Un’involuzione involuta a forma di spirale (per capirci un po’) solo un’introduzione

Un’involuzione involuta a forma di spirale (per capirci un po’)

Era attesa. La linea di deriva autolesiva ha preso decisamente forma davanti agli occhi della società. L’errore fondamentale era insito nel suo stesso DNA, anche se probabilmente era costitutivo ma non è stato in grado di corrispondere coerentemente poi alle modifiche delle condizioni politiche e sociali in cui il Movimento 5 Stelle si è imbattuto per propria scelta nel corso di questo quinquennio. Era del tutto inevitabile: se “partecipare” ad una contesa elettorale ha naturalmente come obiettivo l’ottenimento di consensi ciò produce – tra le variabili – anche la possibilità di vittoria, pur se si trattasse di maggioranze relative oltremodo significative, come quella del 2018 (32,68%).

Il M5S era del tutto impreparato a sostenere il nuovo ruolo, così rapidamente conquistato; solo i suoi sostenitori esultarono, in modo particolare tutta la parte della società che sognava rivincite contro le ingiustizie sempre più diffuse, sempre più nel corso degli anni trascurate dalla Politica delle forze governative (in modo particolare quelle della Sinistra, cui tradizionalmente si guarda, come difenditrice degli interessi dei più deboli).    Non era facile (non lo sarebbe stato per chicchessia) cambiare immediatamente strategia; nè tanto meno “tattica”, anche se non essendo possibile governare un Paese con una minoranza pur se considerevole, era proprio necessario attivare un processo di trasformazione repentina. La fretta non può essere buona consigliera, a meno che non ci si infili in una spirale tirannica, per attivare la quale, però, non si può parimenti agire all’impronta: occorre una preparazione accuratamente disposta in anticipo.

Per governare dunque c’era bisogno di accordi e questo contraddiceva nel profondo l’essenza del Movimento.

FUOCHI – UN PERCORSO NELLA MEMORIA 

FUOCHI – UN PERCORSO NELLA MEMORIA

Prima di arrivare al sentiero che conduce verso Punta Serra c’è una strada sterrata abbastanza larga per consentire il passaggio di piccoli veicoli agricoli ad uso dei parulani della zona; è una strada solitamente molto polverosa d’estate che sbuca su un costone roccioso tufaceo dal quale vi è una delle più belle vedute dell’isola d’Ischia. E’ alto un settanta metri sulla spiaggia di Ciraccio che poi continua, interrotta parzialmente da una propaggine prospiciente, che quando ero ragazzo ricordo che si attraversava da un’ampia cavità interna (oggi credo sia parzialmente crollata e che abbia lasciato una sorta di faraglione), verso la spiaggia della Chiaiolella. Sullo sfondo poi l’Isola di Vivara collegata da un ponte in ferro e muratura. Da ragazzo a volte anche insieme ai cugini, in un primo tempo accompagnati dai nostri genitori e successivamente da soli ed in buona compagnia, scendevamo dalla costa attraverso sentieri comodi prodotti dai pescatori del luogo che da lì raggiungevano la spiaggia per salpare con le loro imbarcazioni, custodite in rimessaggi scavati nel tufo. Alcuni di questi ricoveri oggi sono stati bloccati da crolli delle pareti rocciose, così come i sentieri non sono più agili e percorribili senza rischiare di caracollare e sfracellarsi.
Ma il luogo è sede di ricordi indelebili di grandi amicizie: arrivati sul bordo del costone c’è un sentiero aperto prima di girare a destra per inoltrarsi verso Punta Serra e c’è una sorta di palcoscenico naturale che consente a chi si siede di avere anche le spalle coperte da un blocco per cui ci si sta davvero comodi ad apprezzare il panorama del mare di giorno e di notte. E noi andavamo spesso là, così come credo abbiano fatto i nostri parenti più anziani quando erano giovani e quando non erano condizionati da eventi drammatici come quello delle guerre. Era un luogo classico per gli innamorati: si poteva stare da soli come coppie ma anche in compagnia e potevano nascere storie come quelle di grandi amici miei. Ho sempre immaginato che anche mia madre e mio padre ci fossero stati! D’estate era d’obbligo in alcune serate andarci: il 10 agosto soprattutto in un cielo limpido e senza luna ci si stendeva e si attendevano gli scrosci di stelle cadenti per formulare i nostri desideri, mentre le luci dell’isola di Ischia, Ischia Porto e Casamicciola, si riflettevano sul mare ad un tiro di schioppo a poche miglia di distanza. Quella notte c’era tanta gente, era una tradizione andare da quella parte, anche perché già negli anni Sessanta del XX secolo, era meno presente quello che abbiamo poi imparato a conoscere come “inquinamento luminoso”. Di là c’erano le città, di qua il mare e l’Isola d’ Ischia che, pur essendo già un luogo molto frequentato dal turismo di qualità, era pur sempre un’isola. Procida era poi la più piccola, la più umile e modesta, anche se la più popolosa per densità; ma ancora agli inizi degli anni Sessanta alcune frazioni non erano state raggiunte dall’elettricità.

Sistemavamo i plaids sull’erba e sulla non troppo alta dorsale di terriccio e ci si appoggiava a mo’ di poltrona che “allora” con i nostri venti anni non ci sarebbe mai potuto apparire scomoda. Laddove la compagnia era dolce ci si accostava delicatamente e ci si teneva per mano, fingendo di non trovare motivo alcuno di attrazione con gli occhi rivolti al di là del mare ed il cuore e la mente che correvano l’uno incontro all’altra. Su quel costone ci si andava di notte, durante la settimana quando gli impegni mondani nei locali dove ci si scatenava ballando ci permettevano di organizzarci più liberamente ed in modo più o meno segreto ed appartato. Più o meno perché eravamo un gruppo ridotto e non praticavamo grandi compagnie: i locali dove si ballava erano quasi sempre aperti a tutti, avevi solo l’obbligo della consumazione e quello di essere cortese e generoso con le ragazze; non somigliavano affatto ai night degli anni successivi, quasi sempre si affacciavano su panoramiche terrazze, come l’”Eldorado” e lì poi ci suonava un gruppo di amici, i “Sailors”, con i quali mi incontravo quando preparavano i loro pezzi e ricordo che provai anche con scarso successo ad inserirmi come “vocalist”.
In quel periodo le vacanze duravano molto più a lungo; si ritornava a scuola ai primi di ottobre e settembre era un mese ottimo per prolungare le nostre storie, anche se alcune continuavano, altre si interrompevano; c’erano i forestieri che avendo affittato appartamenti per il mese di agosto lasciavano l’isola ai primi giorni di settembre e, di norma, anche le relazioni costruite in quei contesti finivano con la promessa di rivedersi al più tardi l’anno successivo. Erano gli amori “estivi”; poi si ritornava alla vita normale e si riallacciavano eventualmente le relazioni locali, laddove non fossero state interrotte in modo tempestoso.
Ai primi di settembre poi a Ischia ponte, che è quella parte dell’Isola che sta tra il porto ed il castello Aragonese, si ricorda il santo patrono, San Giovan Giuseppe della Croce e da bambino in qualche occasione ho partecipato direttamente a quei festeggiamenti andandoci con delle barche a motore dei cugini di mia madre; c’è sempre stato un buon rapporto di vicinato con la sorella maggiore tra Procida la più piccola ed Ischia la più grande delle isole campane. E così nell’andare avanti con gli anni e con gli interessi diversi si privilegiava l’aspetto profano rispetto a quello religioso; non è certamente solo quest’ultimo a spingere i fedeli, in quanto si approfittava dell’aria di “festa” anche per la parte ludica e quella eno-gastronomica con prevalenza della prima sulla seconda.
Il clou dei festeggiamenti è lo spettacolo pirotecnico che si è sempre caratterizzato per la sua straordinaria ricchezza di colori e per la partecipazione di grandi maestri di quell’arte.
Dal costone quei fuochi erano un degno finale di stagione per tutti noi.

