ALTRI TEMPI (?) 2

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Eh sì, ti dicono “sono tutti uguali” e ti ci incazzi perché alla fine dei conti hai vissuto tante belle stagioni e tante avventure politiche entusiasmanti senza mai chiedere e, quando ti è andata bene, hai recuperato una parte delle spese (ho imparato che “il tempo è denaro” quando ho incontrato la Politica attiva, quella per la quale “se do qualcosa devo ricevere altro in cambio; e l’ho imparato tra il centro ed il Nord dell’Italia e forse non è un caso!”). Ma non bisogna chiedere, bisogna dare anche se chi è abituato a questo meccanismo del “do ut des” non lo potrà mai capire, cosicché a Prato un tipo di ringraziamento è quell’ “a buon rendere!” che è tutto dire, no?

ALTRI TEMPI (?)

….Giuliano ne aveva fatte di campagne elettorali su e giù per le montagne bellunesi e conosceva molto bene quei meccanismi ma non gli sarebbero tornati utili: ognuno, in quel 1995, era praticamente da solo, non esistevano più accordi possibili tra candidati per lo stesso incarico: tutt’al più le cordate potevano avere un consigliere comunale, un consigliere circoscrizionale e un consigliere provinciale. Lui lo sapeva, ma non tutti sembravano averlo compreso anche per ignoranza.

“La Commissione di Garanzia vuole incontrarti” a telefono la Gisella, impiegata al Partito, chiamò Giuliano.
“Vieni nel pomeriggio”
“Di che si tratta?”
“Non mi hanno detto altro. Vogliono, evidentemente te, vogliono vederti”
“Va bene, alle 17.00 va bene, allora?
“Ok alle 17.00”.
Giuliano arrivò al Partito intorno alle 16.30 e ci trovò altri candidati convocati, ma nessuno di loro conosceva il motivo per il quale erano stati lì chiamati.
Quando fu il suo turno e si trovò di fronte ai “saggi garanti” lo scoprì: “Abbiamo ricevuto alcune segnalazioni, ovviamente dobbiamo mantenere l’anonimato, su alcune tue scorrettezze”
Lo sguardo di Giuliano mostrò sorpresa: in fondo non capiva di che cosa si potesse trattare e la domanda non fu necessaria. “Ti stai muovendo in modo autonomo al di fuori delle regole del Partito: scrivi lettere personali, distribuisci bigliettini che invitano a votare per te, qualcuno a cui hai telefonato ci ha mostrato una grande sorpresa perché non sei tra i designati del suo territorio” e poi minacciarono sanzioni, anche gravi: era nelle loro mani.
Giuliano però poteva essere considerato uno sprovveduto da parte di quei “vecchi saggi” ma non lo era affatto: aveva ben studiato le nuove regole e conosceva quelle precedenti e, punto per punto, confermando tutti gli addebiti, smontò le accuse e pur con rispetto, sottolineò: “Evidentemente non conoscete la nuova legge elettorale”………

continua…….

UNO DEI DIBATTITI DI QUESTI GIORNI, a partire da un mio post Facebook

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UNO DEI DIBATTITI DI QUESTI GIORNI, a partire da un mio post Facebook

La discussione – la “querelle” sul doppio incarico di Renzi è una vera e propria mistificazione della quale è principalmente responsabile la minoranza del PD! E’ una delle tecniche di distrazione di massa che sposta la discussione sui problemi “caratteriali” di Renzi. Al quale peraltro si chiede di avere ciò che non possiede: l’UMILTA’! Da quando è venuto al mondo è evidentemente pieno di sè, arrogante, presuntuoso, ambizioso oltre misura ed al di là di quelli che dovrebbero essere gli interessi comuni del popolo italiano. Può anche essere vero che, attualmente, non vi sia ancora una vera e propria alternativa, ma l’Italia non può aspettare molto se vuole ritrovare, dopo ventanni e più di crisi istituzionale contrassegnata prima dalla figura di Berlusconi ed ora da un suo imitatore, la strada della dignità.

Prova ad aver chiaro i tuoi obbiettivi e fai di tutto per raggiungerli. ( puoi chiamarla “determinazione” o “arroganza”). Prova a pensare agli interessi degli ITALIANI,individua quali sono e le soluzioni .Se hai coesione le trovi e le metti in atto con efficacia immediata, se devi trovare il cerchio con tanti, spesso carenti di idee e di equilibrio rischi di aspettare altri 20/30 anni. ( questo si chiama “renzismo ” antitesi del “berlusconismo”). Ci sono altri punti dove si creano divisioni obsolete, uno è quello dell’appellativo alle politiche: di destra, di sinistra, qualunquiste, ideologiche. A me piace l’appellativo di politica del “buon senso” o “dell’equilibrio” con forti tensioni verso gli ultimi. A me pare che si confaccia con la politica di questo governo anche se qualche “ideologo” la può scambiare con “antidemocratico”. Voglio dire che gli appellativi sono tanti, ma ciò che conta è avere idee e realizzarle. RENZI DOCET.

Vedi carissimo, quel che scrivi “potrebbe” essere un ottimo “viatico” per conseguire il bene degli italiani; e condivido pienamente i “fondamentali” del Buon Governo. Ma… il problema più rilevante non è questo! E’ la persona che li “dovrebbe” realizzare: inadeguata, da sempre egocentrica, supponente al limite dell’offensivo, irridente per l’appunto nei confronti dei suoi avversari, non solo quelli potenzialmente “nemici”. Se proprio vogliamo utilizzare – dopo il “ricreativo” il “CURTURALE” – (e qui Benigni docet) – rileggi Machiavelli e segnati due nomi: Giulio Cesare (il “Divino”) e Tommaso Amalfi detto “Masaniello”!

Morti e sepolti, mentre l’altro pieno di vita e di voglia di cambiamento. Ti dò un altro termine “risoluto” per meglio contrapporlo ad aggettivi poco reali. Immagino Renzi al posto di Cameron. Con arroganza, come ti piace sottolineare,si sarebbe scagliato contro al referendum sull’Europa. Lo avrebbe impedito con tutti i mezzi. Avrebbe denigrato Falange ed il parruccone ex sindaco di Londra. Avrebbe lottato per cambiare l’Europa in modo forte e risoluto, dettandone tempi e contenuti. Avrebbe spiegato che la GB non è più la grande potenza coloniale e difficilmente potrebbe reggere la sua ricca economia fuori dall’Europa. Non ti sembra triviale definirlo inadeguato,egocentrico,,supponente, irridente ecc. La politica non è fatta per i pappa molla ed i furbetti. Oggi ci vogliono idee e risolutezza ; Renzi le possiede, altri no.

