CAPORETTO 1917 – 2017 – Gabriele D’Annunzio

CAPORETTO 1917 – 2017 – Gabriele D’Annunzio

Alle origini della “ritirata” da Caporetto vi furono moltissimi episodi che caratterizzeranno la vita militare nella sua crudezza, acuita dalla profonda insensibilità oltre che impreparazione da parte delle alte gerarchie politiche e militari di quel tempo.
A dire il vero, troppe volte quella impreparazione ed insensibilità, scarsa “cultura”, è stato aspetto costante in quegli ambienti; è la “violenza” in sè e per sè che genera simili aberrazioni.

Nel ricordare ancora una volta “Caporetto” a cento anni da quell’evento ecco la testimonianza eccellente di Gabriele D’Annunzio.

Tra il 15 ed il 16 luglio 1917 c’è uno dei fatti più gravi relativi alla repressione di alcuni ammutinamenti, che precedono la ritirata di Caporetto.

Joshua Madalon

Gabriele D’Annunzio scrisse in proposito:
Dissanguata da troppi combattimenti, consunta in troppe trincee, stremata di forze, non restaurata dal troppo breve riposo, costretta a ritornare nella linea del fuoco, già sovversa dai sobillatori come quel battaglione della Quota 28 che aveva gridato di non voler più essere spinto al macello, l’eroica Brigata “Catanzaro” una notte, a Santa Maria la Longa, presso il mio campo d’aviazione si ammutinò. (…) La sedizione fu doma con le bocche delle armi corazzate. Il fragore sinistro dei carri d’acciaio nella notte e nel mattino lacerava il cuore del Friuli carico di presagi. Una parola spaventevole correva coi mulinelli di polvere, arrossava la carrareccia, per la via battuta: “La decimazione! La decimazione!”. L’imminenza del castigo incrudeliva l’arsura (…) Di schiena al muro grigio furono messi i fanti condannati alla fucilazione, tratti a sorte nel mucchio dei sediziosi. Ce n’erano della Campania e della Puglia, di Calabria e di Sicilia: quasi tutti di bassa statura, scarni, bruni, adusti come i mietitori delle belle messi ov’erano nati. Il resto dei corpi nei poveri panni grigi pareva confondersi con la calcina, quasi intridersi con la calcina come i ciottoli. E da quello scoloramento e agguagliamento dei corpi mi pareva l’umanità dei volti farsi più espressiva, quasi più avvicinarmisi, per non so qual rilievo terribile che quasi mi ferisse con gli spigoli dell’osso. I fucilieri del drappello allineati attendevano il comando, tenendo gli occhi bassi, fissando i piedi degli infelici, fissando le grosse scarpe deformi che s’appigliavano al terreno come radici maestre. Io traversavo il muro col mio penoso occhio di linee; e scoprivo i seppellitori anch’essi allineati dall’altra parte con le vanghe e con le zappe pronti a scavare la fossa vasta e profonda. Non mi facevano male come gli sguardi dei condannati alla fossa. I morituri mi guardavano. I loro sguardi smarriti non più erravano ma si fermavano su me che dovevo essere pallido come se la vita mi avesse abbandonato prima di abbandonarli. Gli orecchi mi sibilavano come nell’inizio della vertigine, ma era il ronzio delle mosche immonde.
Siete innocenti?
Forse trasognavo. Forse la voce non passò la chiostra de’ miei denti. Ma perché allora il silenzio divenne più spaventoso, e tutte le facce umane apparvero più esangui? E perché l’afa del mattino d’estate s’approssimò e s’appesantì come se il cielo della Campania e il cielo della Puglia e il cielo della Calabria e il cielo di Sicilia precipitassero in quell’ardore fermo e bianco?
Siete innocenti? Siete traditi dalla sorte della decimazione? Si, vedo. La figura eroica del vostro reggimento è riscolpita nella vostra angoscia muta, nell‘osso delle vostre facce che hanno il colore del vostro grano, di quel grano grosso che si chiama grano del miracolo, o contadini. Siete contadini. Vi conosco alle mani. Vi conosco al modo di tenere i piedi in terra. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti. La legione tebana, la sacra legione tebana, fu decimata due volte. Espiate voi la colpa? O espiate la Patria contaminata, la stessa vostra gloria contaminata? Ci fu una volta un re che non decimava i suoi secondo il costume romano ma faceva uccidere tutti quelli che nella statura non arrivassero all’elsa della sua grande spada. Di mezza statura voi siete, uomini di aratro, uomini di falce. Ma che importa? Tutti non dobbiamo oggi arrivare con l’animo all’elsa della spada d’Italia? Il Dio d’Italia vi riarma, e vi guarda. I fanti avevano discostato dal muro le schiene. Tenevano tuttora i piedi piantati nella zolla ma le ginocchia flesse come sul punto di entrare nelle impronte delle calcagna. E, con una passione che curvava anche me verso terra, vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi. (…) Le armi brillarono. (…) M’appressai. Attonito riconobbi le foglie dell’acanto (…). Recisi i gambi col mio pugnale. Raccolsi il fascio. Tornai verso gli uomini morti che con le bocche prone affidavano al cuor della terra il sospiro interrotto dagli uomini vivi. E tolsi le frasche ignobili di sul frantume sanguinoso. Chino, lo ricopersi con l’acanto.
Gabriele D’Annunzio

gabriele_dannunzio

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