UN “piccolo” ESEMPIO DI METANARRAZIONE a partire dalle “storie della mia gente” PICCERE’ parte seconda

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UN “piccolo” ESEMPIO DI METANARRAZIONE a partire dalle “storie della mia gente” PICCERE’ parte seconda

Parte 2

Il paese era piccolo e tutti conoscevano tutti; Piccerè era piccolina di statura così come il nomignolo con cui la chiamavano, anche quando aveva raggiunto l’età di 16 anni ed era ormai guardata dai giovani – quei pochi rozzi e brutti che circolavano ancora, anche perché negli anni sessanta la strada più facile per tanti era stata quella del “continente”, Torino, Milano, la Germania – non era interessata a loro. Anche se come tutti gli altri della famiglia non aveva frequentato nemmeno un giorno di scuola Picceré era vivacissima per la furbizia e non si lasciava lusingare dalle sollecitazioni delle altre sorelle più grandi che, essendo già sposate, la spingevano a scegliere la sua strada presentandole di tanto in tanto qualche “rozzo” pretendente. Un’estate, era il 1963, era tornata per un grave lutto nella famiglia del marito una sua cugina, Adelaide, che viveva a Prato. Adelaide era una bella giovane donna, più elegante che bella ma davvero faceva la sua figura in mezzo a quelle contadine ed a quei buzzurri. Vennero con una bella auto portando con loro i due figli che non avevano nemmeno conosciuto il nonno, che era morto in quei giorni. Adelaide parlava di quella città, Prato, decantandone l’operosità ed anche la facilità di trovare lavoro, diceva “meglio che a Torino o a Milano o in Francia, in Belgio e Germania”. “Certo, la “ggente ce chiamme marrocchine ma se lavori t’apprezza anche perché so’ ggeluse del modo con cui stammo assieme ridendo e facendo un po’ casino; lloro so’ fridde, ma a nnuje che ce n’ mporta”. Piccerè beveva a gorgoglioni tutto quello che la cugina raccontava e già sognava la sua libertà.
Ce ne volle d’impegno da parte di Adelaide e Stefano, suo marito, per convincere Gesualdo a farla partire per Prato a fine agosto. Ma il padre stimava moltissimo quel suo nipote acquisito e conosceva sin dalla nascita anche Adelaide, donna pia e coraggiosa; e poi a Prato aveva anche un altro fratello più grande di lui che aveva fatto il meccanico e quindi per Picceré ci sarebbe stata possibilità di controllo da parte della famiglia e se voleva lui stesso poteva salire a riprendersela, anche se si stava facendo vecchio e gli acciacchi lo bloccavano nelle ossa. Le sorelle erano gelose di questa avventura; sotto sotto appunto la invidiavano ma la loro vita era stata segnata; la prima, Filomena, aveva già una bambina di cinque mesi, la seconda. Concetta, era in attesa da sette mesi ed ogni tanto minacciava di sgravare anzitempo, non avendo mai smesso di lavorare nei campi.
Con la valigia di cartone chiusa tutta intorno con lo spago sistemata sul portapacchi Piccerè salì sulla Fiat 1500 celeste sedendosi come una signora dietro con i due diavoletti; e qualche lacrimuccia la versò dopo aver abbracciato la mamma e il padre e salutato sorelle e fratelli.
A Prato, lo aveva promesso, avrebbe fatto la brava e si sarebbe subito cercato un lavoro; Adelaide aveva detto a tutti che sarebbe stata ospite da loro fin quanto avesse voluto e semmai – nel pensiero di Adelaide questa idea le balenava – avrebbe potuto accudire alle due “pesti” di casa. In più le aveva anche fatto capire che a due passi da casa loro, una delle sue cugine aveva da poco aperto un bar e forse avrebbe già lì trovato lavoro.

FIP ed altre storie – a Pozzuoli la (grande) CULTURA è di casa!

