ORFANI – orfani sì – siamo orfani! ma battaglieri

ORFANI – orfani sì – siamo orfani! ma battaglieri

636724500

Orfani. Orfani, sì. Siamo orfani, il giorno della Festa dei lavoratori ci sentiamo orfani. Sbandati. Sbandati, sì. Senza bussola, proprio oggi che è il 1° Maggio. Maledetto colui e maledetti coloro che festeggiano il nostro lutto ed il nostro disorientamento e che la maledizione ricada su loro e sui loro eredi. Non varrà il loro pentimento quando riusciranno tardivamente a comprendere gli errori, anche perché porteranno su di loro la responsabilità degli errori da noi denunciati e da loro sottovalutati addirittura per personali spesso meschine convenienze, l’alternativa alle quali si chiama idiozia e dabbenaggine. Orfani noi, dunque! Di una guida e di compagni che non abbiano obiettivi personali, che non si lascino abbagliare dal “posto al sole” provvisoriamente conquistato e, per mantenere il quale, siano disponibili a compromessi di bassa lega ammantati da retoriche coerenze; orfani anche di un progetto “alternativo” che non tema di scontrarsi in questi momenti difficili con il “neocentrismo” vincente semplicemente orientato al mantenimento delle differenze sociali che rendono le persone sempre più “schiave” della necessità, pronte a piegare la testa pur di ottenere una “briciola” per saziarsi. Non ci piacciono i silenzi ed i tatticismi che non esplichino strategie comprensibili; occorre forza, coraggio, chiarezza. Consideriamo insostenibile questa situazione, dalle forme kafkiane. Vogliamo anche ricordare che quello che rompe deve pagare, e può tenere l’oggetto per sè. I vecchi proprietari ne costruiranno uno nuovo. Ecco, volevo ricordare la storia di Dicearchia. “Nel 531 a.C. approdarono presso le coste della Campania (Campi Flegrei) alcuni profughi di Samo, sfuggiti alla tirannide di Policrate (“tiranno” non aveva un’accezione soltanto negativa, anche se egli tendeva, per ottenere i risultati che si era prefisso, di annullare i livelli minimi di democrazia), e fondarono, con il consenso di Cuma, la città di Dicearchia, cioè del giusto governo.” E, quindi, non è un “caso” che, di fronte alla deriva demagogica e populista, autoritaria ed antidemocratica, qualcuno abbia voluto richiamarsi a quella vicenda.
Quando ci si richiama al nostro “abbandono” non ci si allunga verso la “rassegnazione”; ci fanno “senso” coloro che ancora si sperticano a tessere lodi per l’Infante, sordi ed increduli alle “panzane” quotidiane innumerevoli e progressivamente ingombranti come macerie. Vogliamo essere signorili nel dire che ci fanno “senso”; in effetti la nostra sensazione è di disgusto, di vomitevole disgusto. E per oggi forse basta. Domani ci aspettano altri spettacoli inverecondi. E noi ci prepariamo.

PICT0194

” PICCERE’ ” – PARTE 2 E PARTE 3 –

Parte 2

Il paese era piccolo e tutti conoscevano tutti; Piccerè era piccolina di statura così come il nomignolo con cui la chiamavano, anche quando aveva raggiunto l’età di 16 anni ed era ormai guardata dai giovani – quei pochi rozzi e brutti che circolavano ancora, anche perché negli anni sessanta la strada più facile per tanti era stata quella del “continente”, Torino, Milano, la Germania – non era interessata a loro. Anche se come tutti gli altri della famiglia non aveva frequentato nemmeno un giorno di scuola Picceré era vivacissima per la furbizia e non si lasciava lusingare dalle sollecitazioni delle altre sorelle più grandi che, essendo già sposate, la spingevano a scegliere la sua strada presentandole di tanto in tanto qualche “rozzo” pretendente. Un’estate, era il 1963, era tornata per un grave lutto nella famiglia del marito una sua cugina, Adelaide, che viveva a Prato. Adelaide era una bella giovane donna, più elegante che bella ma davvero faceva la sua figura in mezzo a quelle contadine ed a quei buzzurri. Vennero con una bella auto portando con loro i due figli che non avevano nemmeno conosciuto il nonno, che era morto in quei giorni. Adelaide parlava di quella città, Prato, decantandone l’operosità ed anche la facilità di trovare lavoro, diceva “meglio che a Torino o a Milano o in Francia, in Belgio e Germania”. “Certo, la “ggente ce chiamme marrocchine ma se lavori t’apprezza anche perché so’ ggeluse del modo con cui stammo assieme ridendo e facendo un po’ casino; lloro so’ fridde, ma a nnuje che ce n’ mporta”. Piccerè beveva a gorgoglioni tutto quello che la cugina raccontava e già sognava la sua libertà.
Ce ne volle d’impegno da parte di Adelaide e Stefano, suo marito, per convincere Gesualdo a farla partire per Prato a fine agosto. Ma il padre stimava moltissimo quel suo nipote acquisito e conosceva sin dalla nascita anche Adelaide, donna pia e coraggiosa; e poi a Prato aveva anche un altro fratello più grande di lui che aveva fatto il meccanico e quindi per Picceré ci sarebbe stata possibilità di controllo da parte della famiglia e se voleva lui stesso poteva salire a riprendersela, anche se si stava facendo vecchio e gli acciacchi lo bloccavano nelle ossa. Le sorelle erano gelose di questa avventura; sotto sotto appunto la invidiavano ma la loro vita era stata segnata; la prima, Filomena, aveva già una bambina di cinque mesi, la seconda. Concetta, era in attesa da sette mesi ed ogni tanto minacciava di sgravare anzitempo, non avendo mai smesso di lavorare nei campi.
Con la valigia di cartone chiusa tutta intorno con lo spago sistemata sul portapacchi Piccerè salì sulla Fiat 1500 celeste sedendosi come una signora dietro con i due diavoletti; e qualche lacrimuccia la versò dopo aver abbracciato la mamma e il padre e salutato sorelle e fratelli.
A Prato, lo aveva promesso, avrebbe fatto la brava e si sarebbe subito cercato un lavoro; Adelaide aveva detto a tutti che sarebbe stata ospite da loro fin quanto avesse voluto e semmai – nel pensiero di Adelaide questa idea le balenava – avrebbe potuto accudire alle due “pesti” di casa. In più le aveva anche fatto capire che a due passi da casa loro, una delle sue cugine aveva da poco aperto un bar e forse avrebbe già lì trovato lavoro.

