NOTE LIBERE DOPO LA LETTURA DEL LIBRO DI MICHELE GESUALDI “don LORENZO MILANI – L’esilio di Barbiana” Prato 7 aprile 2017 – quinta parte

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NOTE LIBERE DOPO LA LETTURA DEL LIBRO DI MICHELE GESUALDI “don LORENZO MILANI – L’esilio di Barbiana” Prato 7 aprile 2017 – quinta parte

Allo stesso modo ho trovato straordinariamente ricca di motivazioni la risposta che Nadia ormai ultrasessantenne, affermata analista a Roma, ha voluto stilare nei giorni scorsi.
Non ho rintracciato Nadia, che peraltro non ha raccolto pienamente l’invito di don Lorenzo ma, lo si sente da quel che scrive, ha certamente proseguito ad avvertire l’attualità del pensiero donmilaniano, di cui si ha ancora bisogno soprattutto di fronte ad un arretramento complessivo della coscienza civile e ad una burocratizzazione mortificante dell’intelligenza umana all’interno della scuola italiana.

Sono passati cinquant’anni dall’invio di questa lettera a me, allora studentessa universitaria diciannovenne. Dopo poco don Milani morì. Credo che bisogna considerare le sue parole come una sorta di testamento accorato, infatti abbraccia gli aspetti più importanti della vita. Ancora oggi, rileggendola per l’ennesima volta, sono molto colpita dall’essenzialità e dalla durezza e perentorietà delle sue affermazioni, incredibilmente attuali. Una scrittura chiara, semplice e diretta che non lascia scampo al lettore, impossibile non schierarsi!Per me non è facile scrivere, è stato allora un dono prezioso e inaspettato e nel corso del tempo ho sempre cercato di nascondere che ero io la destinataria, probabilmente troppo grande e ‘pesante’ il dono ricevuto. Ho sempre sentito la responsabilità, però, di testimoniare questi valori nel mondo, con tutti i miei limiti. Allora, nel 1966, partecipai per anni a un’esperienza alternativa laica di quartiere, a Napoli, nel centro storico, di asilo antiautoritario, allora si diceva così, e di preparazione alla terza media per i lavoratori, non esistevano ancora le 150 ore. Io preparavo gli adulti all’esame di terza media, lavoravano con me tante persone: mi limito a nominarne almeno due che in modi diversi dirigevano il centro, Fabrizia Ramondino e Vera Lombardi.
Due affermazioni della lettera mi colpiscono molto anche oggi: la prima, si può amare una classe sociale sola, anzi solo poche decine di persone, umanamente solo questo è possibile… detto da un prete è un’affermazione forte e sicuramente controcorrente, ma bisogna capire la radicalità di questa affermazione: don Milani con la parola ‘amare’ intende dedicarsi totalmente ai ragazzi poveri per un senso elementare di giustizia sociale e questa totalità richiede un donarsi che molti hanno difficoltà a scegliere. Ci sono stati esempi di persone che hanno scelto di insegnare dopo aver letto questa lettera, ne ho testimonianza diretta, ma da molti anni purtroppo la scuola italiana va in un’altra direzione. Allora fui molto colpita da questo discorso, si pensi come don Milani facesse un’affermazione rivoluzionaria non predicando l’amore universale, pur essendo un sacerdote, ma anzi spingeva a una scelta chiara di classe; rifiutava di essere un uomo pubblico al servizio di tutti, come tanti di noi desideravano, ma va sottolineato come, al di là della sua volontà, sia stato una guida per molti e la sua testimonianza, secondo me, resta molto attuale. In questi decenni, ma soprattutto negli ultimi anni, la scuola si è molto allontanata dallo spirito di Barbiana: gli insegnanti sentono di fare un lavoro sottopagato e molto svalutato a livello collettivo, appesantiti da compiti burocratici e riunioni infinite, poche quelle necessarie e utili! La collaborazione tra insegnanti e genitori è pressoché inesistente perché ognuno vede nell’altro una controparte da cui difendersi. Un fenomeno allarmante che allontana anni-luce la scuola dallo spirito di don Milani è secondo me quello di non sapere più vedere lo studente, bambino o adolescente che sia, nella sua interezza. Si tende infatti a spezzettare la personalità dello studente in tante separate prestazioni