Sull’isola, la più minuta ed umile delle Campane, molti sono i luoghi di culto, a partire da quella dedicata a San Michele Arcangelo. A me cara fu quella della Ss. Annunziata- Madonna della Libera vicina all’abitazione di una delle mie zie dove negli anni Sessanta arrivò uno di quei preti giovanili che utilizzavano l’oratorio sullo stile di Giovanni Bosco ed apparivano trasgressivi agli occhi dei bigotti ortodossi. La sua era una modalità coinvolgente ed aveva costruito un gruppo di giovani che preparava eventi amatoriali che riuscivano ad intrattenere i parrocchiani nei pomeriggi del fine settimana, quando anche io li trascorrevo in quei luoghi. Tra i tanti luoghi di culto ricordo la Chiesa di S.Antonio Abate (“Sant’Antuono” per distinguerlo da quella di S.Antonio da Padova non molto distante) dove le mie zie signorine già attempate mi portavano in alcune sere a seguire le loro giaculatorie nel periodo delle Quarantore o in particolari periodi per la recita del Rosario. Non erano frequenti e la mia attenzione era già allora di tipo antroposociologico ed osservavo con una certa attenzione la prossemica teatrale delle fedeli. Sin da bambino seguivo con grande partecipazione alcuni dei momenti parareligiosi, potrei dire popolari, che contornavano le ricorrenze: uno di questi era “’o fucarazzo”, cioè i fuochi di Sant’Antonio che non hanno nulla da spartire con la patologia dolorosa omonima.

Era (e dico “era” perchè non so se ancora oggi viene praticata questa usanza) un grande falò che veniva approntato nei giorni precedenti al 17 gennaio, giorno dedicato alla figura di Sant’Antonio Abate protettore degli animali (nella funzione religiosa del 17 gennaio i fedeli portano con sè i loro piccoli, medi ed a volte anche grandi, come cavalli e muli, animali per farli benedire). La tradizione del falò sembra collegarsi al ruolo che quel Santo avrebbe nel salvare gli uomini dalle fiamme dell’Inferno. Eppure dal punto di vista climatico quel giorno in ogni caso segna un punto centrale nel passaggio tra la parte più fredda dell’anno a quella più mite (siamo a metà inverno) e ci si prepara alle varie fasi dell’agricoltura dopo il riposo postautunnale. Davanti al fuoco c’è festa, allegria soprattutto per i giovani è un momento magico di ritrovo e di complicità; anche per me lo è stato come lo fu per le popolazioni primitive, i nostri antichissimi progenitori che con il fuoco impararono a costruire il loro futuro, allontanando i pericoli, rielaborando i cibi in modo più adatto alle loro esigenze e creando la comunità. Intorno al fuoco ci si riuniva anche nella intimità delle case non ancora dotate di forma alcuna di riscaldamento che non fosse fornito dai bracieri e la sera si narravano le storie, quelle personali fatte di ricordi elaborati e quelle tradizionali, sotto forma di favole che venivano tramandate da madre a madre. Intorno al fuoco.

Erano quasi le venti ed avevamo appena finito di cenare, Mary ed io con I bambini. Quella stessa sera eravamo tornati da Napoli dove avevamo avuto impegni di lavoro e di famiglia. I bambini erano rimasti con i nonni al mare e noi a scuola per gli Esami di Stato. Finiti quelli, avevamo programmato di tornare a casa, a Prato per una settimana e saremmo andati poi in vacanza per un altro paio di settimane sulla riviera romagnola.
Il viaggio di ritorno era stato come sempre snervante. I nonni facevano a gara per colmarci di cibarie tradizionali – il pane, la mozzarella, i pomodori buoni, il vino, l’olio – questi due ultimi dopo la nascita del secondo bimbo avevamo evitato per mancanza di spazio di portarli. I primi no, perché a Lavinia il “pane di Pozzuoli” piaceva da matti e per noi la “mozzarella di bufala campana” è ancora oggi il non plus ultra dei prodotti tipici. I pomodori, poi….erano quelli grandi e senza molti semi. Caricare la macchina era uno stress e lo è ancora oggi. E poi dover percorrere 500 chilometri non era poco, se per farne solo dieci ci si impiegava un’ora nel traffico intenso sulla Tangenziale, irta di pericoli che non ti aspettavi con autisti di Formula 1 su Alfette e 500 che zigzagavano a tutto gas, senza controlli e senza alcuna segnalazione. Mary era stanca e si insediò nello studio, lasciando tutte le finestre e le porte-finestre aperte e spalancate perchè passasse un po’ di aria fresca.
Avevo promesso ai bambini di portarli fuori: loro non erano stanchi, si erano svegliati tardi quella mattina e poi avevano dormicchiato per alcune ore durante il viaggio.
Lavinia si preparò più velocemente del solito, mentre per Daniele fu necessario il mio aiuto. Era già buio quando uscimmmo di casa. Io ero già cotto abbastanza ed avrei volentieri fatto a meno, ma ogni promessa, come si dice, è un debito. E così uscimmo. Malvolentieri allo stesso modo risalii in macchina, ne avrei fatto a meno ma non potevamo andare a piedi. Il luogo era un parco di medie dimensioni che durante l’estate veniva utilizzato per feste e fiere varie e quella era l’ultima sera della Festa de l’Unità. Parcheggiammo in uno spiazzo sterrato abbastanza sconnesso e polveroso; ci aiutò a cercare un posto in una marea di auto un ragazzo di colore che mi chiese un contributo. Poi come sempre accadeva c’era la forca dell’ingresso con la distribuzione delle coccarde a quel tempo ancora rosso fuoco, in cambio di un contributo a piacere, minimo 1000 lire però! L’ingresso era comunque quello secondario che portava ad un viale appartato dal resto della Festa, ma fummo tutti sorpresi dalle voci che sentivamo provenire dal pratone al di là delle alte siepi. Lavinia e Daniele saltellavano mentre ancora li tenevo per mano, timorosi di potersi smarrire tra la folla. Le voci indistinte e confuse ci arrivavano mentre i venditori degli stand che erano sistemati lungo il vialone principale invitavano gli astanti e i passanti ad assaggiare i loro prodotti o ad acquistare l’ultimo dei biglietti disponibili per il sorteggio che di lì a poco – dicevano – sarebbe avvenuto con l’utilizzo della ruota. Daniele era attratto dallo zucchero filato mentre Lavinia gradiva le schifezzuole gommose davvero disgustose.

