“PACE E DIRITTI UMANI” un intervento di Giuseppe Panella in suo ricordo tredicesima parte (per 12a vedi 6 maggio)

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“PACE E DIRITTI UMANI” un intervento di Giuseppe Panella in suo ricordo tredicesima parte (per 12a vedi 6 maggio)

PACE E DIRITTI UMANI

XIII

Qual è dunque l’origine di questa contraddizione?
“E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel più segreto dei loro animi, parte che più d’ogni altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno, fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.”
“E” – conclude Beccaria – “se mi si opponesse al fatto appunto che io credo improponibile una legislazione che contenga la pena di morte con l’uso e la consuetudine, cioè il fatto che essa si pratica a partire dalla caduta dell’impero Romano,” (voi sapete che la pena di morte era qualcosa che deve la propria instaurazione a partire dalle invasioni barbariche perché era molto, molto poco comminata sia all’epoca del trionfo della cultura greca sia nell’Impero Romano dove la pena di morte non era cosa che venisse data a cuor leggero) e “se qualcuno mi contrapponesse questa verità storica, il fatto al punto che quasi tutti i secoli e quasi tutte le nazioni hanno praticato la pena di morte, appunto risponderei che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago, un immenso mare di errori, fra i quali poche e confuse e a grandi intervalli distanti verità sopra emergono. Gli umani sacrifici furono comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusarli? Che alcune poche società e per poco tempo solamente si siano astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole e contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini”, ed infatti la Costituzione e la riforma del codice criminale di Pietro Leopoldo attuata in Toscana non viene recepita completamente neppure in Austria o in altre nazioni che riformano pur profondamente il codice penale. Non solo ma dopo la Rivoluzione francese, dopo l’epoca napoleonica, dopo il passaggio della Toscana da Granducato a Regno d’Etruria e quindi il ritorno al Granducato di Toscana, la pena di morte viene introdotta di nuovo nel Granducato di Toscana. Voglio dire, purtroppo, la legislazione riformatrice di Pietro Leopoldo viene disattesa dopo la bufera rivoluzionaria e l’impero napoleonico. Ma quello che resta però e resta come acquisito – e questo è poi il grande merito del Codice Leopoldino, nonostante la pena di morte continuasse ad essere comminata come pena, è l’dea fondamentale della necessità della giustezza e della certezza del diritto e l’idea che la legislazione penale non può essere affidata all’arbitrio di alcuno, ma deve essere regolamentata e trasformata in qualcosa che venga recepita come patrimonio comune, non solo ma che tutti gli atti di arbitrio e di violenza sugli altri soggetti alla legislazione criminale come la tortura, la confisca dei beni, la detenzione immotivata o eccessivamente prolungata, tutte quelle forme di arbitrio che contraddistinguevano la legislazione penale prima del Codice Leopoldino, non siano più ammissibili. E se la pena di morte viene reintrodotta non vengono più reintrodotte la carcerazione prolungata o arbitraria, e quindi l’obiettivo del codice, anche se viene mancato per quanto riguarda la pena di morte, viene colto completamente per quanto riguarda gli altri suoi articoli e questo merito, sia merito di Pietro Leopoldo che merito dei suoi ministri illuministi o illuminati che recepiscono la proposta di Beccaria è merito appunto di questo libro che scuote le coscienze d’Europa ed in certa misura porta un grande sommovimento e come tale viene vista come opera sovversiva e distruttrice dei costumi, ma se a noi per via di questo passato che non è trascorso invano ma che è ancora nel presente, fa sentire una voce forse fievole forse timida, forse troppo poco marcata, è proprio questo passato che permette a noi oggi di dirci cittadini e membri di una Nazione, di uno Stato, di una Regione maggiormente civile. Grazie.

Termina qui l’intervento di Giuseppe Panella. Il dibattito prosegue…..
…XIII….

Panella (5)
Pace e diritti umani

La scuola al tempo del governo Berlusconi (vedi 30 aprile 2020 per prima parte)

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La scuola al tempo del governo Berlusconi (vedi 30 aprile 2020 per prima parte)

– Un mio intervento sui temi della scuola 1994 (ero responsabile della Commissione Scuola e Cultura del PDS a Prato) – seconda parte
E’ un tempo questo, di cui tratto nell’intervento, in cui è in atto una vera e propria trasformazione del quadro politico nazionale –abbiamo governi “quadripartiti” (Giuliano Amato dal 28 giugno 92 al 29 aprile 93) e di unità nazionale (Carlo Azeglio Ciampi 29 aprile 93 – 11 maggio 1994) seguito dal primo Governo Berlusconi che durerà 9 mesi fino al 17 gennaio 1995