La DEMOCRAZIA! E’ una parola “obsoleta”?

E, poi, le tue proposte di un confronto “impossibile” tra Renzi e Cameron sono assurde! Se nel Partito a cui ho dato vita “in quota parte” la Democrazia langue (guarda cosa è accaduto in Commissione Affari Istituzionali con la “minoranza” e guarda a quali ricatti devono sottostare gli Amministratori sospinti a costituire in prima persona dei Comitati per il Sì, pena il “bando” dalle future “partecipazioni”(!)) pensa quali siano i livelli di Democrazia nel nostro futuro se non fermiamo “democraticamente” (ma “fermiamo”!) questo personaggio!
E, visto che menzioni Cameron, ti confermo che stimo maggiormente lui capace di mettersi in gioco “DEMOCRATICAMENTE” piuttosto che coloro che spingono, come in Italia, la gente a disertare le urne o vanificano il voto referendario (leggi “Referendum sull’acqua pubblica”)….. e l’elenco delle nefandezze antidemocratiche non finisce qui.

Lo so che la stima dei sinistrorsi è più per gli uomini di destra i qualunquisti che per il PD. Ogni volta che lo sento dire mi viene una fitta. LA DEMOCRAZIA è innanzi tutto il rispetto verso la maggioranza. Se non lo si ha ci si toglie di mezzo e si va via. Poi se le stime, i voti, le simpatie vanno verso Salvinu, Brunettino o Grillo, pur di fare un dispetto al PD, sono cose che toccano la coscienza individuale. Io che ho gioito nella formazione del PD e mi sento rappresentato dalla forza di rinnovamento di questo partito chiedo solo un maggior rispetto che si consolida non con le parole, ma con idee e proposte in grado di essere condivise da una maggioranza. Questa è democrazia.

Carissimo la DEMOCRAZIA è DEMOCRAZIA punto e basta! ma non per essere arroganti e presuntuosi a nostra volta ma per puntualizzare il tutto; altrimenti può sembrare (ma non è così, vero?) che la DEMOCRAZIA sia unilaterale e non universale! Potrei facilmente rilevare che con quel “sinistrosi”(sic!) con cui tu mi identifichi la discussione possa chiudersi qui, ma intendo rilevare ancora una volta che, a parte quel che mi piaccia personalmente (intendo parlare delle questioni europee e dell’affare Brexit, che mi turba forse più di quanto non turbi te), rispetto enormemente il livello “democratico” di Cameron piuttosto che quello, che poi “democratico” non è, del tuo pupillo, al quale i “fondamentali” che tu elenchi nella prima delle tue risposte non interessano affatto o – a riconoscerne appena appena l’ombra – servono solo a realizzare le “sue” ambizioni e non gli interessi reali degli italiani.

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ALTRI TEMPI ?

ALTRI TEMPI ?

Mio padre mi ammoniva rispetto alla “politica” nel ricordo degli anni bui della sua “giovinezza”, ma di certo era molto orgoglioso dei miei “impegni” sociali culturali e politici.
Un amico mi ha detto qualche giorno fa parlando dei “giovani” impegnati nell’agone politico in questo ultimo ventennio: “Non credo che si divertano quanto ci si divertiva noi alla loro età!….”. Dissento.

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“Ci sono le Primarie… e io vi partecipo. Non solo come elettore, sono tra i candidati”.
Giuliano, quella sera era tornato a casa galvanizzato dalla prospettiva di potersi mettere alla prova in quella “contesa” tutta interna al suo Partito.
“Guarda di non esagerare” riflettè Silvia, la sua compagna “non sei ancora così conosciuto…ed in politica sei troppo giovane…”.
Giuliano da poco era arrivato in quella città e politicamente in verità non si era distinto; la politica è fatta di rapporti intensi e compromissori; la sua presenza era stata orientata alle problematiche culturali ed anche nel Partito, dopo vicende drammatiche di livello nazionale, da poco tempo si occupava di Cultura e, si sa, questa non è mai stata, se non a chiacchiere per acchiappare qualche consenso passeggero, nelle priorità di nessuna forza politica.
“Ecco dunque un’occasione per evidenziare il mio valore” ebbe a pensare il giovane e si scrollò di doso il pessimismo pragmatico di Silvia. La quale in verità più di una buona ragione ce l’aveva: quelle Primarie erano riservate in modo esclusivo alle iscritte ed agli iscritti; non erano “aperte” e Giuliano era conosciuto solo da una minima parte di militanti, e i concorrenti erano temibilissimi.

C’era però una clausola che lo incoraggiava a sperare: erano Primarie un po’ strane, si potevano segnalare anche, nel segreto del gabbiotto, delle indicazioni in negativo, una sorta di “gioco al massacro consentito dalle regole”. E lui pensò che la sua militanza attiva, anche – e forse proprio per questo motivo – se non lo aveva fatto conoscere a tantissimi, proprio per il fatto che in quella città era arrivato da non molto, tre-quattro anni, non aveva avuto il tempo di produrre giudizi e concrezioni negative, e lui quindi sperava in un saldo positivo.

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Era la prima volta che nelle Amministrative si votava con una nuova Legge, quella che avrebbe affidato un ruolo di primissimo piano ai Sindaci con una votazione a preferenza unica e con la trascrizione del cognome del consigliere prescelto da parte dell’elettore.
Fino ad allora si era votato con tre preferenze e bastava segnare accanto al simbolo dei numeretti, la qual cosa aveva prodotto un vero e proprio mercato dei consiglieri che si organizzavano attraverso il Partito con delle cordate ben precise ed orientate allo scopo anche di stabilire preventivamente la scelta del Sindaco.
Tutte le campagne elettorali si basavano su questi pre-accordi e di norma circolavano queste “terne” sui “pizzini” che candidati e loro galoppini distribuivano ad amici ed amici degli amici.