Riprendo un racconto che avevo interrotto lo scorso 9 dicembre (parte 4) che era stato preceduto il 22 novembre dalla parte 3, l’ 8 di quello stesso mese per la parte 2 e per la prima parte il 5 novembre.
Il racconto partendo da eventi occasionali – esposti tuttavia in una parte introduttiva relativa ad una recensione datata 13 settembre 2014 che qui sotto riporto – si spinge poi nelle due parti conclusive (la quinta, questa!) e la sesta, che pubblicherò nei prossimi giorni, a rievocare una Festa de “l’Unità”, una delle tante, ora che sono diventate solo un ricordo!


FUOCHI di Joshua Madalon – Un preambolo (13 SETTEMBRE 2014)

I fuochi d’artificio non si guardano mai da soli; sin da bambini ci hanno abituati a goderli “insieme” agli altri. E ancora adesso che ho figli adulti quando mi capita di sentire scoppiettii mentre lavoro in casa nelle notti sempre più insonni li chiamo a raccolta per goderne gli effetti variopinti e fantasmagorici. Se devo andare con la memoria a dei “fuochi” particolari nella mia mente ce ne è uno che ha rappresentato l’arrivederci per un gruppo di amici che, dopo poco, si è distribuito su territori diversi per lavoro. Di qualcuno di questi ho il profondo rimpianto di non poterlo rivedere. Eravamo ventenni ed a fine Agosto a Procida sul costone del sentiero che porta a “Fore Serra” e che guarda dall’alto Ciraccio, Chiaiolella, Vivara e Ischia attendevamo intorno alla mezzanotte i tradizionali “fuochi” della festa dedicata a San Giovan Giuseppe della Croce. E’ un ricordo per diversi motivi malinconico ma straordinariamente fissato nella mia memoria che ritorna ogni volta che assisto ai “fuochi” anche qui, dove vivo da alcuni anni, a Prato.
Ed è stato così giocoforza riandarci con la mente, avviando la lettura di “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” scritto da Vincenzo Gambardella. L’autore sarà presente a “Libri di mare libri di terra” Festival della Letteratura nei Campi Flegrei che si svolgerà a Pozzuoli, Bacoli e Monte di Procida dal 26 al 28 settembre. Ho già scritto nell’anticipazione che si trattava di un libro complesso e difficile, e mi riferivo in particolare alla qualità della scrittura che si basa su una prosa tecnica elaborata con un gergo popolare che, sin dall’inizio, impone al lettore una revisione profonda nell’approccio consuetudinario ai testi che circolano correntemente. Ma, attenzione, il mio è un giudizio condizionato dall’impressione che ho avuto dopo letture di ottimo livello ma caratterizzate da lessici a me familiari. Niente di tutto questo troverete in “Vinicio Sparafuoco…”! Ma dopo la prima fatica vi assicuro, e lo sottolineo senza ambiguità e condiscendenza supina o piaggeria che dir si voglia, che ci si trova davanti ad un autentico capolavoro letterario.

La storia narrata è quella di un gruppo di amici che si formano intorno al protagonista Vinicio Pierro come fuochisti. Nel libro il gergo particolare di questa professione è spesso utilizzato in modo scientificamente appropriato e potrebbe servire come “manuale per i principianti” (io stesso sono andato a ricercare sul web alcuni termini come “calcasse”). Insieme questa allegra brigata (ma vi saranno momenti tristi e drammatici anche se raccontati con estrema semplicità) partirà dal golfo di Pozzuoli per andare verso il Nord fino all’algida Germania per poi dopo vicende cui non accenno far ritorno in Costiera amalfitana (Minori) dove alcuni sogni trovano il loro positivo approdo. Se ho dato questo giudizio entusiastico lo si deve al lessico ed alla sintassi frizzante, scoppiettante e variopinta come i fuochi d’artificio. La descrizione dei personaggi è precisa e dettagliata a partire da Vinicio, cuore semplice, generoso ed umile all’inverosimile in una realtà come quella con cui siamo abituati a lottare quotidianamente, un “cuore gioioso” come lui stesso dice di sé con toni ingenui, primitivi e colti allo stesso tempo ma di una cultura popolare che è sempre più martoriata e trascurata (leggansi le “lettere” che Vinicio – in più occasioni – e Costanzo Ceravolo detto Magnesio scrivono anche a personaggi importantissimi come il Negus, la Regina d’Inghilterra e papa Wojtyla). Insieme a queste sono pagine di grande letteratura quelle dedicate alla storia di San Gioacchino e Sant’Anna, il cui culto è praticato a Bacoli, la terra flegrea da cui partono i nostri personaggi ed altre che non mancheranno di coinvolgervi e di trasmettervi piacere, se coglierete il mio consiglio di leggere “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” di Vincenzo Gambardella edizioni “ad est dell’equatore” collana liquid.