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FIP ed altre storie

Sono stato a Pozzuoli dal 23 al 26 aprile per seguire i lavori della seconda Edizione del Festival delle Idee Politiche; e, come accade ogni volta che mi sposto, ho conosciuto nuove idee, ho riscontrato nuove realtà e potuto condividere progetti nuovi da realizzare. Anche il “viaggio” in treno che da “veloce” (ero su un “Italo” lentissimo per motivi indipendenti dalla sua volontà) si era allungato diventando più o meno un Intercity aveva riservato numerose sorprese antropologiche ed ero stato arricchito da “slang” familiari di un gruppo che mi ricordava i “pellegrinaggi” dell’infanzia su autobus scalcinati verso, e da, luoghi di culto alla moda negli anni Cinquanta e Sessanta. La prossima volta recupero il mio solito Intercity che ci impiega circa 5 ore ma che mi riserva una varietà “umana” più ricca (Italo da Firenze effettua solo una fermata a Roma Tiburtina; l’Intercity ne fa almeno altre otto e c’è un turn over di persone molto accentuato). Riprendo a trattare l’incontro con Luigi Russi, un ragazzo di cui i miei figli ed i miei nipoti sentiranno di certo parlare; lo avevo contattato già su Facebook di notte (laggiù in India ci sono cinque ore di differenza) ed avevamo fissato di sentirci e di incontrarci prima dell’evento per accordarci sulle modalità ma ci sono state delle difficoltà e con Luigi ci siamo visti e riconosciuti solo pochi secondi prima di avviare a discutere del suo libro. “In pasto al capitale” possiede un grande valore soprattutto nelle prospettive che delinea: come può il cittadino comune fronteggiare l’attacco poderoso all’alimentazione portato dalle multinazionali finanziarie che regolano la produzione alimentare sul nostro Pianeta? Tutta l’analisi politico-economica che Luigi Russi affronta nella parte principale del suo libro è essenziale e propedeutica alle possibili “scelte” che il consumatore può intraprendere: a partire da se stesso, dalla sua famiglia, dal contesto territoriale in cui si trova a vivere. Nella mia introduzione ho ringraziato Città Meridiana per l’invito (è di norma farlo e per me non ha mai la caratteristica di “convenzionalità pura” perché credo nell’efficacia della condivisione e della compartecipazione e ne ho fatto una vera e propria “bandiera distintiva”) ed ho aggiunto che in contemporanea a più di 500 chilometri da Pozzuoli, in Toscana, a Prato si stava svolgendo un workshop organizzato da Tramediquartiere proprio su temi molto simili (parlo di “Un Parco agro-urbano per San Paolo e Macrolotto Zero”) con Michela Pasquali nota botanica ed urbanista ambientale e David Fanfani, architetto ed urbanista. Era una splendida coincidenza che mi spingeva ad invitare Luigi Russi a tornare presto in Italia per venire a Prato, da me, a casa mia, sul mio territorio. L’incontro con Luigi Russi al “Gozzetto” di Pozzuoli in un ambiente davvero singolare ed affascinante è stato uno dei momenti più straordinari della mia presenza a Pozzuoli. Il FIP però, quello vero e proprio (nel cartellone generale, quello ufficiale, del nostro incontro al “Gozzetto” non faceva menzione), cominciava il giorno dopo; ed io ne parlerò.
Poi, visto che accenno a nuovi incontri e nuove positive percezioni, vorrei parlare di Ardesia, una band tutta rivolta al mondo femminile. Stefania Tarantino che ne è componente di rilievo è anche fra le organizzatrici del FIP e mi ha fatto dono graditissimo di un suo CD. Ne parlerò in modo specifico analizzandolo; ma per ora sappiate che si tratta di musica di alto livello al servizio di testi di prima grandezza lirica ispirati a tematiche e personalità della filosofia , della letteratura femminile e femminista.

http://www.ardesiaband.it/band.php

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UN “piccolo” ESEMPIO DI METANARRAZIONE a partire dalle “storie della mia gente” PICCERE’ – prima parte

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UN “piccolo” ESEMPIO DI METANARRAZIONE a partire dalle “storie della mia gente”

PICCERE’

