La
Cultura salverà la nostra personale umanità, quella cui nella prima metà del
secolo scorso attentarono uomini (e donne) obnubilate da miti nazionalistici
che prefiguravano una superiorità di “razza” (termine purtroppo utilizzato
nuovamente per costruire discriminazione e separatezza). Quel periodo fu
contrassegnato da un abbassamento del livello di attenzione in un tempo di
crisi economica, sociale e politica generalizzata prodotta allo stesso tempo da
leadership nazionali che non vollero – o non ne furono capaci di – riconoscere
che occorrevano interventi strutturali complessivi che tendenzialmente e
progressivamente abbassassero il livello di odio che era susseguito alla prima
Guerra mondiale.
Oggi – come accennato prima – sembra di rivivere
quei tempi “non così lontani da noi”. LA CULTURA CI SALVERA’? dobbiamo solo
sperarlo? o dobbiamo provare con tutte le nostre residue forze?
In una serie di post da qui al
27 gennaio pubblicherò e commenterò alcuni testi sia originali che non relativi
ad un mio lavoro di venti anni fa.
Tra
il 1997 ed il 1998, mentre ero consigliere comunale di Prato, con il
“Laboratorio dell’Immagine Cinematografica che era da me diretto, realizzai un
“Progetto” che riuscì a coinvolgere studenti di molte scuole superiori della
città, a partire dall’ITC “Paolo Dagomari” nel quale insegnavo. Giovani
studenti del Liceo Classico “Cicognini”, del “Datini”, del “Copernico” furono
da me coordinati nella realizzazione del videofilm “Appunti sull’umana follia
del XX° secolo: la deportazione”.
A dare un particolare sostegno al Progetto ci fu il prof. Antonello Nave con il
suo gruppo “Altroteatro”; insieme a lui collaborarono i professori Mauro
Antinarella, Giuseppe Barbaro e Giorgio de Giorgi. Gli studenti che furono
impegnati sono in ordine alfabetico Irene Biancalani, Lorenzo Branchetti,
Alberto Carmagnini, Juri Casaccino, Cristina Isoldi, Simone Lorusso, Stefano
Mascagni, Lisa Panella, Monica Pentassuglia, Annarita Perrone, Daniele Peruzzi,
Linda Pirruccio, Giulia Risaliti e Luca Vannini. Alcuni di loro (Lisa Panella e
Luca Vannini) produssero anche dei testi originali. Il gruppo del “Cicognini”
si impegnò prioritariamente a mettere in scena una libera interpretazione de
“Le Troiane” dal titolo “Non posso tacere gli orrori” di Antonello Nave che fa
da preambolo al film; nel video c’è, ispirato alla rielaborazione del prof.
Nave, un testo da me scritto con il quale il lavoro si chiude.
Nella realizzazione del videofilm ebbi la collaborazione oltre che
dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Prato, anche del Teatro di Piazza e
d’Occasione – TPO attraverso la figura di Marco Colangelo – e della Fondazione
Teatro Metastasio ed in modo particolare Renzo Cecchini, Teresa Bettarini e
Gabriele Bologna Mazzara. Fu nostro consulente costante Mario Fineschi della
Comunità ebraica toscana.
Le musiche furono vagliate e scelte in modo coordinato: da Bach, “Passione
secondo Matteo” a “Canti e Musiche Tradizionali ebraiche” di Moni Ovadia, alla
colonna sonora de “Il paziente inglese” di Gabriel Yared a “Songs From A Secret
Garden” di R. Lovland.
Le riprese ed il montaggio furono realizzate da Pippo Sileci di Filmstudio 22.