Un mese fa, poi, dinanzi ad una serie di proposte di disegni di legge (Lega Nord – PDS –PPI) sullo stesso tema ma con visioni, anche se non in modo molto accentuato, diversificate, in Commissione al Senato si è arrivati alla decisione di far accompagnare il decreto da un disegno di legge che fa propri alcuni passaggi dei diversi disegni di legge presentati dalle forza politiche.
Qualche giorno fa, poi il Ministero ha inviato alle scuole una “ordinanza” che regola, in attesa dell’approvazione del disegno di legge, tutta la materia per l’anno scolastico in corso. Notevoli saranno i problemi organizzativi, a partire dalla necessità di stipulare convenzioni con gli Enti locali per l’accesso alle mense e con le ditte di trasporti per consentire agli allievi rientri articolati; per andare poi alle questioni relative all’orario da organizzare, sia di mattina che di pomeriggio, in quanto una parte delle ore a disposizione di mattina potrebbero essere utilizzate di pomeriggio, e nella strutturazione degli orari pomeridiani occorrerà tener conto degli allievi che non avranno da recuperare tutti le stesse materie e lo stesso numero di materie. Viene inoltre meno anche il progetto di eliminare le lezioni private, in quanto c’è sempre la possibilità di ricorrere, per evitare i disagi di cui sopra, ad esse. Un’ulteriore “spada di Damocle” pende sulla testa degli allievi: infatti in quasi tutte le scuole l’ora di lezione attualmente è di 50 minuti. Sembra che per risparmiare si vogliano utilizzare i minuti, che il docente praticamente risparmia, per i corsi di recupero. Con il risultato quasi certo che, poiché la scelta di portare l’ora di lezione a 50 minuti è stata ritenuta praticamente “necessaria”, i docenti chiederanno, piuttosto che essere impiegati gratuitamente nei corsi di recupero, di ricondurre l’ora di lezione a 60 minuti. Cosa accadrà? Gli allievi finiranno spesso le lezioni antimeridiane intorno alle 15.00 e, se necessario, frequenteranno corsi di recupero fino alle 18.00; senza parlare dei corsi serali che potrebbero andare anche oltre le 24.00. per ora questa ipotesi è solo ventilata, ma non è impossibile che venga concretizzata!
Nella proposta di abolizione degli esami di riparazione e di sostituzione dei corsi integrativi non si tiene inoltre conto della situazione scolastica di vaste aree del Paese con aule e strutture fatiscenti e con doppi e tripli turni: insomma, come al solito, si parte dalla vetta senza aver costruito le basi!

Passiamo al secondo punto, quello relativo agli esami di maturità
b) Quanto agli esami di maturità, non si tratta per adesso di una loro “riforma”. C’è soltanto un articolo della Finanziaria che prevede per questo anno scolastico la nomina di Presidenti e Commissari a livello strettamente locale, stabilendone diarie ed indennità di missione. Non c’è nulla che riguardi lo svolgimento tecnico dell’Esame, per cui sotto questo aspetto sarà più o meno come negli ultimi venticinque anni. Su questo, se c’è da protestare, è proprio per l’assenza di una vera e propria proposta di Riforma.

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UN MIO AMPIO INTERVENTO ALLA COMMISSIONE CULTURA DEL PDS DI PRATO 20 OTTOBRE 1995 – terza parte (vedi 3 maggio)

Prato

UN MIO AMPIO INTERVENTO ALLA COMMISSIONE CULTURA DEL PDS DI PRATO 20 OTTOBRE 1995 – terza parte (vedi 3 maggio)

20 OTTOBRE 1995 (nell’aprile del 1995 ero entrato a far parte del Consiglio Comunale di Prato ed ero membro della Commissione Cultura e coordinatore della Commissione Scuola e Cultura del PDS provinciale; la legislatura in corso era la prima con la quale applicavamo la legge 142. 8 giugno 1990, quella intitolata Ordinamento delle autonomie locali che rivedeva nel profondo le prerogative del Consiglio e del Sindaco).