…prima parte…. continua…

campagnaelettorale

IL RITORNO DI JACQUES TATI – tutto

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JACQUES TATISCHEFF, in arte JACQUES TATI

La cinematografia francese nel corso della sua storia non ha annoverato in realtà molti nomi nel genere del “comico”; ma quando li ha avuti questi sono riusciti, con la loro maestria e la loro fama, a varcare i confini sulle terre e sugli oceani: basterebbe accennare a Max Linder, Louis De Funès, Fernandel per dare notizie per l’appunto dei più famosi. Si sarebbe tentati di andare “controcorrente”, considerando invece Jacques Tati un semplice realista, avendo verificato che le azioni dei suoi film sono sempre ispirate tutte alla vita quotidiana, alla normalità più assoluta; si sarebbe tentati anche di non ammetterlo fra i “grandi” perché la sua produzione è molto ridotta rispetto a quella dei suoi compagni; si sarebbe tentati di catalogarlo più come “mimo” o “attore di cabaret” che come “comico cinematografico”. Ma tutte queste tentazioni vanno ovviamente accantonate di fronte alle immagini filmiche, così come è accaduto quest’anno (ndr 1983) in una scuola di Empoli, con gli allievi attenti a seguire i numerosi “gag” del nostro “eroe di tutti i giorni”. La proiezione di “Mon oncle” oltre a divertire con grande razionalità, ha fatto scattare in alcuni allievi – la maggior parte in verità – il desiderio di conoscere qualcosa di più su Jacques Tati.
Sulla storia di Jacques Tati (questo cognome – con l’accento alla francese – ha aiutato indubbiamente alla sua divulgazione più ampia l’arte di Jacques Tatischeff) ci conforta poco la bibliografia ancora abbastanza scarna, ma alcuni particolari, alcune scelte, un certo tipo di impostazione anche tecnica del fare teatro e del fare cinema ce li possono svelare le sue argomentazioni e proprio la sua storia biografica.
Jacque tati nasce a Pecq, nei dintorni di Saint-Germain en Laye (e cioè alla periferia ovest di Parigi) il 9 ottobre del 1908. La sua famiglia era formata dal padre, russo di origine, figlio dell’ambasciatore dello zar e dalla madre francese, figlia di un corniciaio amico di Van Gogh. Dal nonno paterno gli deriveranno una certa tristezza e quei movimenti scarni ed essenziali, il suo sguardo spesso glaciale da Pierrot lunare con cui si presenta davanti al pubblico; quei suoi tratti aristocratici non gli impediranno tuttavia di “rifare” al cinema, in particolare, ed in teatro modi ed abitudini tipici del popolo e della media borghesia.
Suo padre, scegliendo anche lui –come il suocero – il mestiere di corniciaio (con lui lavorerà spesso anche il giovane Jacques), finì con il favorire non poco le future scelte tecniche del grande Tati. L’ “inquadratura” rievoca per l’appunto la “cornice” (la parola inglese “frame” significa alternativamente “fotogramma” o “cornice” ed in francese “cadre” è “quadro” e “cadrage” è “inquadratura”). Leggete ciò che egli dice quanto al suo modo particolare di fare cinema: “Bisogna che siano i miei attori a muoversi, e non la mia macchina da presa a spostarsi…Ho cercato di dare, mediante la fissità del quadro, un’impressione di rilievo…”. Egli scopre che il primo cinema di ognuno di noi è quello fantastico dello sguardo attonito che voglia penetrare al di là di una cornice – sia essa piena, sia essa vuota -, cioè quelle fantasticherie che si fanno davanti alla scena ritratta in un quadro o in una fotografia (e Jacques apprezzerà molto l’opera di Jean Renoir, figlio di Auguste, ed in particolare “Une partie de campagne” che più ampiamente si ispira all’opera pittorica del padre) o affacciandosi a qualsiasi finestra e guardando la vita scorrere, le azioni compiersi, immaginando i dialoghi, gli alterchi, le emozioni ed i sentimenti della gente, il loro rapporto con gli oggetti e con gli altri, tutte questioni essenziali che vengono riprese nel futuro impegno artistico di Tati.
“Rido molto di più se sto sulla terrazza del caffè ed ho a disposizione questa finestra aperta sulla strada. Ecco perché ho scelto il grande schermo, che è appunto la finestra…Volevo una finestra; non un piccolo lucernario, una vera, grande finestra…La comicità esiste già fuori di noi. Il problema è saperla cogliere. Credo, perciò, che osservando il mondo che ci sta intorno si possano trovare centinaia di personaggi comici”.
Il giovane Tati, prestante e pieno di energia vitale e creativa, dedica anche molto tempo all’attività sportiva. Pratica varie specialità: il calcio, la boxe, l’equitazione, il tennis, il rugby, conquistando dei buoni successi. Ma anche in questo settore egli non tralascerà di osservare, di annotare, di cogliere tutti quei particolari movimenti, quegli impercettibili e divertentissimi (proprio perché nostri e non riconosciuti) tic e difetti della progenie umana. Se nella sua arte, più propriamente di music-hall e di cabaret, egli adopererà queste annotazioni con grande intelligenza e sapienza nella loro rielaborazione e ripetizione, il massimo obiettivo lo raggiungerà nel cinema nel famoso “gag” della partita a tennis delle “Vacanze di M. Hulot” (1949).
Le prime esperienze artistiche per Tati sono legate ad occasionali momenti di relax nella vita militare, allorquando si diverte ad intrattenere i suoi commilitoni, ricreando la vita, la realtà, gli uomini e le loro storie dinanzi a loro. Poi la sua storia sarà sempre più un susseguirsi di interventi e di presenze nel campo artistico: nel music-hall, nel cabaret, nella rivista, nel cinema. Le sue iniziali apparizioni in quest’ultima arte (quella che a noi interessa in modo specifico) avvengono in sette cortometraggi: cinque prima della guerra e due nell’immediato dopoguerra. Il primo di essi, realizzato pienamente da Tati (sceneggiatura, regia ed interpretazione), risulta estremamente importante per comprendere meglio la provenienza dei personaggi chiave di Tati: Francois il postino perdigiorno e stralunato di “Jour de fete” e Monsieur Hulot, la maschera tipica da lui inventata. Si tratta di “Oscar, champion de tennis” (1932) che, peraltro, rimanda ad una delle sue peculiari predilezioni mimico-sportive cui si accennava prima. Seguono negli anni 1934, “On demande une brute” per la regia di Charles Barrois; 1935, “Gui dimanche” regia di Charles Berr, ambedue sceneggiati da Jacques Tati e scarsamente importanti, anche se contribuiscono in qualche modo alla sua maturazione ed a quella del suo “personaggio”.
Nel 1936 è la volta di un film, la cui regia, affidata a René Clement, risulta decisiva per il successo di pubblico, che invece era mancato alle precedenti “performances”: parliamo di “Soigne ton gauche” che, trattando dell’ambiente sportivo pugilistico permette a Tati di esprimere quella sua capacità mimico-sportiva di cui si parlava prima e di affinare tutte le caratteristiche peculiarità del suo personaggio.
L’ultimo film del periodo anteguerra è “Retour à la terre” (1938) realizzato pienamente da Jacques Tati che pur non apparendo determinante per la sua carriera registra però già la presenza di qualche personaggio ed ambientazione tipica della sua produzione successiva (la campagna, i bambini vocianti, l’ameno postino).

