CASE – parte 7

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CASE – parte 7

Da quando ero piccolissimo mia madre di tanto in tanto si recava dai suoi, nell’isola di Procida.
Quando lasciava la casa di via Campana era ossessionata dalla paura che i ladri vi entrassero; in verità anche quando si era in casa lei chiudeva tutto con modalità schizofreniche di certo psicotiche. Poi ho capito le origini di questa mania: a Procida, non so ora, ma ancora quando le ultime volte ci sono stato negli anni Ottanta le porte delle abitazioni non avevano chiusure significative ed a volte rimanevano aperte anche di notte. La casa di Procida era quella dei nonni materni: mio nonno Vincenzo è morto quando avevo poco più di un anno ed il suo ricordo è quello di un gentile signore non molto alto con dei baffoni a spioventi che mi impegnavo a manipolare e tirare quando mi prendeva in braccio. Mia nonna era molto riservata ed è venuta meno quando avevo poco più di dieci anni e di lei ho più ricordi collegati alla incapacità oggettiva di comprendere le nuove tecnologie che allora cominciavano a diffondersi e poi la sua progressiva perdita di memoria.

La casa era una vecchia colonica dalle mura spesse e naturalmente coibentate a calce. Mancavano servizi che già allora sulla terraferma erano essenziali come la luce elettrica e l’acqua corrente e questo mi ha formato ed abituato a non considerare drammatica la loro – anche se provvisoria – mancanza. Era una “bellezza” però altamente suggestiva sapere che il pozzo veniva alimentato dall’acqua piovana, che scendeva dai tetti a cupola tipici del paesaggio “mediterraneo” con la caratteristica scanalatura per recuperare l’acqua ed incanalarla verso il pozzo contenitore, dentro il quale era di norma insediata una biscia allo scopo di mantenere l’acqua pulita dai microorganismi batterici che naturalmente vanno in essa, stagnante, formandosi.

E la bellezza della vita pretecnologica ci permetteva anche di vivere parte della giornata alla luce delle lampade a petrolio: di inverno si cenava presto e poi ci si intratteneva intorno ad un braciere e coperti da caldi plaid a recitare preghiere (le zie erano molto religiose ed il Rosario era una tradizione immancabile) o a raccontare favole a noi più piccoli. La nonna, come dicevo, ma questo accadeva allorquando l’elettricità riuscì ad arrivare fino a via Flavio Gioia, non riusciva a comprendere, e l’età non la aiutava più di tanto, come da un oggetto provenissero una o più voci e si affannava ad osservare chi si nascondesse dietro di questo. Noi nipoti irriverenti la prendevamo in giro.

La casa di via Flavio Gioia aveva una parte che dava su una corte ampia utilizzata sia per stendere i panni che per i nostri giochi di bambini; alla corte si accedeva attraverso un vecchio portone di legno di fronte al quale, prima dei terreni coltivati ai lati dei quali vi erano sentieri a misura di carriola, vi era un’ampia gabbia per polli e galline, e dietro questa vi erano gabbie in legno per i conigli.
L’abitazione, partendo dal suo ingresso principale, consisteva in una piccola ma comoda cucina al cui esterno vi era un forno; a destra dopo essere entrati si accedeva alla sala da pranzo che prendeva luce da un finestrone; dalla sala si poteva uscire sulla corte per un portoncino e dall’interno di essa si accedeva passando sotto una piccola porta direttamente nella cantina, piena di botti ed utensili per la vendemmia.

CASE – parte 7 – continua

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