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La nostra città ha vissuto negli ultimi quindici anni una serie di mutamenti, messi in evidenza peraltro da alcune indagini scientifiche, quali quella dell’IRIS per il nuovo PRG. Scorrendo quelle pagine, tuttavia, la sensazione è che il punto di riferimento degli studiosi che le hanno redatte sia stato, in primo luogo ed in maniera preponderante, l’imprenditoria pratese nel suo complesso, con qualche accenno numerico alle altre componenti sociali. Io non dispongo di altri dati scientifici ma, per motivi professionali e politici, es essendo un immigrato interno, arrivato a Prato solo alla fine del 1982, ho cercato di essere particolarmente attento a quelle trasformazioni sociali ed ambientali che si possono toccare e vedere direttamente, che si avvertono, che si annusano, si sentono. In questi anni, di fronte ad un processo produttivo dell’industria pratese che ha avuto un notevole sviluppo qualitativo, c’è stato un fortissimo calo del livello culturale generale, misurabile sulla base dei dati che si riferiscono alla bassissima percentuale di laureati ed allo stesso tempo di una elevatissima percentuale di abbandoni scolastici nel post-obbligo, dati che assumono rilevanza notevole nella periferia.
Grande attenzione andrebbe dunque rivolta alle zone periferiche, che appaiono sempre più come quartieri-dormitorio, mentre il centro non riesce nel contempo ad assolvere pienamente, ed anche giustamente perché lì risiedono molte delle principali strutture culturali della città, ad una sua funzione propulsiva e propositiva di carattere positivo sul piano della Cultura.
Molto spesso sono stato invitato negli ultimi anni a guardare in particolare a ciò che in questa città funzionava, a quello che di buono c’era, senza soffermarmi troppo sugli aspetti “negativi”.
Non sono uno stupido, posso anche capire da solo che Prato è, rispetto a tante altre città, molto più avanti; ma il nostro obiettivo, compagne e compagni, almeno fra di noi diciamocelo, è quello di portarla ancora più avanti e, per poterlo fare non possiamo migliorare soltanto ciò che funziona, ma dobbiamo guardare a ciò che funziona, ma dobbiamo guardare a ciò che “non” funziona, anche per un motivo, che è poi molto vicino a quello che enunciavo pocanzi che a Prato da alcuni anni in qua se un miglioramento c’è stato esso è collegato alle alte tecnologie, alla media e grande produzione, all’imprenditoria privata da quella artigiana a quella industriale, ma per gran parte dei ceti medi le difficoltà sono aumentate e nel settore culturale in generale si è speso da parte di tutti sempre meno e sempre peggio. Occorre affermare proprio in riferimento a ciò che appare fuori luogo un certo tipo di lavoro sull’immagine di Prato fatto esclusivamente di luccichii, perché tenderebbe a fornire di essa solo l’aspetto positivo, portando anche molti di noi al convincimento dell’assenza di questioni problematiche che invece continuerebbero a nostro dispetto ad esistere e non troverebbero facile riconoscimento.

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I CONTI NON TORNANO sesta parte (vedi 29 aprile per parte quinta)

I CONTI NON TORNANO sesta parte (vedi 29 aprile per parte quinta)

Intorno alla struttura metanarrativa ci sono molte documentazioni. In realtà, troppe volte quel che appare logico e razionale finisce per non esserlo per tutti. C’è un modo soggettivo di interpretare la realtà e non sempre i problemi possono essere affrontati accontentando tutte le posizioni. Guardando con mente fredda e lontana da quelle vicende (sono trascorsi poco più di venti anni da allora), quel che emerge è che non vennero rispettate le prescrizioni della legge sul dimensionamento da parte di chi privilegiò le “legittime” aspirazioni (ciò che è “legittimo” non sempre è “giusto”!) del Liceo “Copernico” che ormai già allora superava di un bel po’ il massimo di iscritti consentito (tra l’altro quella scuola non ha mai, fino a pochi anni fa, rispettato quei parametri, facendo diventare anche quello spazio del tutto insufficiente per il mantenimento di una offerta formativa di livello medio-alto); allo stesso tempo non venne presa in considerazione la necessità di mantenere il livello di qualità didattica e di offerta formativa del “Dagomari”, soprattutto in relazione alla incongruità degli spazi proposti in alternativa, cioè quelli dell’Istituto per Geometri “Gramsci”; si aggiunga che vennero fornite previsioni rispetto al numero degli allievi che facevano pensare ad una decrescita: erano volutamente sbagliate e la cosa fu più volte denunciata; si trattava di un “fake” costruito a bella posta per garantire che, anche se in uno spazio ridotto, il “Dagomari” avrebbe potuto esprimere le potenzialità formative migliori.
Nella parte qui sotto riportata (l’introduzione) si parla di un’indagine statistica (è quella di cui scrivo io qui sopra): si aggiunga che ci si riferisce alle quote piccole relative al bacino di utenza, riferite alle due Province di Firenze e Pistoia. Ebbene, la maggior parte di quelle presenze affluivano al Dagomari per comodità logistica: alla Stazione Centrale proprio davanti alla sede dello storico Istituto Commerciale di viale Borgovalsugana arrivavano da Pistoia con il treno e dal Mugello con le corriere tantissimi studenti (agli “studiosi” pagati con soldi pubblici per valutare le reali condizioni questi dati “evidentemente” non furono forniti o – forse – non furono da essi tenuti in considerazione).
Il primo documento (non utilizzerò criterio cronologico) è del Preside del Copernico di allora, il prof. Enio Lucherini. Come amico di allora, e di ora, ritengo che portasse in evidenza con assoluta onestà e coerenza la posizione di parte: intendo dire che furono le scelte politiche ed amministrative a porci in contrapposizione in quel tempo.

Dovendo ridurre, eliminerò alcune parti; riporterò in corsivo le parti ufficiali.