Dopo la guerra, alla quale partecipa in qualità di sergente, Jacques Tati prende parte a due film di Claude Autant-Lara, “Sylvie et le fantome” (1945) e “Le diable au corps” (1946). Sono piccole interpretazioni poco importanti e per niente interessanti, la cui citazione vale solamente a non perderlo di vista. Ma con il denaro messo da parte con quei due lavori egli riuscì a finanziare un importantissimo cortometraggio, “L’école des facteurs” (1947), che prelude non solo tecnicamente, ma anche tematicamente al suo primo lungometraggio. “Jour de fete”(1949) nacque nella mente di Tati quando, rifugiatosi a Sainte-Sèvère-sur-Indre nella Touraine, all’indomani della guerra, egli ebbe modo di vivere in quel tranquillo borgo di campagna e di annotarne tutte le caratteristiche umane e sociali. Il film registra proprio il susseguirsi degli avvenimenti in un villaggio nell’arco di una giornata, dal 13 al 14 luglio. Queste vicende, che scaturiscono dalla verifica minuziosa delle diverse abitudini e comportamenti della gente finiscono per apparire, pur se normali, estremamente divertenti nella rielaborazione ed interpretazione di Jacques Tati. Il film aveva ulteriori particolari caratteristiche: il sonoro era registrato in diretta ed alla sua realizzazione collaborò tutta la gente di Sainte-Sèvère. Il successo arrise al film, in particolare al suo autore che ebbe il premio per la migliore sceneggiatura alla Biennale di Venezia nel 1949 ed il Grand Prix du Cinèma nel 1950 a Cannes. Questa favorevole accoglienza di critica e di pubblico, da una parte contribuì a far conoscere l’autore al mondo intero, dall’altra gli procurarono l’assalto di produttori desiderosi di arricchirsi, che proponevano di far divenire “Jour de fete” il primo di una serie di film il cui protagonista fosse il postino Francois. Ma Tati aveva ben altri progetti e soprattutto in questa occasione egli mostra quanto sia in grado di poter ragionare con la sua testa: giudica un episodio, anche se eccezionalmente importante, la sua descrizione della vita di campagna ed, avvicinandosi al mondo medio-borghese della città (o perlomeno della sua immediata periferia), si dispone alla creazione di un nuovo personaggio anche lui del tutto normale, uomo della strada, “di una indipendenza totale, di un disinteresse assoluto, che la sventatezza, il suo difetto principale, rende, nella nostra epoca funzionale, un disadattato” (Jacques Tati). Questo personaggio che si indentificherà da quel momento in avanti sempre di più in tutto e per tutto con Jacques tati è Monsieur Hulot. Non si può dire che “Les vacances” sia proprio il primo film in cui questo personaggio appare perché anche le prime opere raccolgono ricerche e descrizioni di quel mondo proprio di Tati-Hulot. “Nella vita esistono tanti che, in fondo, sono degli Hulot” dice lo stesso Tati, argomentando circa le invenzioni tipologiche del suo personaggio e negandole decisamente. E, comunque, Hulot appare con questo nome per la prima volta nel titolo di “Les vacances de M. Hulot”, un film che, iniziato nel luglio del 1951, fu condotto a termine solo alla fine dell’anno seguente. In effetti, questo come gli altri film di Tati, ha una gestazione molto più lunga rispetto ai tempi di altri registi ed è legato ad una lenta, minuziosa ed attenta analisi di tutto quello che deve essere ripreso, anche se apparentemente la vita di Hulot e degli altri villeggianti sembra scorrere nella più assoluta normalità, ma è proprio questa identificazione con la realtà che fa scattare il meccanismo comico della condivisione che provoca la sorridente intelligente e composta partecipazione del pubblico.