Nei prossimi giorni, come sopra annunciato, in concomitanza con la data del 27
gennaio (giorno della Memoria) giorno in cui vennero abbattuti dall’Armata
Rossa i cancelli del campo di Auschwitz pubblicherò alcuni dei testi riferibili
a quel lavoro.
parte
2
Come
tante volte accade, con l’avanzare del tempo e l’usura delle sinapsi, ho
commesso qualche piccolo errore nel post precedente. Errori sostanziali
riferiti al titolo del lavoro, eccellente, del professor Antonello Nave. Il
testo cui ci si ispirava è “Fra Troia e la Bosnia: Agamennone e la guerra
inutile – Un allestimento della tragedia di Eschilo nel “teatro della scuola” “
prodotto dall’Associazione Culturale “Nuova Colonia” (associazione precedente
all’attuale “Altroteatro”) per il Liceo Classico “Cicognini” di Prato, dove
l’amico Nave ha svolto la sua professionalità fino allo scorso anno. Il testo
che noi abbiamo concordemente utilizzato non è l’ “Agamennone” di Eschilo,
prima parte dell’Orestea che nel libro viene tradotto e reinterpretato
contestualizzandolo alle tragedie balcaniche di quegli anni; è invece “Le
Troiane” di Euripide. Il motivo per il quale noi utilizzammo l’angoscia delle
donne troiane in attesa di conoscere il loro destino di “deportate”, una volta
che i loro “uomini” erano stati annientati, uccisi come Priamo ed Ettore o come
il piccolo Astianatte o scappati come Enea, era collegato allo stesso identico
sentimento delle donne, ebree o dissidenti o appartenenti a categorie
discriminate, al tempo delle deportazioni nazifasciste.
Joshua Madalon
parte 3
Avviammo
a lavorare intorno al progetto all’avvio dell’anno scolastico 1997/98; chiesi
la collaborazione di tutti gli Istituti medi superiori della provincia di
Prato, ottenendo la partecipazione, oltre che della scuola dove insegnavo (ITC
“Paolo Dagomari”), del Liceo Scientifico “Niccolò Copernico” con allievi
coordinati dal prof. Giuseppe Barbaro che curarono la parte relativa al “Diario
di Anna Frank”, dell’Istituto Professionale “Datini” coordinati dal professor
Mauro Antinarella, del Liceo Scientifico “Carlo Livi” coordinati dal professor
Giorgio de Giorgi, del Lieco Classico “Cicognini” coordinati dal professor
Antonello Nave.
Dopo una riunione preliminare in assessorato alla Cultura con i funzionari
avviammo gli incontri di presentazione in ogni scuola che aveva aderito
confrontandoci in modo aperto e coinvolgente.
Avevamo pensato di realizzare un teaser da presentare pubblicamente come
annuncio alla stampa poco prima dell’inizio delle festività natalizie, durante
le quali avremmo dovuto lavorare con gli studenti in un’impresa che appariva
complessa ma possibile. L’idea era quella di portare il prodotto finito entro
la data canonica del 27 gennaio 1998.
Non ci riuscimmo anche perchè come molto spesso si dice “il diavolo ci mise la
coda”.
In quel periodo ero consigliere comunale e mi occupavo in primo luogo di Scuola
e Cultura, settori per i quali potevo vantare qualche credito visto quel che
facevo e quel che avevo già fatto. In particolare quelli erano gli anni della
“battaglia” per il riconoscimento di “Teatro Nazionale Stabile” per il
“Metastasio” e mi stavo battendo anche contro le posizioni della maggioranza
del mio Partito, PDS, che era piuttosto tiepida in quella scelta. Alla
Presidenza c’era Alessandro Bertini, architetto con esperienze acquisite nel
campo della scenografia ed alla Direzione amministrativa c’era Teresa Bettarini.
Il Direttore artistico era il grande compianto Massimo Castri, regista
annoverato nella triade che comprendeva Luca Ronconi e Giorgio Strehler, il
primo dei quali peraltro aveva messo in scena a Prato molte delle sue
straordinarie mitiche regie.
Avevo richiesto la cooperazione del Teatro, che in quel periodo, come ancora
oggi ma in ben diverse migliori condizioni, possedeva le chiavi del complesso
“Magnolfi” in via Gobetti. Per chi non è di Prato consiglio di consultare il
sito http://www.magnolfinuovoprato.it/it e di leggere il libro “il MAGNOLFI
nuovo” prodotto dal Comune di Prato nel 2004 nel quale, tra le altre ben più
importanti, troverete una mia introduzione dal titolo “UN AMICO RITROVATO”.
