ANTROPOLOGIA, CULTURA, POLITICA, STORIA
SU UNA LETTERA “DAL CARCERE” DI ANTONIO GRAMSCI DATATA 30 DICEMBRE 1929
su una lettera “dal carcere” di Antonio Gramsci datata 30 dicembre 1929 – cioè novanta anni fa
Novanta anni fa, il 30 dicembre 1929, in una lettera
apparentemente “familiare”, Antonio Gramsci “dal carcere” di Turi, dove era
rinchiuso dal luglio del precedente anno, traccia tutta una serie di
riflessioni politiche e pedagogiche, che a tutt’oggi sono elementi fondamentali
per chiunque voglia approssimarsi a divenire un educatore. Come spesso accade,
sono le semplici argomentazioni a divenire, partendo dal “particolare” generico
ed occasionale e proprio per la loro capacità di arrivare al cuore delle
problematiche, in definitiva universali. Gramsci scrive alla moglie Giulia
Schucht, che aveva lasciato l’Italia con il figlio Delio ed incinta di Giuliano
nell’agosto del 1926 e fa riferimento all’altra donna forse addirittura più
importante dal punto di vista intellettuale, la più anziana, e matura, delle
sorelle Schucht, Tatiana, sua prioritaria interlocutrice politica e culturale
in tutto l’arco della sua permanenza in carcere.
Nella lettera del 30 dicembre Gramsci fa un diretto riferimento al rapporto, in
qualche modo condizionato dall’assenza di Giulia con Tatiana, un rapporto molto
più che “epistolare” visto che la donna faceva visita all’illustre recluso e ne
era diventata la principale confidente.
Cara Giulia,
non mi sono ricordato di domandare a Tatiana con la quale ho avuto un colloquio
qualche giorno fa, se ti aveva trasmesso le mie due ultime lettere a lei. Penso
di sí, perché avevo domandato che lo facesse; perché volevo che tu fossi
informata d’un mio stato d’animo, che si è attenuato, ma non è ancora
completamente sparito, anche a costo di procurarti qualche dispiacere.
In Gramsci c’è questo profondo dissidio anche
sentimentale: probabilmente avverte su di sè il peso di una intera famiglia,
alla quale si è legato, la Schucht (innamorato in un primo tempo di Eugenia,
aveva poi sposato Giulia), e comprende pienamente le ragioni che spingono
Giulia a lasciare l’Italia, indebolita nell’animo e nel fisico, per tornare in
Unione Sovietica.
La lettera di cui parlo, partendo da riflessioni condizionate dalla reclusione
e dalla logica distanza con la famiglia si incentra sull’educazione del
primogenito e sul suo grado di apprendimento.
Le osservazioni che
farò devono essere naturalmente giudicate tenendo presente alcuni criteri
limitativi: 1) che io ignoro quasi tutto dello sviluppo dei bambini proprio nel
periodo in cui lo sviluppo offre il quadro piú caratteristico della loro
formazione intellettuale e morale, dopo i due anni, quando si impadroniscono
con una certa precisione del linguaggio, incominciano a formare nessi logici
oltre che immagini e rappresentazioni; 2) che il giudizio migliore
dell’indirizzo educativo dei bambini è e può essere solo di chi li conosce da
vicino e può seguirli in tutto il processo di sviluppo, purché non si lasci
acciecare dai sentimenti e non perda con ciò ogni criterio, abbandonandosi alla
pura contemplazione estetica del bambino, che viene implicitamente degradato
alla funzione di un’opera d’arte.
Dunque, tenendo conto di questi due criteri, che poi sono uno solo in due
coordinate, mi pare che lo stato di sviluppo intellettuale di Delio, come
risulta da ciò che mi scrivi, sia molto arretrato per la sua età, sia troppo
infantile. Quando aveva due anni, a Roma, egli suonava il pianoforte, cioè
aveva compreso la diversa gradazione locale delle tonalità sulla tastiera,
dalla voce degli animali: il pulcino a destra, e l’orso a sinistra, con gli
intermedi di svariati altri animali. Per l’età di due anni non ancora compiuti
questo procedimento era compatibile e normale; ma a cinque anni e qualche mese,
lo stesso procedimento applicato all’orientamento, sia pure di uno spazio
enormemente maggiore (non quanto può sembrare, perché le quattro pareti della
stanza limitano e concretano questo spazio), è molto arretrato e infantile.
in corsivo il testo della lettera
…..a seguire la seconda parte……
Joshua Madalon
LA “LETTERA DAL CARCERE” DEL 30 DICEMBRE 1929
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La “lettera dal carcere” del 30 dicembre 1929
30 dicembre 1929
Cara Giulia,
non mi sono ricordato di domandare a Tatiana con la quale ho avuto un colloquio
qualche giorno fa, se ti aveva trasmesso le mie due ultime lettere a lei. Penso
di sí, perché avevo domandato che lo facesse; perché volevo che tu fossi
informata d’un mio stato d’animo, che si è attenuato, ma non è ancora
completamente sparito, anche a costo di procurarti qualche dispiacere.
Ho letto con molto interesse la lettera in cui mi hai dato una impressione del
grado di sviluppo di Delio.