Il Liceo Scientifico N. Copernico è insediato nel territorio pratese dal 1968, e da subito in debito di una sistemazione immobiliare adeguata alla sua attività, è stato oggetto del piano di riorganizzazione e ottimizzazione, così come tutti e dieci gli altri Istituti.
Al tavolo di lavoro messo in piedi per questa finalità hanno partecipato tutti i Presidi ….. compresa la Preside del Dagomari…..Era presente altresì il Provveditore….Presiedeva l’Assessore alla Pubblica Istruzione della Provincia di Prato. Il lavoro della Commissione era stato preceduto da due indagini preliminari: una statistica sul bacino di utenza delle singole scuole pratesi ed una architettonica sulla capienza e funzionalità dei singoli edifici scolastici di proprietà della Provincia.
Dal primo documento si evinceva che tutti gli Istituti hanno un bacino di utenza che raccoglie iscritti nell’ambito dell’intera Provincia di Prato e, per quote piccole, anche di altre Province (Firenze e Pistoia).
Dal secondo documento fatto elaborare dalla Provincia si evinceva che il contenitore scolastico attualmente in uso all’Ist. Dagomari è…a causa del numero degli iscritti, sottoutilizzato…..

Nel prossimo post, porterò i dati per contestare tale elaborazione in tutto e per tutto, tanto che – a rileggere quei dati ora dopo venti anni – c’è un ragionevole dubbio sulle capacità professionali di quei tecnici, a meno che – male informati – abbiano commesso un errore veniale, non peritandosi di verificare sul terreno diretto quei dati.

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CINEMA – una storia minima – quarta parte

CINEMA – una storia minima – quarta parte

Dopo le prime prove, molto spesso di carattere volontariamente o involontariamente sperimentali, il Cinema subisce un periodo di crisi, di disaffezione da parte del pubblico. Bisogna dire che questo era formato quasi esclusivamente da persone che appartenevano ad un ceto medio alto (gli stessi ambienti descritti nel cinema “documentario narrativo” provenivano da quel blocco cetuale) e le proiezioni erano infatti programmate in spazi medio piccoli come sale da conferenza attigue ad alberghi di lusso, dove si svolgevano convegni professionali.

Il cinema era ancora un fenomeno che poteva rimanere semplicemente un diversivo, più o meno come quello che caratterizzava le riunioni di famiglia allargate ad amiche ed amici per rivedere le foto (o i filmini) delle vacanze o del matrimonio o del viaggio di nozze. Più o meno accadeva la stessa cosa all’inizio della storia del cinema: qualcuno dei proponenti si impegnava a spiegare cosa rappresentassero quelle scene.

In questa fase non si può parlare ancora di “industria”, ma nella prima parte del secolo nuovo sia negli Stati Uniti che in Francia si fecero strada alcuni imprenditori come Mayer e Gaumont che decisero di allargare gli spazi a disposizione del pubblico ed abbassare il prezzo per la fruizione popolare. Per avvicinarsi al popolo occorreva tuttavia che fosse più semplice per tutti la comprensione delle storie narrate e che si rifacessero a temi attrattivi.

Ecco dunque che negli Stati Uniti si affaccia una delle figure che trasformerà decisamente la concezione dell’arte cinematografica, apportando delle sostanziali modifiche,caratteristicamente – oggi diremmo – “americane”. Si tratta di David Wark Griffith che dopo una iniziale esperienza di attore ed una di regista iniziata nel 1908 con “The Adventures of Dollie”, un filmetto nel quale egli mise in evidenza le sue qualità narrative di tipo letterario (avido lettore si impadronisce in modo efficace della costruzione narrativa e la trasporta nell’arte cinematografica).

Ma anche Griffith all’inizio realizza esclusivamente film corti, fin quando non arriva dall’Europa ed in particolar modo dall’Italia la proposta di impostare grandi narrazioni colossali che propongano l’amor di patria e il riferimento ai grandi valori religiosi.

E’ questo in primo luogo il caso di “Cabiria” di Giovanni Pastrone del 1914; ma lo stesso regista aveva dato grande prova di sè in opere come “Giulio Cesare”, “Giordano Bruno”, “La caduta di Troia” dal 1908 al 1910.

Nel 1911 Bertolini, Padovan e De Liguoro girano “L’Inferno” mentre tante altre figure eccezionali si aggirano tra Torino, Roma e Milano, grandi personalità della Cultura che si appassionano a questa nuova forma d’arte. A questo punto è del tutto evidente che si parli di una vera e propria industria ricca di personaggi che girano intorno all’arte cinematografica: uno di questi è Gabriele D’Annunzio che scrive i testi per “Cabiria”. Ma ci sono anche registi come Mario Caserini che nel 1913 gira “Gli ultimi giorni di Pompei” e Enrico Guazzoni che sempre in quell’anno realizza “Quo vadis?”.