E fu così che, in una mattina di fine ottobre, insieme a Gabriele Mazzara
Bologna che in quel periodo svolgeva attività di “tecnico teatrale” presso il
Metastasio, mi recai a svolgere un sopralluogo nelle stanze del Magnolfi che
era stato parte di un convento dei Carmelitani Scalzi e poi sede di un Orfanotrofio
dal 1838 fino al 1978, dopo di che fu sede del quartiere (quando questi in
città erano 11), della Guardia medica, alloggio provvisorio per sfrattati, sede
di varie Associazioni e del famosissimo Laboratorio teatrale di Luca Ronconi.
Dopo questo periodo culturalmente stimolante dagli inizi degli anni Ottanta lo
spazio era stato occupato da gruppi che afferivano all’esperienza dei “centri
sociali”.
Non mi aspettavo di vedere ciò che vidi. Ne parlerò nel prossimo post.
….fine
parte 3….continua
parte
4
Su
via Gobetti c’è l’ingresso principale del complesso Magnolfi, e c’era anche
venti anni fa, ma il portone non era accessibile; per poter entrare occorreva
procedere a sinistra per un viale sterrato che introduceva ad un ampio cortile
occupato in quel tempo – non so ora cosa vi sia – da auto in attesa di essere
aggiustate in tutti i sensi (carrozzeria, motore, suppellettili varie).
Vi era un gran disordine.
Per andare all’interno del complesso dopo aver costeggiato le mura sormontate
da ampi finestroni polverosi e sconnessi sia negli stipiti che nei vetri, che
presentavano ampi squarci, vittime di chissà quali monellerie locali, si
accedeva da una porticina. Gabriele che mi accompagnava, tirò fuori da un
borsello un mazzo di chiavi e provò a lungo prima di riuscire ad aprire.
Verosimilmente quella porta non era stata aperta da un pezzo ed infatti fece
ulteriore resistenza quando, dopo aver sentito l’ultimo scatto della serratura,
dovemmo spingerla per attraversarla. E già con quell’azione si alzò un primo
piccolo polverone ed un odore tipico della muffa umida dell’abbandono colpì le
nostre narici.
Dentro
era buio e, come prevedibile, non vi era alcuna possibilità di illuminare gli
ambienti in modo artificiale, per cui provvedemmo alla meno peggio con delle
torce, non osando procedere nell’apertura di qualche imposta, visto i
precedenti.
Davanti avevamo un grande corridoio che portava verso un altro altrettanto
grande largo passaggio che sulla destra arrivava fino al portone di ingresso
principale, quello di via Gobetti.
A sinistra c’era una porta più piccola e Gabriele mi disse che era quella del
Teatro. La aprì senza grandi sforzi e mi precedette. La austera struttura
ottocentesca mi apparve nel suo totale abbandono. Fui colpito da un cumulo di
residui di varia natura: calcinacci, stracci, legni di varia misura che erano
appartenuti ad oggetti inqualificabili, e sulle pareti scritte di vario genere
ed una svastica di grandi dimensioni.
L’abbandono era evidente, ed anche lo smarrimento della ragione: a me appariva
un ritorno in una dimensione che non avevo conosciuto ma della quale avevo
sentito argomentare e che aveva prodotto in me profondi turbamenti: immaginai
per un attimo di trovarmi in un luogo che era stato attraversato dalla violenza
e misuravo i miei passi. Salimmo con trepidazione intellettuale ai piani
superiori, là dove c’erano state le aule e le camerette degli orfani.
Tutto sossopra e tanta polvere, porte scardinate, mura sgretolate ed in fondo,
in un angolo di una stanza buia, una culla, a segno di una presenza infantile
non troppo tempo addietro.
