“FRA L’ARNO E LA STRADA” di MANUELE MARIGOLLI – VENERDI’ 27 MARZO – CIRCOLO ARCI SAN PAOLO VIA CILEA PRATO – PRIMO INCONTRO DE “IL DOMINO LETTERARIO”

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Libero “era cresciuto fra l’Arno e la strada, lì aveva imparato a valutare avversari e pericoli, ad adottare comportamenti e strategie conseguenti, pesare le forze in campo. Capire anche quando era il caso di voltarsi e andare, prima che l’andare fosse una fuga. Mantenere intatto il proprio prestigio, perché sarebbe stato utile una prossima volta….Non era e non diventò mai un competitivo, ma se era costretto a competere allora voleva essere quello che rimaneva in piedi. Vincere e giocar bene è privilegio di pochi, il destino dei campioni. Libero campione non lo era.”

“Fra l’Arno e la strada” di Manuele Marigolli è un romanzo nel vero senso del termine con una struttura moderna, dove la “memoria” viene di continuo interrotta da una sorta di “flusso di coscienza” che implica frequenti “flash-back”; è un “romanzo di formazione” che segue la crescita e la maturazione del protagonista, Libero, per l’appunto come descritto sopra dall’autore “uomo libero”; è un romanzo dall’andamento classicheggiante in molte delle sue parti dove si respira una poetica elegiaca nel recupero di raffinati spazi nascosti dalla quotidianità che tutto tende ad obnubilare e che attraverso sprazzi preziosi emergono grazie alla sorprendente capacità stilistica dell’autore, che sin dalle prime pagine si rivela accanto a riflessioni esistenziali eterne: “Vola. Vola con le ali del sogno oltre i monti e le colline. Vola sui boschi di querce e di castagni. Sale fino ai faggi e agli alberi dei crinali. Scende per valli e fiumi, e vola. Vola fino al primo ricordo che la sua mente sappia rievocare”. Ce n’est qu’un début….” direbbero i sessantottini. Ed è così, non è che l’inizio: siamo soltanto a pag.25 (la 15° del romanzo).

Nella prima parte del commento che ieri ho pubblicato parlavo di “una sorta di flusso di coscienza”; “una sorta”, perché non si tratta di sequenze di termini “apparentemente” alla rinfusa ma di blocchi interi di memoria in un insieme di ricordi appiattiti dal tempo, il quale viene segnato esclusivamente dagli eventi “storici” sia quelli che Libero non ha vissuto direttamente ma li ha conosciuti come se fossero suoi dalle narrazioni dei suoi nonni e degli zii, sia quelli che riguardano la Vita di Libero e che rappresentano la sua crescita civile. Nello scrivere “Fra l’Arno e la strada” Manuele Marigolli ha voluto- e questo identifica questo romanzo come “opera prima” di ottimo livello – fare i conti con la storia della sua gente, recuperandone sprazzi di esistenza quotidiana partendo dagli anni più crudi della barbarie fascista e dell’insensatezza della guerra portandosi fino ai giorni nostri. La scrittura di “Fra l’Arno e la strada” funziona per Manuele anche come antidoto nei confronti di un tema terribile che condiziona l’esistenza degli umani: la tanatofobia, la paura della morte; nel libro troviamo questa ricerca frequente di esorcizzare tale timore, sin dalle primissime pagine

“L’angoscia era originata dalla convinzione che solo la morte avrebbe cancellato lo stato di felicità. La coscienza dello stato di grazia ritrovato (n.d.r. l’amore per Teresa, la compagna di tutta una vita) sarebbe finito in “una fossa di nebbia appena fonda” gli risvegliò l’antico terrore. L’esaltazione dell’amore gli faceva credere che solo la morte avrebbe potuto impedire a quel sentimento di essere eterno. La certezza che di quell’emozione non sarebbe rimasto assolutamente nulla, persa in un lago di niente, risvegliò la paura che lo aveva accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza.”

E via via così fino alla fine del romanzo, attraverso la morte dei suoi cari anziani, i nonni prima e poi i genitori, “vissute come un fatto che andava nell’ordine naturale delle cose…elaborate triturando il dolore nel fondo del suo animo, non rispondendo con la rimozione ma con il ricordo”, sino alla morte considerata ingiusta “un non senso, un fatto contro natura, un fiume che torna indietro dal mare”, quella della cara Teresa, colpita da un male non curabile che la spense in meno di un mese.