“Uè, Piccerè, domattina vieni a lavorare; alle 7 in punto, ti raccomando” ; così incominciai il mio lavoro di cernitrice. Gli ambienti, enormi, erano stracolmi di balle e di cumuli di stracci di diverso colore e qualità ed altri sette operai (femmine e maschi) già esperti e di età superiori ai miei ventidue anni si dannavano con mani e forbici giganti a strappare, tagliare e distribuire con grande oculatezza le diverse parti facendole volare in una caleidoscopica danza di colori e forme nei vari mucchi tutti intorno a loro; e quando i raggi del sole penetravano dai larghi finestroni potevi vedere la polvere sollevarsi e creare un’atmosfera magica e quasi irreale. “
Piccerè era arrivata a Prato da qualche anno. Veniva da un paese di mezza montagna nel cuore della Sicilia. “Ero stanca di lavorare con le unghie la terra arida. Ne avevo sollevate di angurie, anche enormi e pesanti, a volte più grosse di un bambino, più grosse di me, sotto l’occhio severo di mio padre.”
Un padre imperioso, un padre padrone nella migliore (o peggiore?) tradizione mediterranea che aveva per anni impedito alle sue figlie di frequentare la Chiesa, preoccupato soprattutto dall’uso del sacramento della Confessione: “Non voglio” diceva “che il prete sappia i fatti della nostra famiglia”. Poi, quando erano diventate grandi, a 18 e più anni essendo già da marito ma avendole bene istruite le aveva lasciate andare più liberamente in Chiesa. Piccerè insieme e sotto scorta delle sue sorelle andava a Messa la domenica come al solito a turno, per poter utilizzare le uniche tre paia di scarpe buone femminili che la famiglia possedeva e che utilizzava solo nel giorno di festa.
Alla prima Messa ci andavano le due sorelle maggiori già scaltrite dai consigli paterni (anche se si confessavano non parlavano mai dei fatti “segreti” della famiglia); verso le dieci Piccerè andava con la mamma, indossando un paio di scarpe della sorella mezzana, Concetta, i cui piedi erano poco più grandi (con i suoi, Piccerè ci ballava dentro ed era molto buffa mentre camminava ed a volte ci inciampava).
Non aveva preso la Comunione, a dodici anni e quindi non avrebbe avuto alcuna necessità di confessarsi. Di lei sia per l’età che per un certo caratterino un po’ ribelle il padre Gesualdo non si fidava. Ma Piccerè aveva un cruccio; si sentiva inferiore e diversa rispetto alle altre ragazzine del suo paese che invece già da un paio di anni avevano frequentato la catechesi preparatoria ed avevano festeggiato il giorno della loro prima Comunione. Poi si era fatta grande e a sedici anni, un giorno in occasione della preparazione alla Pasqua con la consueta benedizione delle case era riuscita a parlarne con il parroco don Salvatore. Il padre con i fratelli e la sorella maggiore Nunziatina erano andati a trovare il nonno Sebastiano in ospedale. Al parroco aveva espresso il desiderio di prendere la Comunione e lui come avrebbe potuto negargliela? Vista l’età della ragazza e considerandone a suo vantaggio l’indubbia espressa volontà come se fosse una vera e propria confessione l’aveva benedetta ed ipso facto l’aveva comunicata. La domenica successiva la madre che l’accompagnava a Messa ebbe la sorpresa. Al marito e padre di Piccerè non disse mai nulla, tanto lui la Chiesa non la frequentava mai e i fratelli la guardavano solo da fuori, aspettando di incrociare gli occhi belli delle ganze che ne uscivano.

…continua…

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FESTIVAL DELLE IDEE POLITICHE – la mia presenza a Pozzuoli