FUOCHI – parte 5

Salutai rapidamente alcune compagne che erano sedute davanti alla tenda della Direzione, e che mi avevano invitato a stare con loro per discutere delle questioni politiche di inizio estate, che erano quasi sempre legate ad aspetti marginali, e anche per questo motivo feci segno che ci saremmo visti dopo, un dopo generico, e che ero impegnato con i pargoli, che non avrebbero troppo a lungo tollerato le mie distrazioni. Infatti già prima del mio fugace saluto non degnarono di alcuna attenzione le signore e proseguirono il loro cammino verso uno spiazzo dal quale provenivano musiche e voci, entrambi incomprensibili.
All’improvviso si aprì un varco nella vegetazione e le musiche e le voci divennero ben più vicine ma ugualmente poco chiare, indistinte. Ed insieme a queste in un grande prato illuminato a giorno apparvero centinaia di ragazze e ragazzi dagli occhi a mandorla che si agitavano urlanti verso un palco sul quale si esibiva un complesso formato da giovani ugualmente cinesi ed una ragazza pronunciava parole che il pubblico mostrava di comprendere e di poter condividere cantandole. A conti fatti, dopo la prima sorpresa la melodia era gradevole anche se non ci capivo niente. Lavinia e Daniele, miracoli della giovinezza, non mostrarono alcun disappunto sin dall’ingresso sul prato. Dove si sedettero continuando ad operare sul residuo di zucchero filato e schifezzuole gommose. Feci buon viso a cattivo gioco, ma ho un ottimo spirito di adattamento e mi impegnai, tranquillo per i figlioli che erano ormai bloccati da altre torme assise ed agitate in uno spazio ristretto, ad osservare le fisionomie, le loro smorfie, la loro prossemica del tutto simile a quella delle migliaia di giovani che a mia memoria avevano seguito concerti delle più importanti formazioni pop della mia gioventù. Erano belli di una bellezza che non riesci a cogliere in altri ambienti, quelli scolastici o di lavoro, dove molto spesso hanno un atteggiamento di straordinaria riservatezza. Lì i giovani si agitavano, urlavano, bevevano bibite tassativamente analcoliche e si abbracciavano, si baciavano in modo casto, abbandonando il classico pudore che li contraddistingueva in ambienti ugualmente pubblici ma dove non c’era la musica, che avvicina, accosta, facilita i contatti. Mi venivano in mente concerti degli anni Settanta, i figli dei fiori, la ricerca dell’assoluto, il rincorrere le utopie senza mai riconoscerle tali.
Sul palco intanto si alternavano ragazzi e ragazze gareggiando in una sorta di Karaoke cinese ed allora compresi che l’agitazione esagerata aveva un obiettivo molto pratico di sostegno ai vari concorrenti sia per la qualità sia per una conoscenza diretta da parte dei vari gruppetti di amiche ed amici.
Mi distrasse un attimo l’arrivo di un funzionario del Partito che volle salutarmi ed assicurarsi che nei giorni successivi io fossi a Prato. Volevano programmare alcune iniziative culturali per l’autunno ma pensavano di vedersi quasi a fine luglio. Dissi che non potevo ma che se fosse stato possibile avrei dato la mia collaborazione sin dai primi giorni del mese di settembre, alla ripresa del lavoro scolastico.

Ero stanco, ma allo stesso tempo attratto da quella folla straordinariamente ordinata nella sua giovanile prorompente allegria. E i due rampolli si erano sistemati e partecipavano con insolita attenzione allo spettacolo naturale che si andava svolgendo. Poi, all’improvviso tutto sembrò chetarsi. Anche io avevo trovato un lembo di prato libero e mi ero accovacciato accanto a loro. E fu solo un attimo dopo che mi ero sistemato che un “Ooooh!” collettivo accompagnò il primo fuoco che fiorì proprio davanti a noi alle spalle del palco dal quale si erano esibiti i karaokisti. Il botto che seguì di pochi millesimi di secondo non fu così intenso, nessuno se ne accorse soprattutto perché nello stesso tempo una pioggia di luci sembrò riversarsi su tutti. “Sembrò” con quell’effetto speciale stroboscopico che provoca timore negli inesperti, ma non ve ne furono tanti a rendersene conto. Gli stessi pargoli si erano distesi utilizzando come cuscini alcuni sassi ricoperti dalle morbide giacchettine leggere che Mary mi aveva dato prima di uscire, raccomandandomi di non far loro prendere freddo. Mi girai intorno e mi accorsi che ero tra i pochi ad essere rimasto in piedi e così mi feci fare un piccolo spazio, posi a terra la mia giacca e mi distesi con lo sguardo all’in su verticale ma anche obliquo verso la parte alta del palco. E non tardò dopo l’annuncio, l’apertura che dà il segnale di “attenzione”, a riprendere la “tarantella” delle stelle e delle bombe di varia forma, caratteristica e colore che illuminarono il prato dopo che per rendere migliore l’effetto erano state spente molte delle luci che avevano accompagnato le precedenti esibizioni canore.
Si susseguirono bombe a stelle e colpo scuro di colore rosso e verde a quelle “granatine” e “a raggi”, a “cannelli”, a “crociera di sfere” tutte mescolate con grande sapienza tecnica. E di poi nelle variazioni a più “spacchi” con lancio di di “stelle” a colori diversi che si dirigono in varie direzioni e sembrano quasi volerti abbracciare e colpire; ed ancora con “paracadute” ed altre forme geometriche, colorate ed eleganti come le bombe giapponesi di vario calibro. Tutto durò una buona mezzora anche se il tempo sembrò molto più breve e veloce. Il finale fu epico, tambureggiante, come ben si addice a professionisti di primo livello e con gli ultimi boati, quelli sordi, che danno il senso della compiuta operazione pirotecnica, partì un applauso sincero corrispondente alla felicità che era stata diffusa su quel prato.
Tempo dieci minuti, un deserto: o quasi. I bambini erano visibilmente stanchi, Daniele volle essere preso in braccio che non reggeva più dal sonno, forse anche Lavinia se ci fosse stato un posto libero tra le mie braccia ne avrebbe approfittato. Ma erano già occupate e da un peso non indifferente. Ma tant’è: mi avviai al parcheggio lungo il vialone che era ormai semideserto. Avevo anche il viaggio di poco più di cinquecento chilometri sul groppone. Mi fiondai a casa, stanco morto. Mary non dormiva ancora; è sempre così, non viene con noi ma è in pensiero finché non ci vede tornare. Daniele continuò a dormire forse sognando ancora quelle luci incantate, e Lavinia invece con toni bassi le andava descrivendo alla madre. Chissà per quanto tempo ancora avranno ricordato quei “fuochi”; chissà in che modo ne parleranno ai loro amici ed a quanti dopo di noi verranno; chissà se accadrà mai che condivideranno con i loro figli queste esperienze.

