19 maggio – INFER(N)I – altri Inferni – non solo Dante – canto XI dell’Odissea (nella traduzione di Ettore Romagnoli) – parte 2 (per parte 1 Odissea vedi 19 aprile)

Prosegue e si conclude l’incontro con Tiresia, il quale ha profetizzato per Ulisse “una morte placida….” quando egli ritornato a Itaca sarà “fiaccato già da mite vecchiezza”. Prima di Tiresia Ulisse ha incontrato tra le innumerevoli anime dei morti insepolti, che vagano al di fuori dell’Ade il suo compagno Elpènore, morto ad Eea (l’isola di Circe), e che attende il ritorno di Ulisse per poter trovare la sua degna sepoltura. In questi versi che seguono, dopo aver salutato Tiresia, Ulisse incontra sua madre e poi una lunga serie di personaggi femminili, così lunga da far dire ad Ulisse, che . non dimentichiamolo – sta raccontando le sue vicende ad Alcinoo, re dei Feaci ” Ma tutte non ti posso narrare, né dirtene il nome,
quante consorti, e quante lì vidi figliuole d’eroi:
pria sfumerebbe la notte divina; e tempo è che si dorma,
sia che recare alla nave mi debba, oppur qui rimanere,
e del ritorno a voi lasciare la cura ed ai Numi”.

Cosí mi disse. Ed io risposi con queste parole:
«Tiresia, i Numi stessi tramaron cosí questi eventi.
Ma dimmi questo, adesso, rispondimi senza menzogna:
io della madre mia già spenta qui l’anima veggo,
ed essa presso al sangue sta senza parola, e sul figlio
non leva pur lo sguardo, a lui non rivolge parola:
dimmi, signore, come potrà riconoscer suo figlio».

Ora, poi ch’ebbe cosí pronunciati i fatidici detti,
tornò l’ alma del prence Tiresia alla casa d’Averno,
ed io fermo colà rimasi, finché sopraggiunse
mia madre
, e il negro sangue fumante bevette; ed allora
mi riconobbe; e, piangendo, mi volse l’alata parola:
«Come sei giunto, o figlio, tra questa caligine buia,
vivo tuttora? E ben arduo, pei vivi, veder questi luoghi:
ché per lo mezzo vi sono gran fiumi ed immani canali:
l’Ocèano, innanzi tutto, che facil non è traversarlo,
chi debba muovere a piedi, chi solido legno non abbia.
Forse da Troia qui dopo lunghi giorni d’errore,
con la tua nave, coi tuoi compagni sei giunto? Toccata
Itaca ancor non hai, non hai vista la casa e la sposa?».
     Cosí mi disse; ed io risposi con queste parole:
«Necessità, madre mia. m’addusse alle case d’Averno,
ch’io consultar dovevo Tiresia, il profeta di Tebe;
ché giunto ancor non sono vicino all’Acaia, né piede
sulla mia terra ho messo; ma vado soffrendo ed errando

da che prima seguii Agamènnone sangue divino
verso Ilio, di cavalli nutrice, a pugnar coi Troiani.
Ma dimmi adesso ciò, rispondimi senza menzogna:
quale di morie doglioso desiino t’ha dunque fiaccata?
Un lungo morbo. Forse? o Artèmide vaga di strali
te con le miti saette percosse, e ti diede la morte?
E di mio padre dimmi, del figlio che in casa ho lasciato,
se ancora il mio potere ad essi rimase, o se altri
l’ occupa già, per certezza ch’io piú ritornare non debba.
E dimmi della sposa contesa, che pensa e disegna:
se presso il figlio rimane, di tutto fedele custode,
o se l’ha già sposata chi piú fra gli Achivi primeggia ’.
     Cosí dissi. E a me pronta rispose la nobile madre:
«Certo, rimane certo la sposa, con cuore tenace,
nella tua casa; e vede distruggersi l’un dopo l’altro
le notti e i giorni, in pena; né mai si rasciuga il suo pianto
II tuo potere, no, nessuno lo usurpa; ma in pace
vigila sui tuoi beni Telemaco, e parte alle mense
pubbliche prende, come s’addice ad un re: ché ciascuno
lo invita. Ma tuo padre la vita nei campi trascorre,
e mai nella città non scende, né letto possiede,
né manti, né coperte, né vaghi tappeti. L’inverno,
vicino al focolare, tra i servi riman dentro casa,
sopra la cenere, e dorme coperto di misere vesti;
quando l’estate poi sopra giunge, ed il florido autunno,
qua e là sopra le balze, fra i tralci di qualche vigneto,
si sdraia lungo in terra, su letti di foglie cadute;
e qui crucciato giace, gran doglia nutrendo nel cuore,
te desiando; e su lui s’aggrava la triste vecchiaia.