Da altre scale ci spingemmo poi al piano superiore, l’ultimo e più alto fatto
di sottotetti ampi ed abitabili. Qui la confusione era minore, forse non era
stato accessibile negli ultimi tempi! C’erano delle finestre oblique che
spingevano la mia curiosità. Mi allungai salendo su un tavolo ed allungando lo
sguardo al di là dei vetri osservai lo skyline del centro di Prato con i vari
campanili svettanti. Osai scendere dal tavolo con un salto e mi ritrovai con
una lussazione alla caviglia destra. Scesi dolorante le scale ed andai al
Pronto Soccorso, evitando di menzionare compagnia e luogo dove mi ero
infortunato, non essendo possibile alcuna copertura assicurativa per un’impresa
di quel genere.
Essenzialmente per questo motivo rinviai le riprese alla primavera successiva.
…fine
parte 4….continua
parte 5
Il
fumo delle fiamme ormai sopite si diffonde sulle rovine della città. Tutto
intorno è distruzione. Le donne si muovono come ectoplasmi tra cumuli di
macerie. La tragedia di Euripide, “Le Troiane”, quella che narra degli ultimi
istanti della permanenza delle donne nella loro città, mentre attendono il
compimento del loro destino di schiave “deportate” alla corte degli Achei
(Cassandra viene data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo ed Ecuba a Ulisse),
appariva la più adatta ad essere un riferimento con un’analoga vicenda tragica
del XX secolo che ci apprestavamo a ricordare.
Il sopralluogo che aveva lasciato il segno sulla mia caviglia ne aveva tuttavia
impresso uno più solido nel mio animo: quelle immagini di abbandono,
quell’odore intenso di muffa, quella polvere che si sollevava naturalmente ad
ogni passo ad ogni spostamento di infissi, quegli oggetti che parlavano di vite
che erano di là transitate apparivano nella mia memoria una naturale location
per una messinscena teatrale utile a rinnovare il ricordo per le nuove
generazioni ai quali intendevo dedicare il mio impegno intellettuale.
il lavoro di costruzione della sceneggiatura era stato continuato ed avevamo
fatto crescere l’attesa per il giorno in cui avremmo avviato le riprese. Avevo
temuto che qualcuno avesse potuto recarsi all’interno del complesso “Magnolfi”
a ripulire gli ambienti: la fiducia era ovviamente e per fortuna mal riposta.
Facemmo un nuovo sopralluogo con l’operatore ed il tecnico del Metastasio.
Pippo Sileci mi accompagnò, insieme ad un primo gruppo di giovani del
“Cicognini” e del “Dagomari”. Avvertimmo tutti di essere molto attenti nel
procedere: sapevamo di avere una responsabilità che andava oltre il lecito. In
quel luogo cadente poteva accadere anche qualcosa di pericolosamente
irreparabile. In effetti trovammo tutto nello stesso ordine in cui quattro mesi
prima avevamo lasciato quegli spazi: la stessa polvere – forse qualcosa di più
non certo di meno – e gli stessi oggetti, gli stessi orrendi graffiti. La foto
che allego riprende un momento di quel sopralluogo.
Chiedemmo
al tecnico teatrale di poter avere un minimo supporto con una macchina del fumo
ed un generatore elettrico per l’illuminazione artificiale.
Decidemmo poi insieme ai giovani la data per le riprese. Quella parte del testo
che doveva fare da introduzione era praticamente già pronta nella recitazione.
Occorreva impostare i movimenti e scegliere le diverse posizioni scenografiche.
Questo è il testo da “Le Troiane” di Euripide, che viene recitato da Irene
Biancalani (Coro), Stefano Mascagni (Taltibio) e Giulia Risaliti (Ecuba).
Coro. “Povera madre, che ha visto
spegnersi con te le speranze più belle. Ti credevamo felice, perché disceso da
una stirpe grande; e atroce fu la tua morte. Vedo in alto alle mura braccia che
muovono fiamme nell’aria. Il fato vibra un altro colpo su Troia.”
(Rientra Taltibio seguito da
guardie)
Taltibio.