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 29 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 29 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI

Promemoria – Vado pubblicando i testi del dibattito che si svolse nel corso di un Convegno da me organizzato a Prato, dedicato alla figura di Pier Paolo Pasolini – si tratta dell’unica testimonianza di quell’evento. Grazie alla sbobinatura di cui posseggo testi e registrazioni, vi riporto gli interventi di illustri critici che in quell’occasione vennero al PIN di Prato

Però al di là del caso specifico mi interessava dire questo: che c’è un Bazen però in Pasolini in qualche modo recuperato assieme o addirittura, come dire, con il filtro di (parola non comprensibile)…perchè l’altro autore essenziale per la teoria poi anche fisica di Pasolini è il Bart cinematografico, ma il Bart che legge Brecht. Quindi in pratica tutta la teoria estetica del Pasolini cineasta…(VOCI FUORI MICROFONO)….>>

Parla voce non identificata:

<< Gli studenti che non conoscessero questi saggi di Bart, ricordo che sono i saggi critici editi prima da Einaudi e adesso anche gli scritti di Roland Bart sul teatro. >>

Parla il Professor Antonio Tricomi:

<< Quindi, in pratica, c’è questa commistione tra Bart e Bazen probabilmente è all’origine dell’estetica cinematografica di Pasolini. Ci sono anche altre fonti, però a mio avviso le due fonti più calzanti e più decisive sono queste. >>

Parla il Professor Sandro Bernardi:

<< Bene, a questo punto è previsto un secondo discassant, Giuseppe Panella. Purtroppo il nome di Giuseppe Panella è rimasto fuori dal programma per un errore tipografico. Giuseppe Panella è ricercatore alla Scuola Normale Superiore di Pisa come Rino Genovese. >>

Parla il Dott. Giuseppe Panella – Ricercatore Scuola Normale Superiore di Pisa:

<< Come dire questo intervento è un po’ in contumacia, no? Latitante. Volevo dire questo: come nei buoni film polizieschi, nei buoni romandi polizieschi quando c’è una indagine gli interrogatori vengono condotti dal poliziotto buono e dal poliziotto cattivo è un gioco classico. Genovese ha fatto il poliziotto buono, io faccio il poliziotto cattivo non Perché voglio bastonare i relatori, anzi ho per loro il più vivo apprezzamento, ma Perché volevo porre dei dubbi. Proprio quella sineciosi *del dubbio come si accennava prima. Non a caso il titolo dell’intervento di Fortini è proprio “Sineciosi del dubbio” dove la sineciosi in realtà ha qualcosa ha che vedere con l’ossimoro, ma è una figura leggermente diversa proprio Perché compone i pezzi del proprio discorso, sineciosi appunto è una figura retorica nella quale le argomentazioni vengono portate in maniera infinita, cioè non si concludono. E’ qualcosa appunto che mostra tutte le possibilità di qualcosa, ma non dà alla fine una risposta. Ed è un po’ questo che accade sempre confrontandosi con Pasolini.

* riporto da Google: Il termine «sineciosi», mutuato da Franco Fortini, significa «ossimoro» ed indica il procedimento retorico, molto spesso utilizzato da Pasolini,consistente nell’accostamento di due termini opposti al fine di esprimere, ad un tempo, due contrari.

….29….. prosegue l’intervento del prof. Giuseppe Panella

…ancora sulla Scuola: un doveroso recupero

Abbiamo vissuto un tempo strano, per alcune parti di esso e per alcuni di noi, un tempo “sospeso”. Si agiva perennemente sotto una cappa minacciosa di un nemico invisibile.

E’ stato anche il tempo delle “mancanze”, materiali e spirituali, quella forma di consapevolezza che “dopo questa esperienza non potevamo più essere gli stessi”, che avremmo dovuto far tesoro di tutto quello che ci stava coinvolgendo, che interrogava severamente il nostro stile di vita, che ci spingeva, attraverso le varie tipologie di solitudine ad interrogarci più a fondo. Abbiamo potuto, laddove ci era permesso da un certo livello di serenità, lavorare al recupero di una memoria che si era andata appiattendo nell’immediato facendoci rimpiangere la realtà, nel suo complesso, “precaria”, di una società sospinta verso il consumismo sfrenato, un edonismo leaderistico a tutti i livelli che aveva condizionato l’economia producendo un divario sempre più forte tra ricchi più ricchi e sempre più numericamente ridotti e poveri più poveri e sempre più in crescita numerica.

Si è finito per correre un rischio, che ancora incombe come una classica spada di Damocle sul nostro futuro, che è stato quello di credere e di far credere, complici la dabbenaggine ipocrita di una gran parte del mondo politico, che il mondo nel quale avevamo vissuto prima dello scoppio della pandemìa fosse paragonabile ad un’ età dell’oro, nella quale tutto funzionava a pennello, il lavoro era strasicuro in tutto e per tutto, le regole in generale venivano rispettate, l’ambiente era curato al fine di evitare i disastri che già si andavano annunciando, le scuole erano luoghi ameni accoglienti e sicuri, dove far crescere i nostri giovani e potersi cimentare con le nuovissime tecnologie ed aprirsi al futuro alla pari con tutti gli altri paesi avanzati.  Ovviamente, nella memoria collettiva, i treni “allora” viaggiavano in orario. Allo stesso tempo “allora” i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta venivano rispettati, le leggi valevano per tutti, indistintamente. Si stava “allora” affinando tutta quella parte legislativa che avrebbe definitivamente aperto le porte al riconoscimento ed alla valorizzazione delle diversità, avrebbe consentito l’accoglienza ed assegnato la cittadinanza a chiunque si fosse sentito parte del nostro Paese.  Il Belpaese dove per l’appunto “allora” i treni arrivavano in orario. E nella Sanità pubblica i livelli assistenziali erano garantiti e diffusi al massimo su tutti i territori.  E nella Scuola i livelli di di dispersione e di abbandono erano scesi ai minimi termini, quasi azzerati; e per abbattere quei livelli si era aperta una vera e propria progettazione per il recupero dell’alfabetizzazione con corsi, diffusi su tutti i territori da Sud a Nord, di Educazione degli Adulti, soprattutto di Alfabetizzazione digitale riservata soprattutto, anche se non solo, agli anziani; e sui territori la partecipazione delle comunità in senso ampio era considerata dalle Istituzioni una ricchezza da incentivare con copiosi investimenti;  e poi “in quel tempo” veniva riconosciuto il merito, valorizzando le competenze e le peculiarità di ciascuno fino ai livelli massimi.

Ecco, con questi presupposti da “Libro dei sogni”, collegati alla drammaticità della realtà con cui si doveva fare i conti (i bollettini dei contagi dei ricoveri e dei decessi; le difficoltà economiche di una parte consistente della società; la precarietà e soprattutto l’incertezza verso il futuro) attendevamo che l’emergenza finisse anche con la collaborazione del mondo politico che incondizionatamente, come nei tempi passati, si era impegnato in una battaglia comune, senza personalismi senza distinzioni ideologiche, per garantire il superamento più rapido possibile delle difficoltà e per riprendere a vivere nella normalità quotidiana la nostra socialità, come avveniva per l’appunto “prima” che la pandemìa ci confinasse nei piccoli ristretti recinti dei trecento metri di raggio.

Era – come tutti sappiamo – un sogno dentro un incubo, un incubo dentro un “sogno”.