E’ a costoro che dunque si ispira l’americano Griffith quando, dopo aver girato un primo lungometraggio biblico nel 1914 (“Judith of Bethulia”) si lancia nell’epopea de “La nascita di una nazione” del 1915 e subito dopo in “Intolerance” (1916) dove mette in mostra la costruzione di storie parallele in tempi molto lontani tra loro, trattando un tema, l’intolleranza, purtroppo sempre attuale.

da giovane: la sensibilità ambientalista, storica e culturale….quella politica e cinematografica – ottava parte – 13

Cineclub

da giovane: la sensibilità ambientalista, storica e culturale….quella politica e cinematografica – ottava parte – 13 (vedi post 26 aprile 2020)

un mio intervento sulla rivista “SegnoCinema” riservato al Cineclub Spazio Uno di Firenze

Che sia proprio questa vicenda, uno dei sintomi della generale crisi del cinema e del cineclub, nessuno potrebbe sospettarlo, pur tuttavia appare, a conoscerlo bene, coe un esempio di miopia politica estremamente pericolosa per il futuro, già di per sè poco roseo, del cinema come espressione culturale libera. Si può parlare, dunque, di crisi di Spaziouno anche in maniera profonda. Senza Vannini, la struttura non è più la stessa. In questi dieci anni di attività questo cineclub aveva aperto un rapporto significativo con il pubblico, formato in gran parte da pendolari, studenti fuori sede, stranieri residenti, turisti ed, in minima parte, dagli stessi cittadini di Firenze. Ogni Rassegna aveva una sua scientifica completezza ed i film, anche se a prima vista potevano sembrare eterogenei, erano selezionati in maniera da offrire un quadro ampio ed ottimamente articolato della materia in esame. Le proiezioni, che qualche volta iniziavano già nella tarda mattinata, erano programmate dal pomeriggio con film diversi fino a tarda notte. I film più interessanti o più richiesti venivano replicati in giornate diverse. La programmazione prefestiva e festiva teneva conto di un pubblico diverso, più interessato allo spettacolo di qualità che alla qualità senza spettacolo. Le rassegne erano quasi sempre accompagnate da incontri con critici, autori ed operatori tecnici dell’arte cinematografica.
A lavorare sul programma c’è, per scelta del gruppo che costituisce sin dall’inizio il cineclub, Andrea Vannini, mentre Giovanni M. Rossi e Ranieri Polese solo in un primo periodo cureranno l’organizzazione dell’informazione. In generale intorno a Spaziouno c’è anche l’interesse di larga parte della cultura cinematografica fiorentina: il Gruppo Toscano del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, il Festival dei Popoli e l’Istituto di Storia del Cinema dell’Università di Magistero (prof. Pio Baldelli). Contemporaneamente, a partire dal 1980, nasce “Cultmovie”, una rivista monografica che accompagna idealmente alcune interessanti Rassegne: Hitchcock, Welles, Ray-Wenders, il Neorealismo, Fassbinder, ma non solo. Con il binomi Spaziouno- Vannini chiude anche la rivista, anche se nelle intenzioni del suo ideatore e direttore c’è l’impegno a proseguire in quest’ esperienza: immaginiamo con difficoltà centuplicate e ci auguriamo tuttavia con plausibili chances.
Noi, in fondo, non ci sentiamo di essere dei “vanniniani” ad ogni costo, ma non ci è chiara la nuova proposta del gruppo dirigente del Circolo Enel, allorquando dice genericamente: “La direzione della programmazione non dovrà più far capo a una sola persona ma avvalersi del contributo di esperienze e di professionalità di più istanze presenti nella città (Università, Mediateca, SNCCI gruppo toscano, ecc…). A prima vista interessante, questo tentativo di coinvolgere tutti appare, ad un maggior approfondimento, molto pericoloso, perché rischia di far sorgere conflitti di competenza, gelosie ed appetiti vari che non hanno mai permesso a sigle così diverse, ma affini per materia, di comparire insieme senza problemi nell’organizzazione di convegni e rassegne.
Infine, non possiamo che augurarci che Spaziouno viva e, visto che quasi certamente non riprenderà il rapporto con Vannini (il quale ha intanto fondato una Cooperativa, la Bottega del Cinema), che riprenda, evitando di orientarsi in particolare verso una gestione di tipo volontario o prevalentemente politico, quel ruolo e quell’importanza che esso ha avuto nella cultura cinematografica e nazionale negli ultimi anni.

…VIII….13….

“PACE E DIRITTI UMANI” un intervento di Giuseppe Panella in suo ricordo dodicesima parte

No alla pena di morte

PACE E DIRITTI UMANI – dodicesima parte
(vedi post 25 aprile per undicesima parte)

…se invece fosse morto impaurito spaventato trascinato a forza, avrebbe dato l’idea di un vigliacco e quindi avrebbe perso la sua aureola ed, infatti, l’attore, il gangster irlandese in omaggio alla vecchia amicizia con il prete si fa trascinare, muore in maniera molto vile, fa forza a se stesso che avrebbe voluto morire spavaldamente ma lo fa appunto proprio per evitare che il suo esempio venga assunto da altri delinquenti e per altre carriere delinquenziali.
Il comportamento eroico sul patibolo è frequente soprattutto all’epoca dei supplizi pubblici ed è secondo Beccaria giustamente negativo, perché invece di invitare al timore nei confronti della pena in realtà lo rende quasi un atto di valore, un atto di sfida nei confronti della società costituita.

L’animo nostro resiste più alla violenza ed agli estremi ma passaggeri dolori, che al tempo ed alla incessante noja: perchè egli può, per dir così, condensar tutto se stesso per un momento, per respinger i primi; ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi.