“Les vacances” come “Jour de fete” fu girato in esterni reali e non è fornito di un’abituale struttura narrativa; insomma non si può parlare di un film con una trama vera e propria: solo una serie di sequenze che mostrano alcuni episodi consueti che interessano un gruppo di semplici e normali turisti nelle loro vacanze dall’inizio alla fine. Di certo Federico Fellini lo vide e se ne ispirò per molti dei suoi film (per comprendere quel che scrivo occorrerebbe vedere il film di Tati). Il successo delle “Vacanze” ed i numerosi consensi della critica, l’afflusso imponente del pubblico consentirono a Tati una sempre maggiore libertà nella realizzazione del film successivo, “Mon oncle” (1958).
Questo lavoro impegnò Tati per ben due anni, e ciò viene confermato da una sua affermazione. “Dicono: – Tati impiega più di due anni a fare un film – Vi assicuro, tuttavia, che non perdo il mio tempo. Lavoro ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno. Potrei anche andare in fretta, come i nuovi autobus: allora ci metterei tre settimane. E neanche in tre mesi…Ma quando si è scelto il mestiere del cinema, che è appassionante, occorre riconoscerlo, bisogna farlo come lo faccio io, o rinunciarci…Non si può, in trentasette giorni, raccontare una storia molto importante…”. “Mon oncle” si addentra nella contraddizione, assai più viva in verità in quegli anni del “boom” economico, della industrializzazione e dell’avvento tecnologico moderno nelle abitazioni private e nelle sedi pubbliche, verso cui guardavano fiduciose tante casalinghe e tanti mariti speranzosi di poter evitare le settimanali “corvées” più o meno prevedibili ed imposte da contratti “privati”.
E’ un argomento, questo, certamente originale e diverso da tutti gli altri analizzati da Tati nei suoi precedenti film: lo zio della vicenda è quello di Gèrard Arpel, nove anni, ed è sempre Mister Hulot. La sua occupazione è limitata (ed è di un interesse e di una condivisione per noi considerevole) a vivere la vita, guardando la gente, scrutando la vita quotidiana ed il suo evolversi e facendo appassionare a questa osservazione il nipotino nelle loro passeggiate al ritorno da scuola: un film indiscutibilmente “di formazione”. Hulot è del tutto negato per intrattenere un qualsivoglia rapporto “amichevole” (o di semplice e pacifica convivenza) con le macchine, ma mentre lui non si lascia assolutamente coinvolgere – ma ne è inevitabilmente coinvolto – in un confronto con le macchine, gli altri, che se ne servono abitualmente, ne escono fortemente turbati se non proprio sconfitti. Dice però giustamente Roberto Nepoti nella biografia di Tati pubblicata nella collana “Il Castoro Cinema” n. 58, La Nuova Italia, pag. 51: “Il film non si risolve tuttavia nell’inno al passatismo. Indica piuttosto Hulot, liaison fisica tra ipertecnologico e desueto, come “terza forza” capace di umanizzare il progresso, in nome della rivolta contro il condizionamento che esso comporta”.
Anche questo film ottenne numerosi premi: a Cannes, New York, Parigi e, ciliegina sulla torta, l’Oscar nel 1958.
“Playtime”, il film che segue nella produzione di Tati, è datato 1967: sono passati dieci anni da “Mon oncle” ed alcuni, pensando siano tanti, hanno potuto credere si sia trattato di un inaridirsi della vena creativa, mentre, proprio per quanto si è detto dianzi, non vi è attimo della sua vita che non sia impegnato nel rilevare attentamente gli eventi e quindi questo film è il risultato di una cernita fra tutte le osservazioni compiute in quel lungo periodo.
Lo sguardo di Tati si posa in questa nuova occasione sulla città, dopo la campagna, dopo lo stabilimento balneare, dopo i quartieri periferici borghesi e popolari. La città di “Playtime” è guardata con gli occhi di chi si sente estraneo di fronte alla ormai dilagante tecnologia elettronica, di fronte ai palazzi tutti alti ed uguali fra loro, all’interno di questo universo futuristico in cui ormai si è costretti a vivere incasellati ed irreggimentati senza alcuna speranza. La contraddizione, tra il bisogno di sentimenti e di ideali ed il necessario ricorso ad un mondo innaturale ed asettico viene posta in evidenza con sagacia da Tati nell’atto di M. Hulot che porge alla ragazza americana un mazzolino di fiori di plastica. Raccontare il film risulta fondamentalmente impossibile, nel breve spazio a nostra disposizione; esso è costruito in maniera del tutto antitetica rispetto alle normali tecniche di narrazione: è certo il più moderno ed avanzato (e quindi più difficile da intendersi) dei film di Tati. Anche sul piano del successo, esso ottiene in particolar modo quello della critica, che riconobbe in “Playtime” una geniale intuizione di un altrettanto geniale “artefice”; gli mancò il consenso, pur importantissimo, del pubblico, che sarebbe invece stato necessario a coprire il sostanzioso “deficit” finanziario della produzione.
Il film con il suo “fiasco” non costrinse fortunatamente Tati a rivedere le sue idee, nei rapporti con i produttori, anche se gli comportò un ritardo nella definizione e messa a punto del film seguente, che è “Trafic” (1971), in cui viene presa in esame la società sempre più disumanizzata dalle “macchine”. In effetti, ed è ovvio, Tati rinnega questa realtà e sorride di fronte alla catastrofe apocalittica di numerosi cimiteri di auto, di giganteschi ed inestricabili ingorghi, di dispettosi e fastidiosi guasti. Tutta la storia (si ritorna ad una sequenza di vicende molto usuali) ruota intorno ad una invenzione geniale di M. Hulot, una nuova automobile, che può diventare casa, luogo di lavoro e di vita, ed anche, se si volesse, di morte; è la narrazione per immagini, per gags, di come l’uomo si sia innamorato della macchina ed ormai non riesca a farne a meno. Nel viaggio che si compie verso Amsterdam accadono numerosi contrattempi ed incidenti vari che sollecitano Tati-Hulot a sfrenarsi nelle sue pur sempre composte trovate.
L’ultimo dei film di Tati è “Parade” del 1974. Non vi appare più come Hulot; egli interpreta un ruolo di presentatore e di coordinatore per uno spettacolo di artisti del circo e si chiama M. Loyal. Prodotto per la televisione svedese, “Parade” potrebbe apparire ancora una volta ciò che non è mai un film di Tati: un insieme di vicende, di numeri, di gag senza un filo logico che le colleghi fra di loro. Il ruolo di Jacques Tati è propriamente doppio: accanto al suo lavoro di animatore egli si presenta anche come protagonista con una serie di pantomime, quelle più importanti e decisive per la sua carriera. Ma, ciò che è più importante, da un lato lo spettatore è ripreso nel circo continuamente coinvolto nel meccanismo dello spettacolo sia come individuo che come collettività, dall’altro lo spettatore che è al di qua dello schermo si trova allo stesso tempo coinvolto nella struttura particolare di questo film che consente di poter vivere qualsiasi momento dello spettacolo: dai lavori dietro le quinte al rincorrere, in ogni istante le diverse reazioni dei partecipanti. Il film ha ottenuto nel 1975 il “Grand Prix du Cinéma Francais”.

Jacques Tati è morto. Non credo gli si addica l’immobilità. Soffrirà molto per questo! Ma Jacques Tati non è morto, ognuno di noi è Jacques Tati, la sua umanità è sempre presente: lui indubbiamente è più bravo, perché è tutti noi indistintamente, i suoi personaggi, il suo mito, come per tutti i grandi, non sono morti con lui. Ed ora, buona visione! Scusate se non si può essere più eloquenti dei suoi film!

Sylvain Chomet nel 2010 realizzò un suo importante film basato su una sceneggiatura inedita scritta nel 1956 dal mimo, attore e regista francese Jacques Tati. La figura del protagonista riprende in disegni animati le sembianze di Tati, che aveva scritto quel soggetto nel 1956 per farne un film da interpretare insieme alla figlia.

LA NEMESI – ridiamo serenità al nostro Paese ed a…..

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LA NEMESI ridiamo serenità al nostro Paese ed a…..

Se si utilizza la cattiveria, la protervia, l’aggressività, l’arroganza come elementi distintivi per conquistare il Potere scalando la leadership del maggior Partito allora di Sinistra o Centrosinistra (fate vobis); se poi questi segni distintivi si utilizzano per attaccare avversari politici esterni – ma soprattutto quelli “interni” che democraticamente e legittimamente avanzano le loro critiche – non si può – presto o tardi – sorprendersi che si svuotino i serbatoi dei Circoli e di concerto quelli elettorali e non ci si può sorprendere che anche un appuntamento elettorale amministrativo “locale” non abbia il suo significato nazionale. Presto o tardi, caro leader, ci si vendica nel modo più moderno e democratico.
Anche tutta la questione referendum di ottobre viene condotta dalla leadership del Partito Democratico con quella cifra di aggressività verso chi non è d’accordo. E non va dimenticata ( e Renzi non la dimentica, anche se ha fatto finta di niente) la torbida vicenda del referendum sulle trivelle, né la modalità con cui ha fatto fuori il Sindaco di Roma. Presto o tardi la nemesi ripaga con la stessa moneta.
Chi, come me, è fuori dal PD può soltanto sperare che la minoranza prenda coraggio ed ingaggi battaglia all’interno. Nessuno, neanche il M5S, può pensare che una sonora sconfitta porti a dimissioni del Governo; io personalmente non propendo neanche a dimissioni dopo eventuale sconfitta referendaria; ma se il PD non cambia verso si va incontro ad una serie di sconfitte più dolorose di queste che si annunciano. E poichè non è la prima volta che lo scrivo e altri come me tantissime volte lo hanno scritto e detto, riscritto e ridetto, non aspettate, voi della minoranza, che si arrivi al tracollo, non vi lasciate incantare da promesse e blandizie o scoraggiare da offese ed attacchi ripetuti e violenti. Assumetevi le vostre responsabilità: siete stati deboli ed accondiscendenti, occupate con le vostre forze ideali e reali il centro della Direzione del Partito ed allontanate questa classe dirigente tracotante e supponente.