Quel che è accaduto davvero lo sappiamo tutti

Ovviamente, ci sono gruppi che hanno mantenuto un loro contatto anche durante la pandemia ma tanti altri si sono invece dispersi in tutto questo tempo, pur mantenendo un profilo di presenza critica individuale o poco più, riducendo drasticamente il numero delle frequentazioni. Questo è stato reso necessario soprattutto per tutti quelli che rischiavano in maniera più seria di contagiarsi e correre rischi letali.

Per altri, anche perché sospinti da necessità impellenti inderogabili come il proprio lavoro, non è stato così ridotta drasticamente la propria socialità, anche se – come ben si comprende – tutti hanno lasciato dietro di sè una scia di mancanze che, ce lo siamo detto in modo particolare riferendoci alle giovanissime e giovani generazioni, sono state insopportabili e foriere di conseguenze non solo sul piano psicologico.

Di certo è stato rallentato per un periodo anche il normale attivismo delle forze politiche, anche se in questo rallentamento – come accade negli equilibri generali della vita comune – a rimetterci maggiormente  sono state le realtà periferiche, del tutto escluse da una pur minima forma di partecipazione. Questa esclusione ha condizionato anche le strutture periferiche dei partiti più forti dal punto di vista del consenso elettorale.

A livelli più ampi tuttavia, accontentandosi della marginalità, in questa lunga attesa di poter riemergere, si è andata man mano diffondendo una mancanza di fiducia verso gli altri. E per certi versi questa permane ancora.

Noi siamo in una realtà periferica; noi apparteniamo a quella parte di società che è stata più ampiamente condizionata dalla pandemia. Quello che è accaduto con la chiusura degli spazi sociali come ad esempio un Circolo come questo ha prodotto danni enormi non solo economici ma anche culturali sociali e tout court politici. Ed è stato quasi naturale per ciascuno di noi avvertire questa sensazione di abbandono. Poi un poco alla volta si avvertono in controtendenza segnali di ripresa.

Quello di cui oggi parliamo è uno di questi.

Quando sono stato contattato, ero proprio per l’appunto già in un luogo diverso dal solito e sono stato sorpreso dalla proposta, che riapriva i miei orizzonti e mi sollecitava a occuparmi di nuovo di quel che mi appassiona. I temi della Cultura e della Scuola sono stati i compagni della mia vita e della mia esperienza assoluta. In qualche modo, non li avevo trascurati del tutto durante la clausura pandemica; avevo continuato quasi quotidianamente a trattarne sul mio Blog, recuperando quel che avevo scritto, detto e soprattutto fatto.

Non appena il documento mi è stato inviato il 30 luglio ho attivato il Circolo, pur sapendo che – per tutto agosto – non avremmo potuto organizzare nulla, per la classica diaspora vacanziera. Pur tuttavia, non avendo partecipato pienamente alla diaspora, il 17 agosto ho cominciato a contattare i punti di riferimento che mi erano stati dati. Abbiamo fatto partire il gruppo su whatsapp il 23 agosto e poi siamo andati avanti e abbiamo condiviso tutta la fase organizzativa, con le difficoltà che appartengono al periodo.

Mettere insieme un evento dopo un periodo di inattività è stato entusiasmante ma anche molto difficile.  Di tanto in tanto ci si sentiva con chi mi aveva contattato, che non ci ha fatto mai mancare il sostegno. Devo (dobbiamo) ringraziarla, così come dobbiamo ringraziare chi ha coordinato e poi realizzato il Documento.

Ho detto e scritto della sua ampiezza, profondità, compiutezza. Dovrà, esso, essere utile soprattutto a chi oggi ha venti anni, come chi con me ha cooperato a realizzare questo incontro, o poco più come qualche altro giovane qui presente. Dovrà essere un monito per tutti quelli che sono stati giovani pieni di entusiasmo e volontà di sovvertire il mondo delle inconcludenze, delle approssimazioni, delle emergenze; quelli che si sono seduti poi comodamente sugli scranni di ministeri e assessorati e stanno ancora lì a guardare quello che non va, come se non fosse anche colpa loro, come se non dipendesse anche da loro il degrado attuale del mondo della Scuola.

Non è formalismo dire che perlomeno le nuove generazioni potrebbero aiutarci ad affrontare il disastro e costruire un futuro diverso; occorre dire “basta” alle enunciazioni nude e crude che non producono effetti per timidezza o convenienza, non saprei se l’una o l’altra oppure l’una a copertura dell’altra. Di certo “da soli non si va da nessuna parte e se i pochi non diventano molti poi prevale lo scoramento l’acquiescenza.”

Ritornando al documento, scendendo sulle questioni trattate, e avviando quella che può essere un’introduzione da parte di Eulalia, bisogna dolorosamente sottolineare che la realtà pratese quanto ai numeri di dispersione ed abbandono scolastico è assai simile a quella di aree che consideriamo degradate. Non meno grave è la situazione dell’edilizia scolastica.

Sul tema dell’insufficienza della potenzialità di un’offerta culturale adeguata ai tempi a causa dell’inadeguatezza delle strutture edilizie esistenti c’è il recentissimo XIX Rapporto di Cittadinanza attiva che, pur occupandosi in particolare degli asili nido, riporta a pag.9 la denuncia relativa alla mancanza di agibilità per oltre un 50% degli edifici in tutto il Paese. Quanto ai dati sulla dispersione e abbandono per quest’area vale la pena consultare per ora il Rapporto 2018 sulla scuola pratese prodotto dalla FIL.

Ho già detto che il Documento Manifesto “La scuola salva il mondo” è un testo importante da cui partire per costruire la Scuola degli anni a venire, proprio riprendendo il cammino dalle macerie che la pandemìa ha messo in evidenza. E allora mi sono posto una domanda che è poi ben chiarita nella parte introduttiva – e cioè come è nata l’esigenza di affrontare questa ampia discussione che ha condotto alla stesura del Documento –  ma ci aggiungo quella che è per me la fase più importante, quella realizzativa. Come, con quale percorso propositivo, Possibile che rimane per ora una piccola parte della Sinistra intende affrontare il necessario confronto con il resto della Sinistra e con tutte le altre forze sociali e culturali che ne condividono i valori.