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Sono ritornato sulle rive del Bisenzio. L’esperienza puteolana è stata esaltante: lo è stata soprattutto perché è nel mio ordine logico delle mie idee libere quella di voler acquisire accumulando esperienza ad esperienze ed impastando il tutto in nuove forme, in un primo momento abbastanza sotto forma di abbozzo e pian piano poi attraverso provvisorie strutture sgrammaticate poter poi pervenire a forme che si distinguano sia per originalità che per diversità. Sono anni che osservo, rubo e costruisco idee: sono un costruttore di eventi artigianale ma seriamente impegnato a farli riuscire graditi al pubblico che è molto spesso fatto di amici, non solo quelli gentili e fedeli, ma pure quelli critici ma utili: quegli altri, quelli acidi, che peraltro sono molto pochi, non li prendo neanche in considerazione.
L’esperienza puteolana è stata molto positiva; sin dalle prime battute nei locali del “Gozzetto” dove Angela ed io abbiamo incontrato Luigi Russi, cuneese emigrato in India, sociologo ed esperto di “Politica economica” relativa ai temi dell’alimentazione. Intromettendomi nelle pieghe del Festival delle Idee Politiche, splendidamente organizzato da Città Meridiana (Iaia De Marco, Giovanna Buonanno, Stefania Tarantino, Oscar Poerio e tante altre persone), ho avviato la mia riflessione confermando l’impegno alla cooperazione de “Il diario del viaggiatore” ma anche con una domanda abbastanza anomala e solipsistica “Ma perché hanno invitato proprio me, che notoriamente non capisco un piffero di problematiche finanziarie ed economiche, a discutere sulla “finanziarizzazione del cibo”? e poi sempre fra me e me ma a voce alta (lo si sa, gli anziani a volte cominciano ad interloquire con i loro “fantasmi” – oggi non fa tanto effetto: quante persone giovani vediamo in ogni angolo parlare, agitarsi, urlare e mettere in piazza i loro fatti privati!): “ E perché mai ho accettato?”. Qualcuno dice che vi sia stato un moto di sorpresa in questo mio esordio in qualcuno degli astanti: comprensibile, indubbiamente; ma per me legittime domande anche se puramente retoriche. Alla prima domanda mi sono risposto facendo emergere la mia vanagloria: hanno avuto grande fiducia nelle mie “risorse” da “politico vecchio – soprattutto per età – ed incallito” e pronto ad affrontare con sapienza acquisita “ad hoc” e di buon accatto qualsiasi “emergenza”. Questa era la risposta più difficile. Quella più facile era la seconda che rivelava una profonda verità: non so dire di no e mi piace affrontare quelle che ritengo siano le problematiche più difficili. Ho il carattere eterno dello “studente permanentemente in servizio” ed ho ragioni da vendere. La lettura de “In pasto al capitale” del giovane e promettente Luigi Russi mi ha arricchito profondamente e mi ha già sospinto ad andare oltre negli approfondimenti. Ho letto – e riletto proprio per essere ben sicuro di averlo capito – il libro con l’attenzione che meritava e l’ho commentato su questo Blog in quattro distinti post: l’aver affermato che si trattasse di un libro difficile per la mia complessione di “utente rintronato” era semplicemente una “provocazione”. Almeno che qualcuno non intendesse pensare che quei “post” ancorché modesti ed errati non appartenessero alla mia “penna”!
La serata al “Gozzetto” è stata splendida grazie soprattutto a Luigi ed Angela, alla presenza di tante amiche ed amici (partecipazione “straordinaria” di Franco Fumo, assessore alla Cultura di Pozzuoli, e di Nunzia Nigro, che voglio ringraziare a nome di tutti). Lo stesso aperitivo offerto ai presenti è stato graditissimo. Una nota dolente è stata la non disponibilità del libro di Luigi Russi che l’editore Castelvecchi non è riuscito ad inviare al Festival. Alla quale Nota voglio aggiungere un suggerimento agli organizzatori: il prossimo anno allestite un bookshop con i titoli afferenti agli autori che invitate!
Nelle prossime ore accennerò alle giornate del 24, del 25 e del 26 aprile.

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IN PASTO AL CAPITALE di Luigi Russi presentano il libro Angela Schiavone e Giuseppe Maddaluno FESTIVAL DELLE IDEE POLITICHE Pozzuoli – Bar “Il Gozzetto” Largo San Paolo 23 aprile 2015 ore 17.00

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IN PASTO AL CAPITALE di Luigi Russi
presentano il libro Angela Schiavone e Giuseppe Maddaluno
FESTIVAL DELLE IDEE POLITICHE
Pozzuoli – Bar “Il Gozzetto” Largo San Paolo
23 aprile 2015 ore 17.00