… restituiamo serenità al nostro Paese….

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quinta ed ultima parte

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quinta ed ultima parte

“Playtime”, il film che segue nella produzione di Tati, è datato 1967: sono passati dieci anni da “Mon oncle” ed alcuni, pensando siano tanti, hanno potuto credere si sia trattato di un inaridirsi della vena creativa, mentre, proprio per quanto si è detto dianzi, non vi è attimo della sua vita che non sia impegnato nel rilevare attentamente gli eventi e quindi questo film è il risultato di una cernita fra tutte le osservazioni compiute in quel lungo periodo.
Lo sguardo di Tati si posa in questa nuova occasione sulla città, dopo la campagna, dopo lo stabilimento balneare, dopo i quartieri periferici borghesi e popolari. La città di “Playtime” è guardata con gli occhi di chi si sente estraneo di fronte alla ormai dilagante tecnologia elettronica, di fronte ai palazzi tutti alti ed uguali fra loro, all’interno di questo universo futuristico in cui ormai si è costretti a vivere incasellati ed irreggimentati senza alcuna speranza. La contraddizione, tra il bisogno di sentimenti e di ideali ed il necessario ricorso ad un mondo innaturale ed asettico viene posta in evidenza con sagacia da Tati nell’atto di M. Hulot che porge alla ragazza americana un mazzolino di fiori di plastica. Raccontare il film risulta fondamentalmente impossibile, nel breve spazio a nostra disposizione; esso è costruito in maniera del tutto antitetica rispetto alle normali tecniche di narrazione: è certo il più moderno ed avanzato (e quindi più difficile da intendersi) dei film di Tati. Anche sul piano del successo, esso ottiene in particolar modo quello della critica, che riconobbe in “Playtime” una geniale intuizione di un altrettanto geniale “artefice”; gli mancò il consenso, pur importantissimo, del pubblico, che sarebbe invece stato necessario a coprire il sostanzioso “deficit” finanziario della produzione.
Il film con il suo “fiasco” non costrinse fortunatamente Tati a rivedere le sue idee, nei rapporti con i produttori, anche se gli comportò un ritardo nella definizione e messa a punto del film seguente, che è “Trafic” (1971), in cui viene presa in esame la società sempre più disumanizzata dalle “macchine”. In effetti, ed è ovvio, Tati rinnega questa realtà e sorride di fronte alla catastrofe apocalittica di numerosi cimiteri di auto, di giganteschi ed inestricabili ingorghi, di dispettosi e fastidiosi guasti. Tutta la storia (si ritorna ad una sequenza di vicende molto usuali) ruota intorno ad una invenzione geniale di M. Hulot, una nuova automobile, che può diventare casa, luogo di lavoro e di vita, ed anche, se si volesse, di morte; è la narrazione per immagini, per gags, di come l’uomo si sia innamorato della macchina ed ormai non riesca a farne a meno. Nel viaggio che si compie verso Amsterdam accadono numerosi contrattempi ed incidenti vari che sollecitano Tati-Hulot a sfrenarsi nelle sue pur sempre composte trovate.
L’ultimo dei film di Tati è “Parade” del 1974. Non vi appare più come Hulot; egli interpreta un ruolo di presentatore e di coordinatore per uno spettacolo di artisti del circo e si chiama M. Loyal. Prodotto per la televisione svedese, “Parade” potrebbe apparire ancora una volta ciò che non è mai un film di Tati: un insieme di vicende, di numeri, di gag senza un filo logico che le colleghi fra di loro. Il ruolo di Jacques Tati è propriamente doppio: accanto al suo lavoro di animatore egli si presenta anche come protagonista con una serie di pantomime, quelle più importanti e decisive per la sua carriera. Ma, ciò che è più importante, da un lato lo spettatore è ripreso nel circo continuamente coinvolto nel meccanismo dello spettacolo sia come individuo che come collettività, dall’altro lo spettatore che è al di qua dello schermo si trova allo stesso tempo coinvolto nella struttura particolare di questo film che consente di poter vivere qualsiasi momento dello spettacolo: dai lavori dietro le quinte al rincorrere, in ogni istante le diverse reazioni dei partecipanti. Il film ha ottenuto nel 1975 il “Grand Prix du Cinéma Francais”.

Jacques Tati è morto. Non credo gli si addica l’immobilità. Soffrirà molto per questo! Ma Jacques Tati non è morto, ognuno di noi è Jacques Tati, la sua umanità è sempre presente: lui indubbiamente è più bravo, perché è tutti noi indistintamente, i suoi personaggi, il suo mito, come per tutti i grandi, non sono morti con lui. Ed ora, buona visione! Scusate se non si può essere più eloquenti dei suoi film!

Sylvain Chomet nel 2010 realizzò un suo importante film basato su una sceneggiatura inedita scritta nel 1956 dal mimo, attore e regista francese Jacques Tati. La figura del protagonista riprende in disegni animati le sembianze di Tati, che aveva scritto quel soggetto nel 1956 per farne un film da interpretare insieme alla figlia.