Cioè gli uomini soffrono maggiormente della noia e della incapacità di impiegare il proprio tempo piuttosto che di dolori o di sofferenze che possono essere rapidi e condensati. Con la pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto.

Nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi. E se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti; dunque perché questo supplizio sia utile, bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, ciò che sia utile, e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò, che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà forse anche di più: ma questi sono sparsi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento. Ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede, che chi la soffre: perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici; ed il secondo è dalla infelicità del momento presente, distratto dalla futura, tutti i mali si ingrandiscono nell’immaginazione e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.”

Ora per motivi di lunghezza e per impedire che voi siate sottoposti al pesante arbitrio della noia, io mi avvio verso la conclusione.

Avvio alla conclusione leggendo un ultimo passo di Beccaria e commentandolo.
C’è un’altra cosa che Beccaria dice, che se effettivamente la pena di morte fosse una cosa che ciascuno di noi accetta, se ci fosse qualcosa che veramente noi giudichiamo giusta, perché tanto discredito sul boia, quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte leggiamoli negli atti di indignazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che pure è un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al bene pubblico, lo strumento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori.

…XII….

NULLA SARA’ COME PRIMA SOLO SE CAMBIERANNO I MODELLI DI SVILUPPO E DI CONTRASTO ALLE INGIUSTIZIE

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NULLA SARA’ COME PRIMA SOLO SE CAMBIERANNO I MODELLI DI SVILUPPO E DI CONTRASTO ALLE INGIUSTIZIE

Lo spirito caritatevole funziona in una società nella quale molti di noi avvertono il profondo senso di colpa, da addebitare ad una nostra incapacità a modificare lo stato delle cose in relazione al mercato del lavoro, inquinato profondamente da comportamenti criminosi da parte di fin troppi tollerati datori di lavoro e professionisti.
Abbiamo detto in tanti che questa pandemia, evento straordinariamente drammatico, avrebbe potuto portare ad un cambiamento epocale in meglio (ma anche in peggio). Tutto però dipende da ciascuno di noi. Molti anche in queste ultime giornate, nelle quali si aprono spiragli di luce per un possibile allentamento della morsa pandemica, vanno affermando linee di principio verso una riforma del modello di sviluppo e di contrasto molto più stringente ed efficace alle ingiustizie sociali.
Potrebbe essere, questa, un’ottima occasione per avviare una più rigorosa riforma del merccato del lavoro, all’interno della quale inserire regole più stringenti. Leggo dati drammatici dai quali si rileva che “prima della pandemia erano 23,5 milioni gli italiani con un posto di lavoro, anche saltuario….dall’inizio della pandemia…circa 11,2 milioni di lavoratori sono stati costretti a far ricorso a un sussidio pubblico”.*
Vuol dire che 11,2 milioni di lavoratori o aveva un reddito bassissimo (a fronte di contratti legali ma “immorali”) oppure ha perso il posto di lavoro. Se questo è il “dato” occorre inevitabilmente partire da questo per risalire la china della crisi individuale e collettiva. E quale migliore occasione se non questa – lo dico riconoscendo in questo una punta di cinismo – la nostra società poteva attendersi per poter rivedere nel profondo regole e rispetto di esse in modo rigoroso? La qual cosa permetterebbe di andare ad un lieve livellamento dello stato sociale facendo passare dai più ricchi ai più poveri una parte delle risorse. E consentirebbe a chi guadagna di poter contribuire in modo equo alle spese dei servizi che lo Stato, dalla Sanità all’Istruzione e molto altro, è tenuto ad organizzare e far funzionare.
L’auspicio è che non siano parole vuote, di circostanza e legate alla passione del momento quelle pronunciate da alcuni leader sindacali nelle ultime ore, in occasione del PRIMO MAGGIO Festa del Lavoro.
Landini della CGIL ha detto: ““In questa fase bisogna rafforzare e non indebolire il ruolo dei contratti nazionali, non solo per tutelare il salario dei lavoratori ma anche per affrontare i processi di cambiamento in atto, coinvolgendo i lavoratori e il sindacato sulle scelte strategiche, su come e cosa si produce”….Anche le imprese devono cambiare e se non ricostruiscono insieme a noi rischiano di proseguire su una linea fallimentare”. E poi rilancia la necessità di un nuovo Statuto dei lavoratori, aggiungerei “post-pandemico”, proprio in dirittura d’arrivo dei 50 anni dalla introduzione dello Statuto dei lavoratori introdotto con la legge 20 maggio 1970, n. 300 Statuto per garantire a tutte le persone che lavorano, a prescindere dal rapporto di lavoro che hanno, gli stessi diritti e le stesse tutele”, ponendo così fine alla “competizione tra le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare”.
La segretaria della CISL Annamaria Furlan ha confermato l’unità di intenti delle forze sindacali :“Già dalla prossima finanziaria dobbiamo dare segnali precisi mettere in sicurezza sanitaria il Paese ma anche in sicurezza l’economia con la centralità del lavoro: un grande patto sociale che dia obiettivi chiari al Paese e strumenti chiari”. “E’ necessario ripensare il lavoro ma anche un modello di crescita e sviluppo che va rivisto ripensato e organizzato. Il lavoro è centrale, la centralità della persona è il vero segno con cui cambiamo il nostro modello di società”. “Mettere al centro la persona significa non dimenticare gli invisibili nel mondo del lavoro, non tutelati e lasciati soli, un’organizzazione del lavoro che veda attraverso l’applicazione delle nuove tecnologie un modo di lavorare più sano e più partecipativo e una coesione indissolubile tra lavoro e ambiente, perché vogliamo consegnare alle nuove generazioni un mondo più sano ci vuole un grande senso di responsabilità”.