Abbiamo scritto che nel romanzo “Fra l’Arno e la strada” Manuele Marigolli ha inteso fare i conti con tutta una serie di angosce esistenziali, a partire da quelle collegate ai misteri della “morte”. Il suo personaggio, alter ego “Libero”, riesce a superarle solo nelle pagine finali “Non ha più bisogno di inventarsi dei sotterfugi per ingannarla come faceva da bambino prima di addormentarsi, ora è la malattia che lo terrorizza”: ed è con quest’ultima che Libero ingaggia la sua ultima sfida. “La paura della morte che lo aveva terrorizzato adesso non gli appartiene più, anche se non l’ha superata di colpo ma lentamente, giorno per giorno.” Ed è la perdita della persona a lui più cara, un momento estremamente triste e doloroso, che gli permetterà di riconciliarsi, arrendevolmente, con il naturale flusso della Vita. In fondo “il terrore della morte si era sempre manifestato nei momenti più belli.” E le donne, le donne che lo accompagnano nella sua vita, sono figure straordinariamente positive, a partire dalla nonna Dina, della quale parleremo poi, fino alla sua compagna Teresa, alla giovane Irene ed alla figlia Eugenia. Irene appare sin dalle prime pagine come bellissima, sensuale e snella, elastica e morbida nell’incedere, sorridente: è la personificazione della giovinezza e della bellezza che un tempo hanno coinvolto Libero da giovane e che ora nei giorni della maturità inoltrata ritornano prepotentemente ed inaspettatamente a galla. Libero incontra Irene casualmente con la complicità dell’altra sua passione, la caccia ed i cani (ai quali Manuele dedica parte considerevole del suo romanzo) che lo hanno accompagnato nel corso della vita. E poi c’è stata Teresa, che alla fine non c’è più (“La malattia si manifestò cruenta, senza dare neppure il tempo di elaborarla, un male non curabile la aggredì e la spense in meno di un mese.”): l’amore di una vita, l’AMORE, scoperto nelle fumose “riunioni semi clandestine in cui sembrava che si stesse progettando la rivoluzione.” Era l’inverno del 1975. Teresa “aveva i capelli raccolti dentro un foulard rosso con fiorellini neri, legato dietro la nuca…Due ciocche di capelli neri e lucenti…occhi neri come la notte, sopracciglia lunghe, fronte alta, bocca ben disegnata e un sorriso che la illuminava…” E’ AMORE a prima vista, l’Amore di una vita. E poi c’è Eugenia, la loro figlia, con cui Libero ha un difficile rapporto collegato ad un episodio del quale egli porta dentro di sè il dolore di una profonda reciproca incomprensione (“Con lui non riesco a lasciarmi andare, c’è qualcosa che mi frena, che mi ha sempre impedito slanci emotivi.”); ma è lei che ha in mano il destino di Libero e dovrà impegnarsi a riportarlo di nuovo alla Vita.
Le donne di Libero, dunque! I personaggi femminili prevalgono (come, d’altronde, accade nella vita di noi tutti) per la loro profonda concretezza; avevamo accennato alla nonna Dina, una vera e propria femminista “ante litteram”: “Libero vedeva nella nonna il prototipo della donna emancipata. Lei non aveva avuto bisogno di costituire gruppi di coscienza al femminile, di partecipare a movimenti di nessun genere per affermare un bisogno e un diritto….aveva potuto contare su una volontà granitica….Senza mai prendersi troppo sul serio, con un gran senso dell’ironia…Non credeva in un aldilà…Ma credeva nella persona, nella compassione e nella solidarietà del vicino…nell’indivduo, nell’azione del singolo…Era una anarchica individualista…”.

E poi c’era anche l’altra nonna, Annita, da cui Libero apprende le tecniche della “narrazione”: “Quando Libero da bambino restava a dormire da Annita nella casa sul fosso, la nonna, che era una grande narratrice, gli raccontava del tempo passato”.

Ma “Fra l’Arno e la strada” è anche un libro che affida i suoi personaggi alla Storia del Novecento: dal tempo e dai contrasti fra laici e credenti, fra comunisti e democristiani negli anni della Guerra Fredda (“Dal primo luglio del 1949 la Chiesa aveva scomunicato chi era iscritto, chi votava, chi diffondeva la stampa e le idee comuniste…Il Partito allora indicò loro un sacerdote fiorentino. Si sposarono a Firenze…il matrimonio venne celebrato da un prete giovane, che credeva più nel Vangelo che nelle gerarchie….”) fino alle vicende legate alle varie piene dell’Arno ed all’alluvione del novembre 1966, cui Manuele Marigolli dedica un intero capitolo pieno di vicende ed aneddoti; per arrivare poi al Sessantotto ed alle grandi manifestazioni che vedono operai e studenti insieme nella lotta (“La nostra lotta è anche la vostra, vogliamo un mondo in cui i figli degli operai possano studiare, farsi una cultura per non essere più solo numeri buoni per la produzione e lo sfruttamento”).

Si accenna anche allo “strappo” dei compagni del “Manifesto” primo momento di sbandamento per Libero che non comprende i motivi per quella “estromissione” a loro comminata dal PCI e considerata di stampo stalinista. La Storia continua ad accompagnare Libero nella scoperta della passione politica che va di pari passo con la sua crescita civile, culturale ed umana (si snodano davanti ai nostri occhi momenti drammatici come il sequestro Moro, l’uccisione di Guido Rossa e di tante altre persone innocenti colpevoli solo di opporsi al terrorismo di quegli anni). E, al di sopra di tutto, rimane un’unica straordinaria passione che accompagnerà Libero nel romanzo di Marigolli dalla prima all’ultima pagina: la caccia con i suoi riti, le attese, le angosce collegate al profondo rispetto nei confronti della natura che gli viene inculcato dallo zio Mareno, che per la prima volta lo accompagnò a caccia di beccacce. La lettura di quelle pagine è di una profonda emotiva piacevolezza, soprattutto allorché Libero ritrovandosi fra le mani il corpo senza vita della prima beccaccia avvertì un profondo senso di colpa che stemperò l’entusiasmo dell’attesa (“Libero conobbe allora la contraddizione di amore e morte che alberga nel cuore di ogni beccacciaio, ne divenne prigioniero e quella malattia non lo avrebbe più lasciato per tutta la vita.”).

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Manuele Marigolli ha costruito, forse spinto da un suo personale impellente bisogno di ricostruire parti della sua Storia facendola accompagnare per mano lungo i sentieri del Novecento, un romanzo piacevolissimo colmo di riferimenti alla sana e ricca cultura popolare della sua gente, che gli consente di costruire personaggi che, di certo riferiti alla realtà, rimarranno indelebili nella memoria dei lettori.

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