“Ordino a voi, uomini prescelti
a distruggere la città di Priamo, di appiccare il fuoco alle case, affinché
dopo aver tutto annientato e bruciato, possiamo salpare liberamente da Troia.
Voi, figlie dei Troiani, appena sentirete uno squillo oscuro di tromba,
recatevi alle navi degli Achei per partire con loro. E tu seguile,
infelicissima vecchia. Costori son venuti a prenderti da parte di Ulisse, di
cui ti fa schiava il destino.”
Ecuba.
“Misera
me. Ecco l’estrema, veramente il colmo, di tutte le mie sciagure: mi spingono
fuori, lontana dalla patria che brucia. Vecchio piede, affrettati, con il corpo
stanco: affrettati veloce a rivolgere l’ultimo saluto alla povera patria.
Troia, che un tempo respiravi di grandezza, tu perdi il tuo nome superbo. Tu
ardi e noi ti lasciamo. Voi, o dei… Ma perché invoco gli dei? Essi non odono.
Nè mai hanno udito la mia voce, che pure fu alta. Su, corriamo dove l’incendio
arde. La morte più bella per me è là, con le fiamme della patria.”
parte
6
Il
videofilm ha inizio con il buio. Scegliemmo congiuntamente quella forma,
seguita subito dopo dall’ouverture corale della Passione secondo Matteo BWV 244
di Johann Sebastian Bach
Kommt, ihr Töchter, helft mir klagen
Kommt,
ihr Töchter, helft mir klagen,
sehet!
– Wen? – Den Bräutigam.
Sehet
ihn! – Wie? – Als wie ein Lamm.
Sehet!
Was? – Sehet die Geduld!
Sehet!
– Wohin? – Auf unsre Schuld!
Sehet
ihn aus Lieb und Huld
Holz
zum Kreuze selber tragen!
Venite, figlie, aiutatemi a
piangere…
Guardate!
– Chi? – Lo sposo.
Guardatelo!
– Come? – Come un agnello.
Guardate!
– Che cosa? – Guardate la pazienza!
Guarda!
– Dove? – Per nostra colpa!
Guardatelo
come per l’amore e per la grazia
porta
egli stesso il legno della croce!
Quando arriva la luce ci troviamo nella platea del Magnolfi con una breve
carrellata sulle macerie e sulla svastica disegnata in modo grossolano sopra
una delle pareti. Ci si sposta poi ai piani superiori dove il Coro, Taltibio ed
Ecuba con altre ancelle-donne si muovono nell’esprimere il senso fatale del
loro destino di oppressori ed oppressi.
Al termine del testo euripideo Ecuba si allontana nell’ombra divenendo
anch’essa ombra errante. Il buio ritorna ad essere forma e in lenta dissolvenza
lascia il posto al segno del tempo che scorre fino ad una deflagrazione
espressa attraverso le immagini di Zabriskie point del maestro Michelangelo
Antonioni sotto le quali voci confuse di idioma germanico sovrapposte indicano
l’avvento del nazismo con le sue minacce nei confronti della libertà e della
democrazia.
Ecuba ritornerà nella scena finale come ombra solitaria che
ripercorre le stanze della patria abbandonata, memore della tragedia consumata
con la morte atroce del piccolo Astianatte. Ci aiutarono moltissimo le parole
del testo (“NON POSSO TACERE GLO ORRORI – per Suada e gli altri) elaborato
insieme al professor Antonello Nave in una scrittura drammaturgica in un atto
fra la guerra di Troia e quella di Bosnia, che qui di seguito riporto:
(il brano è il numero 7)
Giulia-Ecuba: lamento su un
bambino ammazzato.
“Tu
piangi, bambino? Hai dei tristi presentimenti? Perché ti avvinghi a me, ti
stringi alle mie vesti, perché ti getti sotto le mie ali come un uccellino?
Ettore non uscirà da sottoterra, impugnando la lancia, per salvarti; la
famiglia di tuo padre e la forza di questa città non esistono più. Non ci sarà
pietà: precipiterai con un salto orribile dalle mura, sfracellato esalerai
l’ultimo respiro.