Carmelo Barbagallo, segretario generale della UIL aggiunge “Più che essere una festa oggi è un primo maggio di impegno per il lavoro in sicurezza e per ricostruire il nostro futuro” e prosegue “Penso che anche l’Europa comincia a capire che l’austerità, il fiscal compact, il Mes vecchia maniera non servono a niente. Bisogna fare investimenti in sicurezza, in infrastrutture, in innovazione e ricerca e digitalizzazione. Abbiamo scoperto di essere in ritardo su tutto”.**
Come si può capire questa è un‘ottima occasione per costruire un mondo migliore; potrebbe essere proprio il contrario, e non sarebbe una buona notizia.

*L’Espresso 3 maggio 2020 “L’esercito dei nuovi poveri” di Vittorio Malagutti, Gloria Riva e Francesca Sironi p.13

**AGI AGENZIA ITALIA – ANSA e altri
https://www.agi.it/economia/news/2020-05-01/primo-maggio-sindacati-coronavirus-8491912/
https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2020/05/04/landini-serve-nuovo-modello-sviluppo-partecipazione-dei-lavoratori_e6847257-1868-4c94-8959-e7cbd7730534.html

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Tempo di coronavirus: riflettere e far riflettere

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Tempo di coronavirus: riflettere e far riflettere

Uno degli aspetti “positivi” in questo tempo sospeso è di certo collegabile al fatto che, quando ci si incrocia, pur bardati da mascherine e con capigliature leonine che ormai coprono anche le “pelate”, ci si riconosce e ci si saluta con entusiasmo: a volte capita anche che ci si ritrovi con affabilità a discutere con persone alle quali non avevamo dato confidenza e dalle quali non avevamo avuto segni simili in precedenza. La parziale solitudine è stata interrotta da saluti cordiali tra dirimpettai con i quali abbiamo anche condiviso momenti irripetibili ed inimmaginabili prima d’ora, condividendo canti e applausi. In queste giornate abbiamo imparato che non siamo proprio del tutto soli ed ognuno ha cominciato ad aprirsi agli altri nella comprensione delle diverse problematiche. esplicitate o immaginate, ma in ogni caso reali. In primo luogo la solitudine dei nuclei così come si sono caratterizzati quando il lockdown è partito ha evidenziato aspetti non prevedibili, come la necessità di avere spazi vitali quotidiani in ambienti non abbastanza ampi per poter sviluppare una pur normale attività, non solo quelle di tipo organizzativo ma soprattutto quelle che all’improvviso sono diventate urgenti come l’ homeworking (per gli adulti che hanno avuto la fortuna di poter continuare la loro attività lavorativa) e le “lezioni online” (per gli studenti di ogni età che hanno dovuto continuare il loro impegno scolastico lontano dalle aule). Nell’avviare queste nuove modalità “urgenti” si è scoperta l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione, dalla mancanza proprio di strumenti di base, come personal computer, smartphone o tablet, ma anche di connessioni all’altezza di reggere utilizzi multipli in contemporanea. Un altro degli aspetti da mettere sotto osservazione è la capacità di ciascun nucleo di tenere sotto controllo la propria spesa alimentare, i propri consumi essenziali, in assenza di spese voluttuarie collegate ad una vita anche – ed in alcuni casi preponderante – fuori casa: sono aumentate di certo le spese per le utenze ma sono diminuite quelle per carburanti e per la vita sociale. Indubbiamente ci sono state molte categorie di lavoratori che hanno dovuto far fronte in modo duro all’assenza di un reddito. Questo aspetto deve essere elemento sul quale riflettere e far riflettere.
Una parte di questi lavoratori aveva contratti “capestro” con falsi “part-time” (ed erano forse tra quelli parzialmente “fortunatI”); un’altra parte, pur lavorando, “non” aveva contratti e forse era riuscito ad ottenere sussidi come il RdC, forse lo aveva ottenuto solo parzialmente e forse nemmeno quello; un’altra parte di lavoratori sono quelli atipici, autonomi, la cui fortuna dipende anche dalla vita sociale condotta per essere conosciuti negli ambienti (per costoro lo Stato, cioè tutti coloro che poi hanno contribuito e contribuiranno a pagare le tasse, sta provvedendo per dei “bonus” che però tardano ad arrivare a destinazione).
Riflettere e far riflettere: chi aveva contratti capestro d’ora in poi, dopo questa esperienza, denunci questa realtà piuttosto che subirla passivamente “perché altrimenti non ci danno nemmeno questa occasione”; chi lavorava senza contratto faccia lo stesso affinché non vi siano altre storture simili verso i loro figli e nipoti, oltre che verso di loro, dopo questa, che potrebbe essere un’ottima positiva esperienza; quegli altri, ma non solo quegli altri, imparino da questa situazione a gestire meglio la loro esistenza: non si può pensare che a pagare poi sia la collettività.
Se dobbiamo creare un mondo più giusto dobbiamo anche imparare a guardarci intorno e non fidarci di chi “piange miseria” per professione: ne trovereste un po’ di gente che dichiara redditi da fame e possiede seconde e terze case, a volte anche, di lusso.
Dobbiamo imparare a cooperare, perché abbiamo, in “tanti”, interessi comuni, mentre pochi ci fregano elegantemente. E allora? Se dobbiamo imparare qualcosa, non ce la facciamo sfuggire questa occasione di “giustizia sociale”: a coloro che in clima di solidarietà si dichiarano disponibili a versare una quota – pur minima – del loro reddito fisso (da lavoro o da pensione, medio-basso, non di certo minimo) suggerisco prudenza e condivisione dei problemi di “equità” per elaborare una serie di interventi utili a far emergere il “nero”, l’elusione e l’evasione, dappertutto. Altro che obolo generoso! Il motivo per cui non ho esultato davanti a quell’apparente modalità di contribuzione “sociale” ma l’ho contrastata ed il motivo era – ed è – che in questa forma nulla cambia. E, ve lo assicuro, la mia non è ipocrisia.