L’evento di presentazione è stato seguito e partecipato – scriverò poi quel che è accaduto prima (passato prossimo) e quel che accadrà dopo (futuro semplice)

I ringraziamenti in primo luogo a Rosalba Bonacchi responsabile di Possibile Pistoia, che mi ha chiesto, pur sapendo di essere “estraneo”  di occuparmi dell’evento a Prato. Poi a Benedetta Pazzaglia Guddemi che ha sopportato in questo mese e mezzo le mie “lezioni” politiche. Ringrazio Marzio Gruni per il sostegno costante che ha dato, pur in un momento non semplice della sua vita professionale. Ringrazio il Circolo di via Cilea, in primo luogo il Presidente “emerito” Livio Santini e poi il Presidente attuale, Massimiliano Biagini. Ringrazio tutti quelli che hanno risposto al mio invito (l’evento era targato “Possibile” ma ne ero organizzatore unico), intervenendo, a partire dalla Dirigente scolastica ex comprensivo “Mascagni” attualmente al “Dagomari”, Claudia Del Pace; il docente Emanuele Bresci dell’associazione lgbtqia+ di Prato, con cui ho interloquito in diverse occasioni per preparare questo evento; il Dirigente scolastico del professionale “Marconi”, Paolo Cipriani, con il quale mi sono intrattenuto a parlare di formazione permanente dei docenti; il Direttore della Agenzia del lavoro FIL, Michele Del Campo, da sempre mio interlocutore sulle tematiche civili ed in particolare dell’inclusione, della dispersione e dell’abbandono;  Luca Mori ex Presidente di Libertà e Giustizia da sempre attivo nelle campagne referendarie e  nel Coordinamento Difesa della Costituzione; Stefania Colzi, attuale Presidente di Libertà e Giustizia e con l’uno e con l’altra abbiamo da tempo attivato un rapporto di cooperazione per diffondere sui territori la conoscenza delle tematiche costituzionali; Giusy Modica, presidente di New Naif, cooperativa di assistenza sociale non residenziale per anziani e disabili; Mirco Rocchi, docente, artista scenografo e costumista, con cui abbiamo fondato il soggetto civico di Prato in Comune; Simona Rosati, del Programma Città amiche di Unicef.  Attraverso l’impegno di Benedetta ed insieme a lei ringraziamo anche la presenza dei Giovani Democratici Prato con Niccolò Ghelardini e della Consulta Studentesca di Prato nonché La Piazza degli studenti, con il Presidente Niccolò Sanesi.

Ringrazio per la loro presenza Lia Guardascione, Aldo Augurio; Maurizio Artusi, Nicola Verde, Fabio Falchi, Ilenia Innocenti, questi due ultimi membri della delegazione di “Possibile Prato”.

Ringrazio Eulalia Grillo, portavoce nazionale per la scuola di Possibile, che ha coordinato in modo egregio i gruppi di lavoro sulle diverse tematiche relative al mondo della Scuola, che in definitiva rappresenta l’intera società italiana e tutta la complessità di essa. Parlare della Scuola e puntare ad una vera e propria sua ristrutturazione, inserendola pienamente nella modernità, declinata in senso ambientalista e rispettosa delle diversità, accogliente e aperta ai più diversi contributi, significa impegnarsi per un profondo cambiamento di ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Il suo intervento, breve ma significativo, ha contribuito a chiarire le ragioni di questo documento e le prospettive che “POSSIBILE” si propone di percorrere, durante e dopo questi incontri su tutti i territori della nostra penisola.

Ringrazio Benedetta Pazzaglia Guddemi portavoce del partito “POSSIBILE” qui a Prato per il suo contributo organizzativo, particolarmente indirizzato alla partecipazione giovanile, e per il suo intervento che, sulla scia di quanto esposto da Eulalia, si è soffermato sul ruolo che hanno avuto i giovani nella stesura del Documento. Ringrazio anche Claudio Vignoli co-portavoce del Partito per aver coordinato insieme a me i lavori dell’iniziativa.

Come spesso è  accaduto, l’organizzazione di un evento culturale presenta delle incertezze, soprattutto quando per necessità o per scelta molte delle incombenze fanno capo ad uno, ed uno solo. In due o tre o ancor più ci si rincuora a vicenda, ma con il più e il meno qualche passo in avanti si compie ogni giorno. C’è stata anche la pandemìa ed una certa solitudine imposta sia da essa sia dal trovarsi in una zona periferica, assolutamente dimenticata (e San Paolo non è la realtà più periferica della città di Prato: anzi! è a pochi passi dalla frontiera cittadina), trascurata se non che in quelle poche occasioni che servono da passerella per i vari politici, amministratori, assessori, portaborse di vari colori politici. Ad ogni buon conto, l’evento andava organizzato facendo ripartire i precedenti contatti (più o meno quelli che risalivano all’incirca al dicembre 2019) e ricercandone di nuovi, utilizzando i social che in questo anno e mezzo abbondante sono stata l’unica soluzione alla solitudine quasi totale (per fortuna, la famiglia e qualche amico ci hanno lenito le sofferenze che per un “homo socialis” quale io ero stato erano molto forti). Le difficoltà, dunque, non sono state poche; partire tanto prima poi ti poneva dei limiti per la presa in considerazione del tuo invito (ho avviato i motori ai primi di settembre per un evento che si sarebbe tenuto il 10 ottobre) e poi c’era una disabitudine ad avere come interlocutore uno che, a qualcuno e forse a più di uno, poteva anche essere sparito, anche per sempre, tra le vittime di questa pandemìa. Mentre scrivo mi tocco e faccio corna, da buon partenopeo.                                             

Pur tuttavia trovavo necessario anticipare il mio invito, in quanto era collegato alla presentazione di un ricchissimo stimolante documento manifesto prodotto da Possibile, quella piccola realtà politica fondata da Pippo Civati. Un documento composto da 82 pagine, pieno di sollecitazioni a riflettere e ad aggiungere le proprie esperienze. Un documento che per me rappresenta tutto un Programma politico e culturale, “La Scuola salva il Mondo” che riecheggia pagine e pagine di mia scrittura collegate alla Cultura, che non è poi così diversa dalla “Scuola”. Per non aggiungere che sul mio Blog, questo, vi sono ormai centinaia di miei contributi dedicati alla Scuola ed alla Cultura e sono molto critici sia con i Governi di Centrodestra (vedi “Gelmini”) sia con quelli di Centrosinistra (Berlinguer, Giannini, Carrozza, Fedeli, Azzolina etc) che hanno avuto verso la Scuola un atteggiamento di superiorità a volte aristocratico a volte cialtrone e quasi tutti si sono occupati solo di tamponare le emergenze senza davvero procedere ad una Riforma che comprendesse ogni aspetto degno di essere attentamente valutato. Tornando al mio “lavoro” organizzativo mi sono ritrovato davanti a tutta una serie di difficoltà con mail che sembravano essersi perse nei meandri del Palazzo comunale. E’ il segno del valore che danno a chi in modo disinteressato intende impegnarsi ancora. Ed è il segno del loro “valore”.

