Il tempo del Covid ci ha condizionato, più di quanto non avvenisse prima, a prendere in considerazione solo – o poco ma davvero poco più – ciò che ci circondava. Siamo rimasti vittime di quella sindrome dell’ombelico che probabilmente era tipica dei nostri progenitori nella società pastorale e contadina preindustriale. Gli stessi notiziari dei mesi primaverili del 2020 e poi di seguito quelli autunnali ed i seguenti invernali del 2021 erano esclusivamente collegati alla trasmissione dei dati pandemici; i rotocalchi televisivi dibattevano dal mattino alla notte sempre le stesse argomentazioni. Non è stato molto diverso il periodo più recente con lo snocciolamento dei dati sulla vaccinazione e le diatribe tra favorevoli e contrari. Poche davvero le variazioni fuori dal tema: in primo luogo di certo i contrasti paradossali e schizofrenici della Politica nostrana; in secondo luogo le notizie sportive collegate all’abbuffata di eventi che ha visto concentrarsi nel 2021 anche parte di quanto avrebbe dovuto svolgersi nel 2020 (Europei di Calcio, Olimpiadi e Paralimpiadi) ed era stato rinviato a causa della pandemia.
Negli ultimi giorni – forse proprio a causa di questa reclusione forzata del corpo e della mente che fino a poco tempo fa ci ha esclusi dalla “realtà” – è scoppiata la questione afgana. Ed è apparsa subito la grande difficoltà a comprendere la portata degli eventi che costringono la comunità internazionale ad assumersi responsabilità che fino a poco tempo fa erano state colmate dagli Stati Uniti, che si erano assunto il ruolo di “poliziotti del mondo” con interventi armati camuffati da “esportazione di democrazia”. Per molto tempo ed in particolare allorquando è venuta meno la ragione ideologica dello scontro tra capitalismo e comunismo gli Stati Uniti hanno dirottato i loro interessi politici ed economici nell’area medio orientale, agendo indisturbati sotto lo scudo di una falsa interpretazione della Civiltà e della Democrazia, valori che sono stati utilizzati per accaparrarsi fette di mercato né più né meno rispetto a quanto facevano regimi autoritari antidemocratici. L’Afghanistan non è Kabul e Kabul è solo in parte minima la cartina di tornasole che vorrebbe dimostrare quanta Democrazia fosse stata conquistata in questi venti anni. L’Afghanistan è un territorio immenso la maggior parte del quale è rimasta nelle condizioni in cui si trovava negli anni precedenti; forse ancor peggio di prima. Anche questo spiega le ragioni per cui l’esercito “non ufficiale” dei “talebani” (il cui termine è stato nel nostro Occidente sempre declinato in modo negativo) ha avuto una straordinaria facilità nel conquistare l’intero territorio fino a Kabul in pochissimi giorni, battendo senza colpo ferire (o con pochissime perdite da una parte e dall’altra) l’esercito “ufficiale” finanziato dall’Occidente per difendere gli “straordinari” risultati conseguiti.
Questo non elimina la profonda amarezza per tanti di noi, democratici occidentali, che speravano in soluzioni meno traumatiche e maggiormente collegabili ad uno stile di vita più simile al nostro. Non è stato e non è così. Sentiamo dire da vari commentatori che abbiamo potuto apprezzare quanti e quali “straordinari” risultati dal punto di vista “civile” (nel senso “occidentale”) sarebbero stati raggiunti nel corso di questi anni; ma le vicende recenti (il travolgente successo dei “talebani” versus “società – da noi detta – civile”) smentiscono questa tesi, mettendo in evidenza che – forse – solo una minima parte della società afgana aveva acquisito costumi più o meno simili ai nostri, quali una tendenza alla parità di genere e a una alfabetizzazione di valore medio superiore ed universitario. Occorrerà prendere consapevolezza di questo insuccesso, spiegarne le ragioni e con pazienza ricercare le vie d’uscita verso un vero e proprio “progresso”. Ma sarà dura e difficile, anche per la responsabilità occidentale di accontentarsi solo delle apparenze senza andare alla sostanza delle cose.