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quarta parte

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quarta parte

“Les vacances” come “Jour de fete” fu girato in esterni reali e non è fornito di un’abituale struttura narrativa; insomma non si può parlare di un film con una trama vera e propria: solo una serie di sequenze che mostrano alcuni episodi consueti che interessano un gruppo di semplici e normali turisti nelle loro vacanze dall’inizio alla fine. Di certo Federico Fellini lo vide e se ne ispirò per molti dei suoi film (per comprendere quel che scrivo occorrerebbe vedere il film di Tati). Il successo delle “Vacanze” ed i numerosi consensi della critica, l’afflusso imponente del pubblico consentirono a Tati una sempre maggiore libertà nella realizzazione del film successivo, “Mon oncle” (1958).
Questo lavoro impegnò Tati per ben due anni, e ciò viene confermato da una sua affermazione. “Dicono: – Tati impiega più di due anni a fare un film – Vi assicuro, tuttavia, che non perdo il mio tempo. Lavoro ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno. Potrei anche andare in fretta, come i nuovi autobus: allora ci metterei tre settimane. E neanche in tre mesi…Ma quando si è scelto il mestiere del cinema, che è appassionante, occorre riconoscerlo, bisogna farlo come lo faccio io, o rinunciarci…Non si può, in trentasette giorni, raccontare una storia molto importante…”. “Mon oncle” si addentra nella contraddizione, assai più viva in verità in quegli anni del “boom” economico, della industrializzazione e dell’avvento tecnologico moderno nelle abitazioni private e nelle sedi pubbliche, verso cui guardavano fiduciose tante casalinghe e tanti mariti speranzosi di poter evitare le settimanali “corvées” più o meno prevedibili ed imposte da contratti “privati”.
E’ un argomento, questo, certamente originale e diverso da tutti gli altri analizzati da Tati nei suoi precedenti film: lo zio della vicenda è quello di Gèrard Arpel, nove anni, ed è sempre Mister Hulot. La sua occupazione è limitata (ed è di un interesse e di una condivisione per noi considerevole) a vivere la vita, guardando la gente, scrutando la vita quotidiana ed il suo evolversi e facendo appassionare a questa osservazione il nipotino nelle loro passeggiate al ritorno da scuola: un film indiscutibilmente “di formazione”. Hulot è del tutto negato per intrattenere un qualsivoglia rapporto “amichevole” (o di semplice e pacifica convivenza) con le macchine, ma mentre lui non si lascia assolutamente coinvolgere – ma ne è inevitabilmente coinvolto – in un confronto con le macchine, gli altri, che se ne servono abitualmente, ne escono fortemente turbati se non proprio sconfitti. Dice però giustamente Roberto Nepoti nella biografia di Tati pubblicata nella collana “Il Castoro Cinema” n. 58, La Nuova Italia, pag. 51: “Il film non si risolve tuttavia nell’inno al passatismo. Indica piuttosto Hulot, liaison fisica tra ipertecnologico e desueto, come “terza forza” capace di umanizzare il progresso, in nome della rivolta contro il condizionamento che esso comporta”.
Anche questo film ottenne numerosi premi: a Cannes, New York, Parigi e, ciliegina sulla torta, l’Oscar nel 1958.

fine parte 4 – continua

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – terza parte

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LEZIONI DI CINEMA – L’ALBA DEGLI AUTORI – JACQUES TATI – terza parte

Dopo la guerra, alla quale partecipa in qualità di sergente, Jacques Tati prende parte a due film di Claude Autant-Lara, “Sylvie et le fantome” (1945) e “Le diable au corps” (1946). Sono piccole interpretazioni poco importanti e per niente interessanti, la cui citazione vale solamente a non perderlo di vista. Ma con il denaro messo da parte con quei due lavori egli riuscì a finanziare un importantissimo cortometraggio, “L’école des facteurs” (1947), che prelude non solo tecnicamente, ma anche tematicamente al suo primo lungometraggio. “Jour de fete”(1949) nacque nella mente di Tati quando, rifugiatosi a Sainte-Sèvère-sur-Indre nella Touraine, all’indomani della guerra, egli ebbe modo di vivere in quel tranquillo borgo di campagna e di annotarne tutte le caratteristiche umane e sociali. Il film registra proprio il susseguirsi degli avvenimenti in un villaggio nell’arco di una giornata, dal 13 al 14 luglio. Queste vicende, che scaturiscono dalla verifica minuziosa delle diverse abitudini e comportamenti della gente finiscono per apparire, pur se normali, estremamente divertenti nella rielaborazione ed interpretazione di Jacques Tati. Il film aveva ulteriori particolari caratteristiche: il sonoro era registrato in diretta ed alla sua realizzazione collaborò tutta la gente di Sainte-Sèvère. Il successo arrise al film, in particolare al suo autore che ebbe il premio per la migliore sceneggiatura alla Biennale di Venezia nel 1949 ed il Grand Prix du Cinèma nel 1950 a Cannes. Questa favorevole accoglienza di critica e di pubblico, da una parte contribuì a far conoscere l’autore al mondo intero, dall’altra gli procurarono l’assalto di produttori desiderosi di arricchirsi, che proponevano di far divenire “Jour de fete” il primo di una serie di film il cui protagonista fosse il postino Francois. Ma Tati aveva ben altri progetti e soprattutto in questa occasione egli mostra quanto sia in grado di poter ragionare con la sua testa: giudica un episodio, anche se eccezionalmente importante, la sua descrizione della vita di campagna ed, avvicinandosi al mondo medio-borghese della città (o perlomeno della sua immediata periferia), si dispone alla creazione di un nuovo personaggio anche lui del tutto normale, uomo della strada, “di una indipendenza totale, di un disinteresse assoluto, che la sventatezza, il suo difetto principale, rende, nella nostra epoca funzionale, un disadattato” (Jacques Tati). Questo personaggio che si indentificherà da quel momento in avanti sempre di più in tutto e per tutto con Jacques tati è Monsieur Hulot. Non si può dire che “Les vacances” sia proprio il primo film in cui questo personaggio appare perché anche le prime opere raccolgono ricerche e descrizioni di quel mondo proprio di Tati-Hulot. “Nella vita esistono tanti che, in fondo, sono degli Hulot” dice lo stesso Tati, argomentando circa le invenzioni tipologiche del suo personaggio e negandole decisamente. E, comunque, Hulot appare con questo nome per la prima volta nel titolo di “Les vacances de M. Hulot”, un film che, iniziato nel luglio del 1951, fu condotto a termine solo alla fine dell’anno seguente. In effetti, questo come gli altri film di Tati, ha una gestazione molto più lunga rispetto ai tempi di altri registi ed è legato ad una lenta, minuziosa ed attenta analisi di tutto quello che deve essere ripreso, anche se apparentemente la vita di Hulot e degli altri villeggianti sembra scorrere nella più assoluta normalità, ma è proprio questa identificazione con la realtà che fa scattare il meccanismo comico della condivisione che provoca la sorridente intelligente e composta partecipazione del pubblico.