che vanno misurate dallo psicologo con test che devono certificare – o meglio etichettare un deficit. Così è un fiorire di definizioni o di sindromi: disgrafico, iperattivo e così via. Dimenticate tutte le lotte degli anni ’70 contro la scientificità dei test che misuravano il Q.I., oggi la verifica è invece il verbo dominante, dalle prove Invalsi alla misurazione del merito degli insegnanti, base dell’ultima riforma della scuola. Ma chi e come si misura il merito? Quando parlo con i miei pazienti adolescenti resto sbalordita dal loro linguaggio riguardante la scuola, le parole ricorrenti sono solo ‘verifica’, compiti corretti con punteggi matematici, anche con decimali, perché le prove scritte vanno valutate con griglie che non tengono conto della gravità o meno degli errori, un errore un punto in meno… e gli studenti molto spesso sono rassegnati… non sanno nemmeno immaginare un’alternativa!
Don Milani individuava nel tempo pieno uno strumento essenziale per cercare di colmare la differenza tra ricchi e poveri, quindi un tempo pieno inteso non come parcheggio passivo, ma con tante attività creative. Nella lettera egli sottolinea con molta forza “i poveri non hanno bisogno dei signori. I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere quando sapranno scrivere”. Queste affermazioni mi sono venute in mente molte volte quando parlavo con giovani totalmente demotivati a studiare o con insegnanti avviliti e senza passione. Sono scandalose oggi queste affermazioni? Per molti sicuramente sì, troppo crude e semplici, senza riferimenti culturali o espressioni in inglese, molto chic nei nostri tempi, nei quali le parole chiare sono state sostituite con parole più oscure: un solo esempio, la parola licenziamento sostituita da dismissione con il tentativo di occultare la realtà. Sappiamo come le lettere pubbliche ai cappellani militari e ai giudici fossero delle esperienze per insegnare ai suoi ragazzi l’importanza di testimoniare che l’obbedienza non è una virtù. Tanti oggi, di ogni età, dovrebbero ricordarselo ogni giorno.
Sull’impegno politico don Milani è perentorio e conciso, dare solo il voto ai partiti di sinistra, “li hanno appestati”, detto nel 1966 fa molto effetto oggi!
L’ultima parte della lettera è molto toccante e profonda e anche qui non viene scelta una via intellettuale: ci sono affermazioni forti come smettere di leggere e studiare e invece fare scuola, avverto un’ansia del tempo, una radicalità nelle scelte commovente, pagata a caro prezzo a livello personale perché spesso dimentichiamo che don Milani era e voleva essere a tutti i costi un sacerdote, mandato in punizione dopo la messa all’indice del suo libro Esperienze pastorali, in questo piccolissimo paese del Mugello, Barbiana, per essere messo nell’impossibilità di ‘nuocere’… e noi dopo 50 anni vogliamo parlarne ancora!
Allora veniva molto seguito un altro prete toscano, Ernesto Balducci, nelle sue conferenze parlava di cristianesimo e marxismo e riceveva molta attenzione. Ma si era su un piano chiaramente intellettuale; don Milani invece nella lettera esprime una fede autentica, priva di orpelli, una fede solida che arriverà in vita o dopo la morte se intanto ci dedichiamo a fare scuola ai poveri. È bella l’espressione usata ‘Dio come premio’, perché egli era convinto che per impegnarsi seriamente fosse necessaria una fede sicura; a me queste parole evocano i versi 65-68 di Isaia che molti anni dopo hanno profondamente attraversato la mia vita: “Mi feci ricercare da chi non mi interrogava, mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi: “eccomi, eccomi” a gente che non invocava il mio nome”.
Mi sono limitata a commentare questa lettera, tutti sanno l’effetto dirompente che ebbe la pubblicazione di Lettera ad una professoressa nei movimenti studenteschi e nel mondo della scuola e sono convinta che oggi farebbe bene rileggerla.
Nelle parole di don Milani si avverte forte una preghiera intensa del fare, esiste anche una preghiera dell’essere e credo che queste due dimensioni in lui coincidano.

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