Altri poi figli a Cretèo generò questa donna regale:
Amitaòn. di cavalli maestro, ed Esóne, e Ferète.
     Antíope dopo questa m’apparve, figliuola d’Asòpo,
che tra le braccia di Giove giaciuta era, disse; e dal Nume
due pargoletti aveva concetti, Anfione e Zeto,
che Tebe pria fondaron, città di settemplici porte,
che la munir di torri; perché rimaner senza torri,
per quanto in Tebe fosser gagliardi, possibil non era.
     E dopo lei, la sposa vid’io d’Anfitrione, Alcmena,
che concepí, confusa d’amore con Giove possente.
Ercole, cuor di leone, dall’animo pieno d’ardire.
     E di Creonte l’ardito poi vidi la figlia. Megara.
che sposa fu del figlio d’AIcmena dall’animo invitto.
     E vidi poi la madre d’Edipo, la bella Epicasta,
che si bruttò, ma contezza non n’ebbe, di macchia nefasta:
sposò suo figlio. Ucciso avea questi il padre, e la madre
sposò: sono i disegni dei Superi oscuri ai mortali.
Or ne la bella Tebe costui, molte pene soffrendo,
regnò sopra i Cadmei, pel funesto volere dei Numi;
ed essa, un laccio appeso dall’alto soffitto, discese
nella munita casa d Averno, onde piú non si riede,
vinta dal suo cordoglio, lasciando ad Edipo gli affanni,
tanti quanti ai mortali ne infliggon l’Erinni materne.
     E la bellissima Clori vid’io, che una volta Nelèo
sposò per la bellezza, le offerse moltissimi doni.
la piú giovane figlia d’Anfione figlio di Iasi,
che un dí tendea lo scettro su Orcòmeno, rocca dei Mini.
In Pito essa regnò, partorí bellissimi figli,
Periclimèno, vago di pugne, e Nestore, e Cromio;
e a luce diede Péro, la prode, stupore ai mortali,

cui tutti i confinanti volevano sposa. E Nelèo
a quegli la promise che i bovi ampie fronti lunate
d’Ificle valoroso recassero a lui da Fliàca.
Ben dura impresa; e solo promise di compierla il saggio
vate; ma l’irreti l’avverso destino del Nume: ’
ch’entro dogliosi ceppi lo avvinser selvaggi bifolchi.
Ma quando a compimento poi giunsero i mesi ed i giorni,
quando col volger dell’anno tornaron le nuove stagioni.
Ificle sciolse il vate dai ceppi, poiché gli ebbe detti
tutti i responsi; e cosí fu compiuto il volere di Giove.
     E poi la vaga Leda, la figlia di Tindaro vidi.
Essa allo sposo diede due figli di cuore gagliardo:
Castore di cavalli domatore, e il pugile prode
Polluce: vivi entrambi li chiude la terra ferace.
E, pur sotterra, essi hanno tal pregio da Giove ottenuto,
che, con alterna vece, ciascun vive un giorno, ed un altro
giace defunto: ed onore riscuotono al pari dei Numi.
     Ifimedèa, la sposa d’AIòe dopo quella m’apparve,
che con Posidone re s’era stretta, diceva, d’amore,
e due figli die’a luce, che vissero sol poco tempo:
Oto divino, e, famoso fra tutte le genti, Efialte,
i piú grandi fra quanti la terra datrice di spelta
ne generasse, i piú belli, se il grande Orione tu togli.
Nove anni aveano, e in largo cresciuti eran cubiti nove,
nove orge eran cresciuti d’altezza. Ed allora, minaccia
volsero ai Numi, signori d’Olimpo immortali, che indetta
avrian la guerra ad essi, la tumultuosa battaglia.
E su l’Olimpo l’Ossa pensarono imporre, e su l’Ossa
il frondeggiante Pelio, che al cielo salisse una strada.
E conseguian l’intento, se a lor maturavano gli anni;

ma morte ad essi die’ di Latona e di Giove il figliuolo,
prima che sotto le tempie spuntasse la prima pelurie,
che di caluginè in fiore velasse e fiorisse le gote.
     E Fedrà quindi e Procri poi vidi, e la bella Arianna,
la figlia dell’infesto Minosse, che un giorno Tesèo
volle condurre da Creta al clivo d’Atene la sacra;
ma non potè goderne; ché Artèmide prima l’uccise
in Dia marina: Bacco segnata l’aveva ai suoi colpi.
     Maira e Climène poi, poi vidi Enfila odiosa,
che del marito vendè la vita, n’ebbe oro in compenso.
     Ma tutte non ti posso narrare, né dirtene il nome,
quante consorti, e quante lì vidi figliuole d’eroi:
pria sfumerebbe la notte divina; e tempo è che si dorma,
sia che recare alla nave mi debba, oppur qui rimanere,
e del ritorno a voi lasciare la cura ed ai Numi».