Cosa
aspettate?! Su, forza, scaraventatelo dalle mura, se avete deciso così:
spartitevi le sue carni. Perché gli dei ci annientano e noi non possiamo
impedire la morte di questo bambino.
Perché
vi siete macchiati di un delitto tanto mostruoso? Per paura di un bambino?
Temevate che avrebbe resuscitato Troia dalle sue ceneri?….”
A
questo testo in uno dei miei commenti avevo fatto precedere un’elaborazione
ispirata dal titolo “NON POSSO TACERE GLI ORRORI” dei testi sopra riferiti.
“Io, io non posso tacere gli
orrori
non
posso tacere l’umana perversa follia
non
posso tacere le infinite tragedie delle guerre che chiamano “civili”
non
posso tacere l’arrogante presunzione dell’animo umano.
Non
posso tacere l’ottusa intolleranza
non
posso tacere le umiliazioni, le torture,
la
volontà di annientamento totale dell’avversario
le
“pulizie etniche”,
il
fanatismo ideologico e religioso
non
posso tacere la stupidità di chi, senza mai dubitare, acconsente.
Non posso tacere gli orrori di questo secolo che si
compie.”
Queste
parole vengono pronunciate da Giulia Risaliti mentre percorre le stanze e vi
fanno eco gli altri componenti (Irene Biancalani, Stefano Mascagni e Linda
Pirruccio)
fine
parte 6….continua….
Joshua
Madalon
parte
7
Bisogna parlare,/addestrare la
memoria/per ricordare.
Venti anni fa,
più o meno un anniversario perché fu nella prima parte del 1998 che girammo
quel videofilm sull’Olocausto, tra i giovani studenti collaboratori per la
scrittura della sceneggiatura ci furono anche due poeti, Luca Vannini del Liceo “Cicognini”
(quello collegato al Convitto in Piazza del Collegio) e Lisa Panella dell’ITC “Paolo
Dagomari”.
I
loro versi arricchirono di un valore superiore la sceneggiatura, accompagnando
immagini di repertorio, quelle più crude e drammatiche dei campi di sterminio.
Ai diffusori di menzogne e creatori di scetticismi diffusi consiglio di vedere
quei reportage che furono ripresi “in diretta” dagli operatori che
accompagnarono la Liberazione; proprio per evitare che quel genocidio
perpetrato nei confronti degli Ebrei, delle minoranze e degli oppositori
politici al regime nazifascista fosse occultato agli occhi della società
locale, i membri di quest’ultima furono invitati a visitare quei luoghi: dalle
riprese di operatori, tra i quali va ricordato Alfred Hitchcock, notiamo in un
primo momento il loro atteggiamento come visitatori comuni in gita di piacere e
poi, di fronte alle cataste umane di morti e semimorti, scheletri vaganti, il
raccapriccio e l’orrore.
Qui di seguito trascrivo una delle poesie di Luca Vannini
riportata a pagina 37 del suo libro “La Disperazione Di Non Esistere” edito nel
1996 da Attucci. Il titolo è
“CIVILTA’”
Ho seguito centinaia di
processioni,
Ho
preso parte al più misero
Dei
riti funebri.
Nella
mia giovane vita
Ho
visto crocifiggere
L’innocenza
Da
giovani ariani,
Che
protendevano il loro braccio
Verso
il paese in cui
Non
sorge più il sole;
Ho
visto seppellire
La
Libertà
Sotto
il putrido fango
Dell’intolleranza
e dell’odio:
Ho
visto squallidi becchini
Vomitare
il loro disprezzo
Sulla
tomba dell’eguaglianza.
Ho
visto la carcassa putrefatta
Della
giustizia,
Scarnificata
dall’ingordigia
Di
luridi vermi.
Ho
visto il cadavere
Della
solidarietà
Penzolare
inerte
Dal
cappio dell’egoismo.
Ovunque
l’uomo.
Ovunque
la morte.
Non so
cosa mi spinga
A
vivere in questo
“Olocausto”.
