (è in un capannone industriale ) e di fronte ad essa si nota un asilo nido anche questo in tutta evidenza – oltre che per le insegne esterne bilinguistiche dalle decorazioni interne – al servizio delle famiglie cinesi, che attualmente sono le più prolifiche.
Si va facendo sera e così si ritorna verso il Circolo. Attraversiamo di nuovo via Pistoiese e per via Umberto Giordano (ritorniamo ai musicisti!) costeggiamo le mura ben mantenute della vecchia fabbrica Forti. Ne ammiriamo alcune parti soprattutto gli spazi antistanti via Colombo che ne evidenziano l’abbandono. La luce sta venendo meno ed è sempre più difficile fotografare; ci limitiamo a documentare ed infatti riprendo alcuni atti del gruppo residuo sulla “rotonda” di via Giordano/ via Colombo con la cornice bassa delle fabbriche abbandonate. E poi in un’istantanea Siria è con Valeria ed in fondo lungo la recinzione Gino leggermente voltato indietro verso un auto della Polizia Municipale “apparentemente” ferma allo Stop.
Diciamoci la verità: quell’auto si era messa in posa per essere fotografata! La foto “istantanea” casuale scattata senza una vera e propria volontà non avrebbe alcun significato. E non avrei potuto scattarne altre per documentare i fatti per non aggravare la situazione del “povero” Gino, malcapitato. L’auto era ferma, proprio, non apparentemente, ferma, ben piantata sullo Stop. Così come fermo era Gino, impietrito e stupito.
Cosa era accaduto? Fa parte della relativizzazione di cui accennavo soprattutto nell’avvio. Ciò che si vede può essere realtà ma anche impressione, suggestione. Questo lo sapevo, ma vaglielo a spiegare ai due solerti vigili urbani.
Lo dico sempre a mia moglie quando la sento imprecare contro quel tizio che ha parcheggiato malissimo ed ha occupato parte del posto nel quale lei dovrebbe parcheggiare. Ma cosa succede al ritorno? La macchina dell’autista che le ha maledetto è andata via ed ora è inevitabile che sia proprio la sua, quella di mia moglie, ad essere parcheggiata “da bestia”. Apparenza ma anche parte di realtà! Anche ai due vigili urbani era parso che il nostro Gino avesse divelto quel reticolato rugginoso ed incerto che si sbriciolava a pezzi solo a toccarlo: il nostro amico a tanti tipi può somigliare ma non di certo all’incredibile Hulk. Oppure sì? È forse un altro esempio di “relativizzazione” della realtà? Siamo di nuovo a chiederci se sia o meno “reale” quel che vediamo, quel che percepiamo? O soltanto ci illudiamo? Forse sì, la vita davvero è un sogno, bello a volte brutto in altre, ma pur sempre un sogno.

G.M.

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – settima parte

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – settima parte

prosegue e si conclude la testimonianza di Armida Gianassi la protagonista del film

“Poi abbiamo lasciato la campagna. Con tanto rimpianto. Per chi nasce in campagna è difficile vivere nella città. Firenze la conoscevo fin da bambina, perché mio padre qualche volta mi ci portava. Prato invece era una città anomala, si lavorava, si lavorava e basta. L’unico respiro era salire su un autobus e andare a Firenze, lì c’era un’altra atmosfera. Poi sono passati gli anni, mi sono abituata a Prato. Era la città che mi aveva accolto, che mi aveva dato da vivere, che mi aveva fatto crescere, in cui avevo mosso i primi passi nella vita, e sono sempre pieni di entusiasmo e di sogni. Quindi sono riconoscente a questa città, e qui sono ritornata a vivere dopo averla lasciata. Però è una città che mi ha fatto anche soffrire.
Io non ho vissuto l’esperienza della grande fabbrica. Quando mi proposero di fare Giovanna lavoravo alla ditta Suckert, in via S.Silvestro all’angolo di Piazza Mercatale. Ho lavorato lì perché conoscevo i proprietari, la famiglia Suckert. Li avevo conosciuti nel Mugello quando ancora stavo lassù. Era una piccola ditta che fabbricava corde per filature, con poche persone a lavorarci. In tutto, al completo, eravamo sette o otto. Era una ditta a dimensione familiare in cui si stava bene, se c’era qualche problema ci aiutavamo, se c’era qualche rivendicazione da fare al titolare parlavamo una per tutte e la cosa veniva definita.
Mi ricordo che quando ho avuto l’occasione di Giovanna non sapevo come fare, perché in ditta c’era molto lavoro. Chiesi il permesso al titolare, vennero sia Montaldo che Pontecorvo a chiedere se poteva concedermi i permessi per girare il film. Durante la lavorazione non ho mai smesso completamente di lavorare in fabbrica. C’erano giorni in cui dovevo essere tutto il giorno sul set, altri in cui ci stavo mezza giornata, e mezza giornata andavo a sbrigare il mio lavoro in fabbrica. I proprietari non mi crearono problemi, anzi furono quasi contenti di darmi i permessi.
Dopo il film Giovanna ho continuato a lavorare, ho fatto le stesse cose che facevo prima, anche se c’era qualcuno in più che mi salutava per strada o mi riconosceva. Poi mi hanno invitata a Roma, ho visto il film. Ho anche avuto qualche proposta, però l’ho rifiutata perché già a quel tempo avevo conosciuto mio marito, e quindi…. Insomma, avevo preso un’altra strada.
Ho continuato a lavorare nella stessa ditta, nell’attesa di farmi poi una famiglia. Poi mi sono sposata e ho lasciato Prato per andare a vivere a Firenze, e così ho fatto la vita di tante donne che si sposano, che lasciano la propria città, le amicizie, e ho ricominciato daccapo. Ho avuto i miei figli, la prima una bambina, e per guardare mia figlia ho rinunciato a lavorare. Così la mia vita è continuata come quella di tante e tante altre donne. Poi ho avuto un’altra figlia, ho cambiato ancora città, ho lasciato Firenze. Insomma un susseguirsi di cose, cose normali di una vita normale. Ho cercato di trasmettere alle mie figliole i sogni che io forse non avrei realizzato, ma il cammino continuava e sarebbe continuato con loro, e forse in parte i miei sogni gli avrei realizzato attraverso di loro. Ho sempre insegnato alle mie figlie che, pur essendo nate donne, non per questo non dovevano avere la loro vita. Dovevano cercare soprattutto di studiare. Io ho sempre avuto il pallino dello studio, forse perché, quando ero giovane, non ho potuto realizzare questo desiderio.
Confesso che soltanto quando vidi il film tutto montato ho capito l’importanza della cosa, più grande di quella che mi era sembrata durante la lavorazione; ho capito che valeva la pena averlo fatto, perché Giovanna rappresentava nel film il problema di tante donne, specialmente a Prato dove le fabbriche erano così tante: rappresentava la sofferenza della donna nella fabbrica, la fatica della donna che lavorava e che aveva il doppio lavoro, in fabbrica e alla sera in casa, in famiglia. Quando vidi il film mi sono detta che era proprio quello che pensavo, che intuivo ma non riuscivo ad esprimere con tanta chiarezza.”

G.M.

MCM20027

—prosegue….