Il sesto capitolo affronta “Il caso del caffè” seguendo le tre fasi chiamate “regimi”, il primo dei quali parte dalla seconda metà dell’Ottocento subito dopo la conquista dell’indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo da parte dei Paesi dell’America latina. A parte il resto parlando di “caffè” si tratta di una classica monocoltura poco adatta ai “consumi” necessari alla sopravvivenza ed il monopolio attuato ha finito con il non modificare in basso il prezzo dei semi. Il “secondo regime” si colloca poi alla fine della Seconda Guerra mondiale, mentre il “terzo” è quello che arriva fino ai giorni nostri con la liberalizzazione del mercato ed il conseguente calo vertiginoso del prezzo, che ha reso critica la situazione dei produttori. Molto interessante è peraltro il paragrafo dedicato alle nuove tendenze nel mercato del caffè, soprattutto quando si accenna al “commercio equo e solidale” che tende ad aiutare i produttori a mantenere un prezzo congruo alle loro giuste attese, rispettando allo stesso tempo la sostenibilità ambientale e difendendo la biodiversità. In “Il furto di terre” Luigi Russi analizza la tendenza da parte di investitori stranieri (cioè estranei ai territori oggetto di furto) ad utilizzare soprattutto per monocolture la maggior parte delle terre rese incolte dall’abbandono o volontariamente abbandonate da parte dei contadini che non riescono più a governarle a causa dei magrissimi ricavi. Questo atto provoca danni irreparabili alle economie locali arricchendo a dismisura gli investitori molto spesso protetti da anonimati riconducibili a multinazionali. Viene portato l’esempio della jatropha, una pianta che viene utilizzata per la produzione di biocarburanti; è del tutto evidente che anche questa “pianta” non possa essere utilizzata per il consumo essenziale alla sopravvivenza degli individui che intorno a quel terreno agiscono. Ed è chiaro che grandi spazi di terreno vengono sottratti alle produzioni alimentari, senza che vi siano al contempo i guadagni promessi. Nella parte finale cui oggi non accennerò si prospetta il futuro, partendo già dalle buone pratiche che si vanno svolgendo in molte realtà. Anche nei Campi Flegrei. E questa è una buona notizia.

Il libro è dotato di un apparato di NOTE straordinario e di un’invidiabile Bibliografia

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IN PASTO AL CAPITALE di Luigi Russi presentano il libro Angela Schiavone e Giuseppe Maddaluno FESTIVAL DELLE IDEE POLITICHE POZZUOLI – Bar “Il Gozzetto” Largo San Paolo giovedì 23 aprile 2015 ore 17.00

IN PASTO AL CAPITALE di Luigi Russi
presentano il libro Angela Schiavone e Giuseppe Maddaluno
FESTIVAL DELLE IDEE POLITICHE
POZZUOLI – Bar “Il Gozzetto” Largo San Paolo
giovedì 23 aprile 2015 ore 17.00

Nel quarto capitolo Luigi Russi si occupa de “La speculazione sulle materie prime” seguendo il percorso perverso della speculazione in uno dei settori per “natura” “vitale”: questa vitalità è presentata già nel primo capitolo.

“…Le dinamiche che affliggono i mercati delle materie prime agricole dagli anni Duemila in poi mostrano un elevato livello di autoreferenzialità… che è una delle caratteristiche principali del sistema finanziario globale contemporaneo. Le oscillazioni dei prezzi si autoalimentano, indipendentemente dallo stato dei fondamenti economici. Di conseguenza, il cibo diventa solo un’altra attività intrappolata in una rete in cui tutto è investimento e opportunità di ricavare profitto finanziario. Quando queste dinamiche si riversano nel mondo delle variabili economiche «reali», tuttavia, gli effetti sono spesso fortemente destabilizzanti…. Più in generale, la volatilità del mercato delle materie prime agricole ha inviato – di giorno in giorno – segnali sistematicamente sbagliati ai produttori, causando talora la semina di raccolti eccessivi che restano invenduti, talaltra una sotto-coltivazione…. Questa comunque non è la fine della storia. La finanza non solo imbriglia il «cibo» in una rete di attività finanziarie tendenzialmente fungibili a fini di investimento, come esemplificato dalla speculazione diretta sui mercati finanziari. Al contrario, la logica del calcolo finanziario si fa sempre più strada nelle stanze dei bottoni delle multinazionali, diventando una delle leve che si celano dietro l’odierna riconfigurazione della produzione di «alimenti» (se tali possono ancora chiamarsi i frutti delle lavorazioni industriali).”
Nel quinto capitolo, “La riprogettazione del cibo in chiave finanziaria si parte dalla fase della “co-produzione”, che qualcuno potrebbe interpretare come “archeologica e bucolica” anche se in essa vi permane un elemento imprenditoriale di tipo familiare o interfamiliare. Infatti si accenna ad un’interazione continua e…trasformazione reciproca” prevedendo una fase di resistenza ed autonomia o di resilienza del mondo contadino. Luigi Russi analizza il profondo cambiamento intervenuto negli ultimi trenta anni nel “lavoro” contadino che ha decretato la fine di quella particolare figura a noi amica negli anni dell’infanzia (le uova, la frutta di stagione, i polli, il coniglio, etc etc etc). Si passa poi a porre in evidenza ad alcune cause di questo allontanamento, come i Regolamenti CE con norme e prescrizioni così precise da non poter essere tollerate dai limitati guadagni delle famiglie che avessero deciso di rimanere in campagna; così come la necessità di far fronte alle esigenze tecnologiche. In questi ambiti ovviamente le forti multinazionali sono riuscite ad inserirsi portando via la “terra” sia per mantenerla in abbandono sia per poterla coltivare attraverso monocolture. Così come vi si inserisce la “grande distribuzione” anche quella che ha statutariamente (ma, lo si sa, troppe volte gli Statuti sono atti di vera e propria ipocrisia) obiettivi cooperativistici.