Questi
versi portano in calce una data, il 28 gennaio 1995, a conferma che
l’ispirazione sia stata collegata proprio al giorno precedente, il 27 gennaio.
Da ricordare che l’istituzione ufficiale di una Giornata da dedicare alla
Memoria dell’Olocausto nel nostro Paese è datata 20 luglio 2000; l’ONU l’ha
istituita il 1° novembre del 2005. Storicamente e nella sensibilità diffusa si
operava nei contesti scolastici e nella società sulla data del 27 gennaio già
negli anni precedenti al suo riconoscimento.
Un’altra
delle poesie di Luca Vannini accompagnò proprio le immagini dei “visitatori”
autoctoni al campo di Auschwitz, quelli di cui si dice sopra. Il titolo è
esemplificativo dell’atteggiamento di questi, vestiti a festa come se si
trattasse di una piacevole escursione.
“GIORNI DI FESTA”
Ora, ora che i giorni
trascorrono
Vuoti,
immutabili, spenti,
Ora
che la solitudine è la mia
Unica
compagna,
Ora
che la melanconica e atroce
Vacuità
dell’esistenza si fa viva,
Comprendo
quale triste e disperato
Destino
ci sia riservato.
E non
so se andarmene
O se
restare: se fuggire
Quest’ultimo,
inutile giorno di festa.
L’altra
poeta, Lisa Panella, compose in diretta due testi senza titolo. Ne ripropongo
uno.
Quando l’odio sprofonda
nelle
menti deboli,
la
passione spietata
pervade
nei diletti pensieri.
Pastori superiori,
questi
schiavi del male,
disegnano
progetti corrotti:
concentrano…
correggono…
cancellano….
finiscono
l’intento
…e
muoiono.
Così
si confondono
i lamenti innocenti
con lo sfondo dell’universo.
Non riconosci le voci?
Gli
uomini
vestiti tutti uguali
vivono
e piangono preghiere,
ingoiano il silenzio
lentamente.
Ogni
palpito diventa un grido,
ogni attimo, tremito ardente.
Ancora
adesso
mi affonda nel cuore
l’inquietudine
di quegli sguardi languidi.
Bisogna parlare,
addestrare
la memoria
per
ricordare.
Riprenderemo
da questo nel prossimo post: Bisogna parlare,/addestrare la memoria/per
ricordare.
Joshua
Madalon
parte
8
“…Bisogna parlare,
addestrare
la memoria
per
ricordare.”
Con questi
versi si concludeva il brano poetico di Lisa Panella che ho “posto” ad apertura
e chiusura del mio intervento di ieri su questo Blog.
All’interno del video vi sono due miei specifici interventi concordati nel
gruppo di scrittura che ha sceneggiato il videofilm “”APPUNTI…SULL’UMANA FOLLIA DEL
XX° SECOLO: LA DEPORTAZIONE”
“CAPIRE – RICORDARE – NON
DIMENTICARE – NON E’ STATO FACILE DIMENTICARE QUESTA ESPERIENZA DELLA
DEPORTAZIONE PER CHI L’HA VISSUTA DIRETTAMENTE ED E’ RIUSCITO A TORNARE.
PER
GLI ALTRI, QUELLI CHE SI DICHIARANO SCETTICI, QUELLI CHE SI DICONO PACIFISTI
COME TANTI DI NOI, LA CONOSCENZA E LA CULTURA DEVONO VIAGGIARE DI PARI PASSO
COL DUBBIO, ATROCE MA RICCO DI SIGNIFICATO.
OGGI,
IN TEMPO DI DEMOCRAZIA, CIASCUNO DI NOI LIBERAMENTE E SENZA PAGARNE ALCUNA
CONSEGUENZA PUO’ ESPRIMERE LA PROPRIA OPINIONE, IL PROPRIO PENSIERO.
COSA
AVREMMO FATTO, ALLORA, IN UN REGIME OPPRESSIVO E TOTALITARIO?
