IL RITORNO DI JACQUES TATI – quinta ed ultima parte

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quinta ed ultima parte

“Playtime”, il film che segue nella produzione di Tati, è datato 1967: sono passati dieci anni da “Mon oncle” ed alcuni, pensando siano tanti, hanno potuto credere si sia trattato di un inaridirsi della vena creativa, mentre, proprio per quanto si è detto dianzi, non vi è attimo della sua vita che non sia impegnato nel rilevare attentamente gli eventi e quindi questo film è il risultato di una cernita fra tutte le osservazioni compiute in quel lungo periodo.
Lo sguardo di Tati si posa in questa nuova occasione sulla città, dopo la campagna, dopo lo stabilimento balneare, dopo i quartieri periferici borghesi e popolari. La città di “Playtime” è guardata con gli occhi di chi si sente estraneo di fronte alla ormai dilagante tecnologia elettronica, di fronte ai palazzi tutti alti ed uguali fra loro, all’interno di questo universo futuristico in cui ormai si è costretti a vivere incasellati ed irreggimentati senza alcuna speranza. La contraddizione, tra il bisogno di sentimenti e di ideali ed il necessario ricorso ad un mondo innaturale ed asettico viene posta in evidenza con sagacia da Tati nell’atto di M. Hulot che porge alla ragazza americana un mazzolino di fiori di plastica. Raccontare il film risulta fondamentalmente impossibile, nel breve spazio a nostra disposizione; esso è costruito in maniera del tutto antitetica rispetto alle normali tecniche di narrazione: è certo il più moderno ed avanzato (e quindi più difficile da intendersi) dei film di Tati. Anche sul piano del successo, esso ottiene in particolar modo quello della critica, che riconobbe in “Playtime” una geniale intuizione di un altrettanto geniale “artefice”; gli mancò il consenso, pur importantissimo, del pubblico, che sarebbe invece stato necessario a coprire il sostanzioso “deficit” finanziario della produzione.
Il film con il suo “fiasco” non costrinse fortunatamente Tati a rivedere le sue idee, nei rapporti con i produttori, anche se gli comportò un ritardo nella definizione e messa a punto del film seguente, che è “Trafic” (1971), in cui viene presa in esame la società sempre più disumanizzata dalle “macchine”. In effetti, ed è ovvio, Tati rinnega questa realtà e sorride di fronte alla catastrofe apocalittica di numerosi cimiteri di auto, di giganteschi ed inestricabili ingorghi, di dispettosi e fastidiosi guasti. Tutta la storia (si ritorna ad una sequenza di vicende molto usuali) ruota intorno ad una invenzione geniale di M. Hulot, una nuova automobile, che può diventare casa, luogo di lavoro e di vita, ed anche, se si volesse, di morte; è la narrazione per immagini, per gags, di come l’uomo si sia innamorato della macchina ed ormai non riesca a farne a meno. Nel viaggio che si compie verso Amsterdam accadono numerosi contrattempi ed incidenti vari che sollecitano Tati-Hulot a sfrenarsi nelle sue pur sempre composte trovate.
L’ultimo dei film di Tati è “Parade” del 1974. Non vi appare più come Hulot; egli interpreta un ruolo di presentatore e di coordinatore per uno spettacolo di artisti del circo e si chiama M. Loyal. Prodotto per la televisione svedese, “Parade” potrebbe apparire ancora una volta ciò che non è mai un film di Tati: un insieme di vicende, di numeri, di gag senza un filo logico che le colleghi fra di loro. Il ruolo di Jacques Tati è propriamente doppio: accanto al suo lavoro di animatore egli si presenta anche come protagonista con una serie di pantomime, quelle più importanti e decisive per la sua carriera. Ma, ciò che è più importante, da un lato lo spettatore è ripreso nel circo continuamente coinvolto nel meccanismo dello spettacolo sia come individuo che come collettività, dall’altro lo spettatore che è al di qua dello schermo si trova allo stesso tempo coinvolto nella struttura particolare di questo film che consente di poter vivere qualsiasi momento dello spettacolo: dai lavori dietro le quinte al rincorrere, in ogni istante le diverse reazioni dei partecipanti. Il film ha ottenuto nel 1975 il “Grand Prix du Cinéma Francais”.

Jacques Tati è morto. Non credo gli si addica l’immobilità. Soffrirà molto per questo! Ma Jacques Tati non è morto, ognuno di noi è Jacques Tati, la sua umanità è sempre presente: lui indubbiamente è più bravo, perché è tutti noi indistintamente, i suoi personaggi, il suo mito, come per tutti i grandi, non sono morti con lui. Ed ora, buona visione! Scusate se non si può essere più eloquenti dei suoi film!

Sylvain Chomet nel 2010 realizzò un suo importante film basato su una sceneggiatura inedita scritta nel 1956 dal mimo, attore e regista francese Jacques Tati. La figura del protagonista riprende in disegni animati le sembianze di Tati, che aveva scritto quel soggetto nel 1956 per farne un film da interpretare insieme alla figlia.

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