…continua….

PASQUALE LEONARDO ED IL P(v)D – PRATO – il dialogo continua

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PASQUALE LEONARDO ED IL P(v)D

Leonardo (Pasquale Leonardo, medico ortopedico in Villa Fiorita, Prato), entrato agli “onori” della cronaca per essere stato estromesso da parte della Direzione Regionale dal listino dei candidati PD di Prato per il Consiglio Regionale – dopo aver rispettato per filo e per segno tutte le regole per poter partecipare ed essere stato anche sostenuto dal Segretario Provinciale Bosi – ha risposto con garbo e cortesia alle mie riflessioni, precisando di non aver “strappato nessuna tessera” ma che non si riconosce più “in questo partito perché è il partito che si è allontanato” da lui.
Avevo pensato mentre scrivevo il mio post che Leonardo fosse “anima candida” e le sue riflessioni me lo confermano; ancor di più questo accade quando riferendosi a Renzi (chissà perché lo scrive in minuscolo! Sarà un refuso o una piena volontà espressa?) dice che “se ogni tanto si riascoltasse non si riconoscerebbe più”.

Vedi, caro amico, meglio tardi che mai: alcuni di noi che hanno costruito questo Partito e che lo amano “davvero” lo avevano capito sin dal primo momento. Qualcuno ci ha voluto giocare con Renzi, ne ha cavalcato l’onda positiva (almeno così credevano loro!), ci si è imbarcato ed ora versa lacrime da coccodrillo. Il fatto che tu, caro amico, non abbia strappato la tessera ti solleva dal peccato veniale ma il vero errore è quell’altro: costruire un Partito che tu – e pochi amici – chiami “veramente Democratico”. Non si gioca con la Democrazia; cosa pensi di mettere in piedi? Un Partito in cui la Democrazia tu e i pochi la costruisci al tuo interno? Sarebbe un Partito oligarchico ed assolutamente poco più che personalistico, ad andar bene. Soddisfacerebbe le tue piccole ambizioni ma raggiungerebbe uno 0,01 per cento di consensi ed alla fine dovresti ritirarti con la coda tra le gambe, più arrabbiato di prima.
Mi inviti a consultare il tuo Programma. Lo farò ma non è questo il punto: di certo vi si troveranno proposte interessanti e condivisibili ma purtroppo rimarrebbe inevitabilmente “fuffa” per questo “apparato di Poteri” che ci governa.
E, allora, come dicevo nel post, rimane forte l’alternativa della CULTURA, la cui forza supera le barriere del tempo calpestando le bassezze e le minuterie di questi bambocci:
“diamo più fastidio fuori che dentro, perché questo PD, che non è quello che ho contribuito a fondare perché fosse strumento di vero rinnovamento, ha a noia quelli che pensano liberamente e non stanno zitti, anzi urlano civilmente il loro dissenso.”
Riporto il testo della garbata e signorile risposta di Pasquale Leonardo al mio post del 19 aprile e dichiaro la mia dipsonibilità ad un confronto privato con lui su questi temi.