SAPERE
E RICORDARE SERVE A MIGLIORARE CIASCUNO DI NOI E PUO’ SERVIRE A NON RIPETERE
GLI STESSI DRAMMATICI ERRORI.
MA
OCCORRE ANCHE SAPERE CHE IN QUESTO SECOLO ED IN QUESTO SCORCIO DI FINE SECOLO
TROPPI SONO STATI GLI ORRORI IN NOME DELLA RAZZA, IN NOME DEI NAZIONALISMI, IN
NOME DELLA RELIGIONE, E DI QUESTI ERRORI SI SONO MACCHIATI ANCHE GIOVANI CHE SI
CONSIDERVANO FINO AL GIORNO PRIMA PACIFISTI, CHE SI RITENEVANO PIENAMENTE
DEMOCRATICI, CHE CONSIDERAVANO CON ATTENZIONE LE IDEE DEGLI ALTRI, MA CHE SI
LASCIAVANO AFFASCINARE DAL POTERE – DAL POTENTE DI TURNO.
SUL
DUBBIO BISOGNA COSTRUIRE IL NOSTRO FUTURO NON PER GIUSTIFICARE QUALSIASI NOSTRA
POSSIBILE SCELTA ED AZIONE MA PER RAFFORZARE LE SCELTE PER LA PACE, LA
DEMOCRAZIA, LA TOLLERANZA.”
Questo
è il primo. Il secondo è “corale”: sulle scene finali di guerra e di
distruzione Giulia e gli altri giovani del Liceo Classico “Cicognini”, quello
di via Baldanzi per capirci ed in particolare il gruppo teatrale scolastico
diretto dal prof. Antonello Nave, leggono questo brano, a me ispirato dal
titolo del testo di cui parlo in uno dei post precedenti, quello relativo alla
parte 2 del 17 gennaio u.s..
“IO, IO NON POSSO TACERE GLI
ORRORI
NON
POSSO TACERE L’UMANA PERVERSA FOLLIA
NON
POSSO TACERE LE INFINITE TRAGEDIE DELLE GUERRE CHE CHIAMANO “CIVILI”
NON
POSSO TACERE L’ARROGANTE PRESUNZIONE DELL’ANIMO UMANO.
NON POSSO TACERE L’OTTUSA INTOLLERANZA
NON
POSSO TACERE LE UMILIAZIONI, LE TORTURE,
LA
VOLONTA’ DI ANNIENTAMENTO TOTALE DELL’AVVERSARIO
LE
“PULIZIE ETNICHE”, IL FANATISMO IDEOLOGICO E RELIGIOSO
NON
POSSO TACERE LA STUPIDITA’ DI CHI, SENZA MAI DUBITARE,
CONSENTE.
NON
POSSO TACERE GLI ORRORI DI QUESTO SECOLO CHE SI COMPIE.”
Oggi è il 27 gennaio 2018.
Oggi
è la giornata dedicata alla MEMORIA di quella subcondizione dell’animo umano,
non solo quella degli oppressi ma anche quella degli oppressori.
Se
non si analizzano le ragioni profonde che portarono nel corso della prima metà
del secolo scorso a quelle aberrazioni e nel corso dei decenni successivi ad
altre simili nefandezze il mondo nella sua globalità procederà verso
un’autodistruzione inevitabile.
Non
si può pensare di fermare le Destre razziste e violente senza un riconoscimento
degli errori costanti che la Sinistra democratica e progressista ha per
debolezza e sottovalutazione inconsapevolmente compiuto. Quei giovani che
sollevano braccia e grida minacciose verso l’altro, il diverso, lo straniero
interpretano la realtà spesso condizionati da un’emarginazione sociale
all’interno di contesti che non hanno prodotto risposte al loro desiderio di
giustizia. Molti di loro sono strumenti umani nelle mani di fomentatori
ideologici. Tocca alla vera Democrazia fornire risposte adeguate ai bisogni
diffusi; diversamente queste organizzazioni troveranno sempre più adesioni e le
conseguenze potrebbero essere davvero tremende!
Joshua
Madalon