3
Il viaggio fu lungo; i bambini erano davvero monelli e Adelaide dovette rimproverarli più e più volte. Era la prima volta ed erano tante le prime volte una dietro l’ altre per Picceré, che non solo non aveva mai visto il mare ma dovette anche imbarcarsi entrando nella pancia di un palazzo enorme tutto fatto di ferro che portava tante automobili dall’altra parte del mare verso quello che chiamavano “il continente” e poi una volta usciti fuori da quel buco l’auto continuò a percorrere strade piccole e grandi e lei guardava dal finestrino, e gli occhi saettavano su tutto e bevevano le novità che le andavano incontro. Si fermarono in un posto con aiuole verdi e fiorite verso il primo pomeriggio e Adelaide da un cesto che aveva nel portabagagli aveva tirato fuori una mezza forma di caciocavallo ed un mezzo prosciutto e con due pagnotte aveva cominciato, seduta in un angolo ed appoggiato il tutto su una ampia tovaglia, ad affettare formaggio, prosciutto e pane ed aveva distribuito la merenda al marito, alle “pesti” ed a Piccerè, che andava trasformando l’entusiasmo in tristezza. Poi ai ragazzi ed alla giovane aveva dato una bottiglia di acqua perché la bevessero a canna ed a Stefano – ed un po’ anche per sé – una fiaschetta di vino rubizzo delle loro fertili campagne siciliane. Arrivarono a Prato che era buio; i ragazzi si erano stancati di saltellare e provocarsi a vicenda e si erano addormentati. Piccerè saettava con gli occhi da ogni parte anche se non capiva quasi niente, tanti erano i paesaggi che scorrevano; e sul far della sera poi tutto era indistinto difficile e la ragazza era davvero confusa, ancora più triste: forse era il buio della notte che incombeva. Adelaide lo capì e quando si fermarono che erano sotto casa chiese al marito di provvedere lui ai ragazzi e a scaricare la macchina e presa sottobraccio la giovane la volle accompagnare amorevolmente in casa mostrandole la sua cameretta. Era troppo stanca e lasciatala lì a mettere a posto le sue poche cose ché dopo qualche minuto sarebbe poi salita a prenderla per una cena frettolosa giusto per non andare a dormire digiuni, Adelaide la ritrovò che già dormiva alla grande, le spense la luce, le rimboccò le lenzuola e le diede un bacio sulla fronte.

“No, per il momento no! Abbiamo già trovato” La cugina di Adelaide, quella che aveva aperto il bar in via Bologna a pochi passi da casa, purtroppo da qualche giorno aveva assunto una ragazza di Barberino che era passata a cercar lavoro. “Però” – dopo aver dato uno sguardo a Piccerè, disse – “c’è l’ingegnere Puccini che proprio stamattina, facendo come al solito colazione, mi ha chiesto se conoscevo qualche brava ragazza da mandargli a servizio. Se vuoi” aggiunse ad Adelaide” domattina quando ritorna ti mando a chiamare”.
Andò così che due giorni dopo di prima mattina Adelaide accompagnò Piccerè in casa Puccini (erano fra l’altro imparentati, per un ramo lontano però, con il maestro di Torre del Lago) in Santa Trinita. La vecchia governante di famiglia – Eugenio Puccini era un famoso ingegnere tessile – non era più in grado di seguire le loro varie vicissitudini e si era ritirata, sostenuta da una buona pensione, da dei nipoti che ne avevano bisogno per i loro figli piccoli. La moglie dell’ingegnere per gli studi svolti avrebbe potuto insegnare ma aveva preferito fare la “signora” e si impegnava “a tempo pieno” soprattutto in una delle società cristiane caritatevoli. Caritatevole senz’altro fuori casa, abbastanza despota e piena di superbia in casa.

…continua…