Gentilissimo , apprezzo molto lo spirito di quest’articolo . Sono doverose alcune precisazioni da parte mia . Non ho strappato nessuna tessera ho solo detto che in effetti non mi riconosco in questo partito perché è il partito che si è allontanato da me . del resto penso che anche il sig renzi se ogni tanto si riascoltasse non si riconoscerebbe più ( E’ forse diventato il meno renziano di tutti ) Riguardo la seconda parte posso dire che non si tratta assolutamente di una decisione presa a caldo I miei collaboratori sanno quante volte ho parlato del Pvd anche a volte nelle mie discussioni amichevoli . Avevo solo un dubbio quello di testare i confini della democrazia di questo partito e purtroppo temo di averli varcati molto presto . Il modo con cui sono stato soppresso politicamente ricorda tanto i metodi soppressivi tipi di un partito etico non di un partito democratico . Ho detto anche che le oltre 200 firme di tesserati raccolte con la gioia e l’entusiasmo di chi è amato ed ama la propria città , seppur così poco importanti per un partito che si dice democratico , sono scritte in modo indelebile nel mio cuore . Pertanto non vedo nulla di strano che sognare un partito veramente democratico . Lo faccio con la serenità di chi ha un lavoro non vive di politica e può definirsi intellettualmente libero . Ho un grande sogno quello di veder realizzato il mio progetto per Prato città che mi ha dato tantissimo e che amo tantissimo . Sul mio fb è pubblicato il mio programma vedrà che alla fine forse sono un lontano parente di quel da Vinci che Lei conosce. Grazie e A presto

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AL MIO PAESE. SETTE VIZI UNA SOLA ITALIA

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AL MIO PAESE. SETTE VIZI UNA SOLA ITALIA

Al “Mezzo/giorno” è dedicato il racconto di VANNI TRUPPI, uno studioso del meridionalismo, che si ispira al personaggio positivo di NICOLA ZITARA con il suo grido “INDIGNATI!!!”
e quello successivo di GIANMARIA ROBERTI dal titolo significativo nell’uso dello slash divisorio “IN/CAPACI” nel quale viene narrata la strage di Capaci ed il suo esecutore, anima nera negativa, Giovanni Brusca.

Per trattare dell’INVIDIA Melania ci parla poi di Lucrezia Borgia e CARLO TARALLO si inoltra nella narrazione di vicende che coinvolgono uno sconosciuto pittore amatoriale dei nostri giorni, la GIOCONDA di Leonardo e BEATRICE d’ESTE d’ARAGONA con tanto di simbologie esoteriche a supporto.
“IO, CHE SONO SOLE” intende poi rappresentare la SUPERBIA che caratterizza cinismo ed ipocrisia del nostro vivere quotidiano in quel coacervo di diversa umanità alla deriva che si raccoglie in una delle più grandi stazioni ferroviarie, quella di ROMA TERMINI.
E GIUSEPPE CRIMALDI scrive “ALFA ET OMEGA” una rappresentazione apocalittica del nostro mondo attraverso la scansione dei versi del “DIES IRAE”. Un vero e proprio concerto della parola. E’ la fine della fine dei tempi, il giudizio universale ad annunciarsi! Non c’è più tempo!

Non c’è finale in questa storia. Perché non c’è fine alla fine dell’ira e dell’odio. Rimangono solo le pagine ancora da scrivere, e non saremo
noi -sopravvissuti a questa umana apocalisse già prevista- a segnarle.
Costa doverlo ammettere.
Ma l’ira ci ha vinti, e l’odio distrutti. Era tardi ieri, è troppo tardi adesso per descrivere un ultimo quadro. Fa male doverlo ammettere. Ma,
forse, questa, è solo pura e semplicissima follia.

Gli anni Settanta sono i protagonisti del brano che la Petriello dedica al tema dell’ACCIDIA. E si passa dal nazional-popolare di un Festival di San Remo alla conclusione affrettata del processo relativo al delitto PASOLINI:
FAUSTA SPERANZA, forte anche della sua esperienza a Radio Vaticana, scrivendo “LA CAMICIA RIPIEGATA” tratta poi dei fondamentalismi, non solo quello islamico e quello giudaico ma anche quello cristiano.

Alla pratica clandestina dell’aborto è poi dedicato il brano che la Petriello collega al vizio della GOLA, all’INGORDIGIA ed al CINISMO, “FUORI, CHE DENTRO E’ PEGGIO” e TIZIANA DE SIMONE descrive una seduta del Consiglio Europeo abbinandola al sofisticato menu previsto in quella giornata.
Ed è poi il turno della LUSSURIA con una bella lucida riflessione sui “LUSSURIOSI SENZA LUSSURIA” e la confessione delle vicende di Virginia Oldoini, nota come CONTESSA di CASTIGLIONE, che LUCIANO GHELFI ricostruisce nel suo “A LETTO CON L’ITALIA” e così sempre sul tema della LUSSURIA si dedica CARLO PUCA con “RE/PUBBLICHE”.