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – seconda parte

IL RITORNO DI JACQUES TATI – seconda parte

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“Rido molto di più se sto sulla terrazza del caffè ed ho a disposizione questa finestra aperta sulla strada. Ecco perché ho scelto il grande schermo, che è appunto la finestra…Volevo una finestra; non un piccolo lucernario, una vera, grande finestra…La comicità esiste già fuori di noi. Il problema è saperla cogliere. Credo, perciò, che osservando il mondo che ci sta intorno si possano trovare centinaia di personaggi comici”.
Il giovane Tati, prestante e pieno di energia vitale e creativa, dedica anche molto tempo all’attività sportiva. Pratica varie specialità: il calcio, la boxe, l’equitazione, il tennis, il rugby, conquistando dei buoni successi. Ma anche in questo settore egli non tralascerà di osservare, di annotare, di cogliere tutti quei particolari movimenti, quegli impercettibili e divertentissimi (proprio perché nostri e non riconosciuti) tic e difetti della progenie umana. Se nella sua arte, più propriamente di music-hall e di cabaret, egli adopererà queste annotazioni con grande intelligenza e sapienza nella loro rielaborazione e ripetizione, il massimo obiettivo lo raggiungerà nel cinema nel famoso “gag” della partita a tennis delle “Vacanze di M. Hulot” (1949).
Le prime esperienze artistiche per Tati sono legate ad occasionali momenti di relax nella vita militare, allorquando si diverte ad intrattenere i suoi commilitoni, ricreando la vita, la realtà, gli uomini e le loro storie dinanzi a loro. Poi la sua storia sarà sempre più un susseguirsi di interventi e di presenze nel campo artistico: nel music-hall, nel cabaret, nella rivista, nel cinema. Le sue iniziali apparizioni in quest’ultima arte (quella che a noi interessa in modo specifico) avvengono in sette cortometraggi: cinque prima della guerra e due nell’immediato dopoguerra. Il primo di essi, realizzato pienamente da Tati (sceneggiatura, regia ed interpretazione), risulta estremamente importante per comprendere meglio la provenienza dei personaggi chiave di Tati: Francois il postino perdigiorno e stralunato di “Jour de fete” e Monsieur Hulot, la maschera tipica da lui inventata. Si tratta di “Oscar, champion de tennis” (1932) che, peraltro, rimanda ad una delle sue peculiari predilezioni mimico-sportive cui si accennava prima. Seguono negli anni 1934, “On demande une brute” per la regia di Charles Barrois; 1935, “Gui dimanche” regia di Charles Berr, ambedue sceneggiati da Jacques Tati e scarsamente importanti, anche se contribuiscono in qualche modo alla sua maturazione ed a quella del suo “personaggio”.
Nel 1936 è la volta di un film, la cui regia, affidata a René Clement, risulta decisiva per il successo di pubblico, che invece era mancato alle precedenti “performances”: parliamo di “Soigne ton gauche” che, trattando dell’ambiente sportivo pugilistico permette a Tati di esprimere quella sua capacità mimico-sportiva di cui si parlava prima e di affinare tutte le caratteristiche peculiarità del suo personaggio.
L’ultimo film del periodo anteguerra è “Retour à la terre” (1938) realizzato pienamente da Jacques Tati che pur non apparendo determinante per la sua carriera registra però già la presenza di qualche personaggio ed ambientazione tipica della sua produzione successiva (la campagna, i bambini vocianti, l’ameno postino).

IL RITORNO DI JACQUES TATI – prima parte

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DAL FILM “I MISTERI DEL GIARDINO DI COMPTON HOUSE” (1982) DI Peter Greenaway (richiamo colto per i più curiosi che ne verificheranno il motivo per cui qui vengono inseriti)

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La cinematografia francese nel corso della sua storia non ha annoverato in realtà molti nomi nel genere del “comico”; ma quando li ha avuti questi sono riusciti, con la loro maestria e la loro fama, a varcare i confini sulle terre e sugli oceani: basterebbe accennare a Max Linder, Louis De Funès, Fernandel per dare notizie per l’appunto dei più famosi. Si sarebbe tentati di andare “controcorrente”, considerando invece Jacques Tati un semplice realista, avendo verificato che le azioni dei suoi film sono sempre ispirate tutte alla vita quotidiana, alla normalità più assoluta; si sarebbe tentati anche di non ammetterlo fra i “grandi” perché la sua produzione è molto ridotta rispetto a quella dei suoi compagni; si sarebbe tentati di catalogarlo più come “mimo” o “attore di cabaret” che come “comico cinematografico”. Ma tutte queste tentazioni vanno ovviamente accantonate di fronte alle immagini filmiche, così come è accaduto quest’anno (ndr 1983) in una scuola di Empoli, con gli allievi attenti a seguire i numerosi “gag” del nostro “eroe di tutti i giorni”. La proiezione di “Mon oncle” oltre a divertire con grande razionalità, ha fatto scattare in alcuni allievi – la maggior parte in verità – il desiderio di conoscere qualcosa di più su Jacques Tati.
Sulla storia di Jacques Tati (questo cognome – con l’accento alla francese – ha aiutato indubbiamente alla sua divulgazione più ampia l’arte di Jacques Tatischeff) ci conforta poco la bibliografia ancora abbastanza scarna, ma alcuni particolari, alcune scelte, un certo tipo di impostazione anche tecnica del fare teatro e del fare cinema ce li possono svelare le sue argomentazioni e proprio la sua storia biografica.
Jacque tati nasce a Pecq, nei dintorni di Saint-Germain en Laye (e cioè alla periferia ovest di Parigi) il 9 ottobre del 1907. La sua famiglia era formata dal padre, russo di origine, figlio dell’ambasciatore dello zar e dalla madre francese, figlia di un corniciaio amico di Van Gogh. Dal nonno paterno gli deriveranno una certa tristezza e quei movimenti scarni ed essenziali, il suo sguardo spesso glaciale da Pierrot lunare con cui si presenta davanti al pubblico; quei suoi tratti aristocratici non gli impediranno tuttavia di “rifare” al cinema, in particolare, ed in teatro modi ed abitudini tipici del popolo e della media borghesia.
Suo padre, scegliendo anche lui –come il suocero – il mestiere di corniciaio (con lui lavorerà spesso anche il giovane Jacques), finì con il favorire non poco le future scelte tecniche del grande Tati. L’ “inquadratura” rievoca per l’appunto la “cornice” (la parola inglese “frame” significa alternativamente “fotogramma” o “cornice” ed in francese “cadre” è “quadro” e “cadrage” è “inquadratura”). Leggete ciò che egli dice quanto al suo modo particolare di fare cinema: “Bisogna che siano i miei attori a muoversi, e non la mia macchina da presa a spostarsi…Ho cercato di dare, mediante la fissità del quadro, un’impressione di rilievo…”. Egli scopre che il primo cinema di ognuno di noi è quello fantastico dello sguardo attonito che voglia penetrare al di là di una cornice – sia essa piena, sia essa vuota -, cioè quelle fantasticherie che si fanno davanti alla scena ritratta in un quadro o in una fotografia (e Jacques apprezzerà molto l’opera di Jean Renoir, figlio di Auguste, ed in particolare “Une partie de campagne” che più ampiamente si ispira all’opera pittorica del padre) o affacciandosi a qualsiasi finestra e guardando la vita scorrere, le azioni compiersi, immaginando i dialoghi, gli alterchi, le emozioni ed i sentimenti della gente, il loro rapporto con gli oggetti e con gli altri, tutte questioni essenziali che vengono riprese nel futuro impegno artistico di Tati.

Fine prima parte – continua…

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