Joshua Madalon

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UN MIO AMPIO INTERVENTO ALLA COMMISSIONE CULTURA DEL PDS DI PRATO 20 OTTOBRE 1995 – seconda parte (vedi 21 aprile)

UN MIO AMPIO INTERVENTO ALLA COMMISSIONE CULTURA DEL PDS DI PRATO 20 OTTOBRE 1995 – seconda parte (vedi 21 aprile)

20 OTTOBRE 1995 (nell’aprile del 1995 ero entrato a far parte del Consiglio Comunale di Prato ed ero membro della Commissione Cultura e coordinatore della Commissione Scuola e Cultura del PDS provinciale; la legislatura in corso era la prima con la quale applicavamo la legge 142. 8 giugno 1990, quella intitolata Ordinamento delle autonomie locali che rivedeva nel profondo le prerogative del Consiglio e del Sindaco).

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Bisogna che io faccia delle precisazioni “a monte” per poter meglio comprendere il senso di quel che poi dirò. C’è la sensazione che questa legislatura sia partita con una forte sottovalutazione delle problematiche culturali e con una sottovalutazione altrettanto seria delle idee che venivano esprimendo donne ed uomini che si occupano da anni di problematiche culturali in questo Partito: questo è apparso e appare frutto di presunzione che non ha ragion d’essere; o se ne ha, allora occorre capirne le motivazioni. Intanto, l’evento straordinario in questi primi di governo nel campo culturale in questa città è stato il riconoscimento e la valorizzazione istituzionale dell’opposizione: una cosa assurda, inutile e profondamente dannosa; che non porterà vantaggi né politici né istituzionali a nessuno né al nostro Partito né alla coalizione della quale facciamo parte: un dono “istituzionale” incomprensibile e scellerato che, se fosse il risultato di un accordo, sarebbe un vero e proprio scandalo, una vera e propria offesa al ruolo della cultura in questa città ed ai suoi cittadini che hanno scelto chi doveva governare e chi stare all’opposizione.
Appare allo stesso modo incomprensibile, almeno a prima vista, il motivo che ha spinto una parte del nostro Gruppo a scegliere questo percorso della quale cosa io spero ci si penta al più presto.
L’altra questione che occorre precisare è legata al taglio complessivo dell’intervento: non mi interessa in alcun modo costruire un progetto culturale che abbia come punti di riferimento soltanto le due megastrutture e poco altro.
Queste devono essere, come tante altre, gli strumenti, i mezzi attraverso i quali mettere in pratica un progetto complessivo di politica culturale, esse devono porsi quale obiettivo l’assunzione di un preciso ruolo di guida culturale in questa città.
Allo stesso tempo non mi galvanizza affatto l’uso di un metodo che molto spesso è stato adottato nel procedere alle nomine nel settore culturale e non solo, che è consistito nello scegliere prima i menbri nominati e poi gli orientamenti di fondo.
Mi sembra opportuno e corretto procedere all’inverso: prima si discute ampiamente sulle prioritarie scelte di politica culturale e poi si reperiscono le figure giuste da collocare all’interno delle diverse strutture perché possano adeguatamente funzionare.
Proprio per questo è necessario guardare la nostra città con occhi impietosi ed obiettivi.

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