E si arriva alla conclusione del libro con “L’OTTAVO” “DAL VIZIO PERDUTO AL VIZIO RITROVATO” dalla TRISTEZZA alla IMPUNITA’

…CONTINUA…

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IN PASTO AL CAPITALE – POZZUOLI giovedì 23 aprile ore 17.00 Bar Il Gozzetto Largo San Paolo (di fronte Capitaneria del Porto) – insieme all’autore Angela Schiavone e Giuseppe Maddaluno

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IN PASTO AL CAPITALE – giovedì 23 aprile ore 17.00 Bar Il Gozzetto Largo San Paolo (di fronte Capitaneria del Porto) – insieme all’autore Angela Schiavone e Giuseppe Maddaluno

“In pasto al capitale – Le mani della finanza sul cibo” di Luigi Russi è una traduzione dall’inglese di Ilaria Mardocco. Il testo originale è “Hungry Capital: “The Financialization of Food” apparso nel 2013 per i tipi di ZerO Books in Inghilterra e di ThreeRiver Publishing in India. Nella “Premessa e ringraziamenti” che segue la Prefazione di Andrea Baranes e precede la vera e propria Introduzione Luigi Russi coglie l’occasione per analizzare la genesi di questa ricerca riandando alla Fondazione “Nuto Revelli” ed al “Festival del ritorno ai luoghi abbandonati” alla quale, dice Luigi Russi, “devo la nascita del mio interesse per l’economia contadina”. E’ infatti da quella che prende le mosse l’analisi del saggio; si parte dal “capitalismo” come “sistema”, da un’analisi dello stesso termine “capitale” come “sineddoche, figura retorica per cui una parte viene utilizzata per indicare il tutto.” Luigi Russi si addentra nei meandri del capitalismo e della finanza ed in particolare analizza “il filo del rapporto tra capitale e cibo” fino al processo di finanziarizzazione che consiste nell’intervento da parte doi interessi economico-finanziari multinazionali su quel tessuto diversificato di forme di relazionalità dal basso allo scopo di assoggettarlo, dirigerlo, governarlo, prtarlo a reddito a vantaggio di poche difficilmente identificabili realtà. L’autore accosta il sistema finanziario al Leviatano di Hobbes, simbolo dello stato accentratore unidirezionale ed irreversibile. La figura del Leviatano è l’unica immagine che accompagna lo scritto ed il riferimento ad essa è frequente. Andando avanti Russi tratta dei “regimi alimentari”: il primo di essi va dalla fine del XIX secolo alla Grande Guerra e contiene “una tendenza a ristrutturare la co-produzione contadina” con “l’introduzione di tecniche industriali contribuisce a riorganizzare l’agricoltura….al fine di produrre i generi alimentari di base per i lavoratori…”; il secondo, che scollina la seconda guerra mondiale, porterà ad “un’industrializzazione onnicomprensiva dell’agricoltura, allo scopo di massimizzare la produzione di cibo”, utilizzando “un misto di input industriali, varietà ibride di semi, monocolture e irrigazione”. Il terzo regime arriva fino a noi e si caratterizza per “il peso crescente del capitale finanziario”; “lo sviluppo delle multinazionali”; quello “delle biotecnologie” e la “crescente diversificazione nella scelta del consumatore, ottenuta dalla grande distribuzione….”.
Mentre leggevo le pagine di Russi, mi fermavo e riflettevo, ricordando anche la mia infanzia nell’isola di Procida e la vita contadina degli anni Cinquanta con quei rapporti sereni, forse un po’ idealizzati dalla lontananza e dalla freschezza degli anni. Nel libro quell’epoca è lontana, ormai apparentemente irraggiungibile: è un tempo nel quale l’economia contadina era quella di base…ed allora mi sono ritornate in mente le parole di un grande, forse il più grande dei “poeti” del Novecento: Pier Paolo Pasolini.

Pasolini

“Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori — che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire — ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, che tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi.
La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l’adolescenza — malgrado qualche eccezione ch’era una meravigliosa colpa — ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.
Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza.
Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l’onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa — e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione — è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere — sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre — non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.”