Le osservazioni che
farò devono essere naturalmente giudicate tenendo presente alcuni criteri
limitativi: 1) che io ignoro quasi tutto dello sviluppo dei bambini proprio nel
periodo in cui lo sviluppo offre il quadro piú caratteristico della loro formazione
intellettuale e morale, dopo i due anni, quando si impadroniscono con una certa
precisione del linguaggio, incominciano a formare nessi logici oltre che
immagini e rappresentazioni; 2) che il giudizio migliore dell’indirizzo
educativo dei bambini è e può essere solo di chi li conosce da vicino e può
seguirli in tutto il processo di sviluppo, purché non si lasci acciecare dai
sentimenti e non perda con ciò ogni criterio, abbandonandosi alla pura
contemplazione estetica del bambino, che viene implicitamente degradato alla
funzione di un’opera d’arte.
Dunque, tenendo conto di questi due criteri, che poi sono uno solo in due
coordinate, mi pare che lo stato di sviluppo intellettuale di Delio, come
risulta da ciò che mi scrivi, sia molto arretrato per la sua età, sia troppo
infantile. Quando aveva due anni, a Roma, egli suonava il pianoforte, cioè
aveva compreso la diversa gradazione locale delle tonalità sulla tastiera,
dalla voce degli animali: il pulcino a destra, e l’orso a sinistra, con gli
intermedi di svariati altri animali. Per l’età di due anni non ancora compiuti
questo procedimento era compatibile e normale; ma a cinque anni e qualche mese,
lo stesso procedimento applicato all’orientamento, sia pure di uno spazio
enormemente maggiore (non quanto può sembrare, perché le quattro pareti della
stanza limitano e concretano questo spazio), è molto arretrato e infantile.
Io ricordo con molta precisione che a meno di cinque anni, e senza essere mai
uscito da un villaggio, cioè avendo delle estensioni un concetto molto
ristretto, sapevo con la stecca trovare il paese dove abitavo, avevo
l’impressione di cosa sia un’isola e trovavo le città principali d’Italia in
una grande carta murale; cioè avevo un concetto della prospettiva, di uno
spazio complesso e non solo di linee astratte di direzione, di un sistema di
misure raccordate, e dell’orientamento secondo la posizione dei punti di questi
raccordi, alto-basso, destra-sinistra, come valori spaziali assoluti,
all’infuori della posizione eccezionale delle mie braccia. Non credo di essere
stato eccezionalmente precoce, tutt’altro. In generale ho osservato come i
«grandi» dimentichino facilmente le loro impressioni infantili, che a una certa
età svaniscono in un complesso di sentimenti o di rimpianti o di comicità o
altro di deformante. Cosí si dimentica che il bambino si sviluppa
intellettualmente in modo molto rapido, assorbendo fin dai primi giorni della
nascita una quantità straordinaria di immagini che sono ancora ricordate dopo i
primi anni e che guidano il bambino in quel primo periodo di giudizi piú
riflessivi, possibili dopo l’apprendimento del linguaggio. Naturalmente io non
posso dare giudizi e impressioni generali, per l’assenza di dati specifici e
numerosi; ignoro quasi tutto, per non dire tutto, perché le impressioni che mi
hai comunicato non hanno nessun legame tra di loro, non mostrano uno sviluppo.
Ma dal complesso di questi dati ho avuto l’impressione che la concezione tua e
di altri della tua famiglia sia troppo metafisica, cioè presupponga che nel bambino
sia in potenza tutto l’uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già
contiene di latente, senza coercizioni, lasciando fare alle forze spontanee
della natura o che so io. Io invece penso che l’uomo è tutta una formazione
storica, ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di
violenza esterna) e solo questo penso: che altrimenti si cadrebbe in una forma
di trascendenza o di immanenza. Ciò che si crede forza latente non è, per lo
piú, che il complesso informe e indistinto delle immagini e delle sensazioni
dei primi giorni, dei primi mesi, dei primi anni di vita, immagini e sensazioni
che non sempre sono le migliori che si vuole immaginare. Questo modo di
concepire l’educazione come sgomitolamento di un filo preesistente ha avuto la
sua importanza quando si contrapponeva alla scuola gesuitica, cioè quando
negava una filosofia ancora peggiore, ma oggi è altrettanto superato.
Rinunziare a formare il bambino significa solo permettere che la sua
personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall’ambiente generale tutti i
motivi di vita. È strano ed interessante che la psico-analisi di Freud stia
creando, specialmente in Germania (a quanto mi appare dalle riviste che leggo)
tendenze simili a quelle esistenti in Francia nel Settecento; e vada formando
un nuovo tipo di «buon selvaggio» corrotto dalla società, cioè dalla storia.
Ne nasce una nuova forma di disordine intellettuale molto interessante.
A tutte queste cose mi ha fatto pensare la tua lettera. Può darsi, anzi è molto
probabile, che qualche mio apprezzamento sia esagerato e addirittura ingiusto.
Ricostituire da un ossicino un megaterio o un mastodonte era proprio di Cuvier,
ma può avvenire che con un pezzo di coda di topo si ricostruisca invece un
serpente di mare.
Ti abbraccio affettuosamente.
Antonio