Al di là della mera ritualità, oltre i “sogni”

Al di là della mera ritualità

Di tanto in tanto chi si occupa (chi crede di occuparsi….) di temi politici, avverte il bisogno di mostrare come è in grado di ascoltare il parere della società diffusa (quella parte che la Politica non la pratica, pur avendone specifiche competenze settoriali), pur essendo consapevole che le soluzioni sono più o meno già delineate, all’interno di una serie di “confini” dove i “bisogni” vengono ad essere limitati dagli interessi non sempre per diversi buoni o meno buoni motivi espressi chiaramente. Questa forma di falsa Democrazia è praticata costantemente, soprattutto nella Sinistra. Nella realtà, tutto questo “palcoscenico” serve a costruire provvisorie condivisioni, con una naturale selezione basata su adesioni strumentali, poco utili alla costruzione di una programmazione di media e lunga durata, quella che era (ed è) necessaria per costruire un futuro di cambiamento percepibile realisticamente. Se si vuole rivolgere una critica a chi scrive, vi tolgo dall’imbarazzo: sono perfettamente consapevole che questi meccanismi li ho utilizzati anche io. Anche se, come molti sanno, li ho criticati e denunciati da alcuni decenni. E chi mi segue sul Blog può rendersene conto: sono considerato un polemico ma ne ho ben donde, visto che dopo venti anni a Prato si discute di edilizia scolastica e di dispersione, argomenti che potevano essere affrontati (seriamente) e avviati a soluzione già alla fine del secolo scorso e nei primi anni del nuovo. Nel frattempo, complice anche la pandemia, che ha reso tutto più difficile, si è buttato all’aria tutta la storia del Decentramento. E, questo, per ora, solo per soffermare molto sinteticamente sulle tematiche scolastiche (il Decentramento ha una valenza “universale” ed è la massima interpretazione di volontà democratica partecipativa, a patto che sia riconosciuta sul serio). Poi tratterò dei temi collegati al Lavoro, con particolare attenzione alla “crisi” del Sindacato.

Non basta, ora, riavviare i motori, come se nulla fosse accaduto: occorrerebbe ma è per davvero inimmaginabile che ciò accada, riconoscere gli “errori”, le sottovalutazioni ammantate da un “falso perenne ascolto”. Lo dovrebbero fare quelli che c’erano prima, alcuni dei quali ancora oggi rimangono in sella e lo dovrebbero affermare quelli che vogliono cambiare. Bisogna fare un bagno nell’Umiltà: finora abbiamo ascoltato dichiarazioni e su queste ci si è sperticati in elogi; ma la sostanza tarda a farsi strada, ancor più  se permangono ostacoli alla realizzazione dei “sogni”.

14 marzo – elogio dell’ipocondria – parte 2 con una digressione sul tema

14 marzo – elogio dell’ipocondria – parte 2 con una digressione sul tema

Di norma, l’ipocondriaco è uno strano individuo, spesso auto isolato nelle sue preoccupazioni di tipo sanitario. E’ un soggetto da racconto o da film e, come sanno bene i miei amici, inducono ad un certo sorrisino beffardo, solo di rado consolatorio. Ovviamente, si parla sempre di quegli…altri che esagerano, non di se stessi nel caso in cui si facesse parte integrante di…quella famiglia. Pur tuttavia, al netto delle esagerazioni, in questo percorso inatteso nel quale mi sono ritrovato, ho fatto qualche riflessione per l’appunto “personale”. E se invece di, sottilmente, deridere fossi stato più attento ad ascoltare i ritmi non più correttamente funzionali della mia salute, non sarebbe stato meglio? Domanda oziosa, ovviamente, fatta “a posteriori”. Ma, a dire il vero, non mi sono mai considerato un ipocondriaco: o, meglio, ho sempre dato un calcio ai pensieri che mi angosciavano e mi sono posto al servizio della società, della politica, del lavoro.

La “digressione” è finita: è stata anche fin troppo lunga.

Vado al “Careggi”, dunque. Una visita accurata, professionalmente e umanamente. Già nella sala d’attesa, ho intercettato una testimonianza positiva da un dialogo telefonico: un signore raccontava come dopo l’operazione al polmone alla quale era stato sottoposto avesse man mano ripreso la normale attività fisica. Accennava a lunghe passeggiate nel verde: e ciò non pteva che rincuorarmi. Ancor più poi in quanto è entrato prima di me nell’ambulatorio dove sapevo perfettamente avrei trovato il dottore che avevo scelto. E non c’è stato alungo. Era solo per un breve controllo. E infatti dopo poco sono entrato io e, come dicevo, il dottore che ha voluto subito vedere le risultanze della TAC, ha proceduto a tutte le verifiche “dirette” con la misurazione dell’ossigeno, l’auscultazione del torace ed alcune domande circa la pratica del fumo. E’ dal gennaio del 1984 che non fumo più; e non ne consumavo certo molte. Ero un modestissimo fumatore; di certo, non avrei mai pensato di poter essere inquisito e colpevolizzato per quelle quattro cinque sigarette, quasi sempre collegate ai riposi post pasti principali, come di consueto. E non ci ho messo tanto tempo a staccarmi da quella “pratica”: non ho fatto come lo Zeno Cosini di Italo Svevo. Non ho atteso tanti eventi, piccoli medi o grandi, ma uno solo, molto significativo ed importante per me: la nascita di Lavinia. 8 gennaio 1984: ultima sigaretta. Anzi, già il giorno prima avevo buttato via tutto l’armamentario utile per il “fumo”: accendino (di quelli di poco conto, ovvio), i residui del pacchetto.  Il dottore, però, non era così tranquillo, appariva severo nel gudizio (o, perlomeno, così a me è apparso), come se accreditasse a quella “pratica”  per me così lontana le ragioni per comprendere il mio attuale stato di salute. Da profano non ero affatto convinto di questo giudizio, pur non espresso in modo chiaro; e pensai che però nel corso degli anni successivi ero stato comunque a contatto con ambienti fumosi, come circoli e sedi di Partito.

Una riproposizione per i soloni saccenti che si ostinano a promuovere tempi di guerra per rincorrere i propri vantaggi – senza essere consapevoli che non si può escludere in questo contesto mondiale (globalizzato malgrado ciò non soddisfi una crescita “globale” per la maggior parte del Mondo) la Russia

PREAMBOLO (molto sintetico): Ci sarà un motivo forse più di uno perché la guerra è deflagrata. La Storia – lo si dice – non si fa con i “se” e con i “ma”. Ma questa affermazione viene utilizzata dai potenti e dai loro servitori troppe volte – quasi sempre – per tacitare i provvisori interlocutori che la pensano in modo diverso. E invece questa modalità (dei “se” e dei “ma”) occorre sia utilizzata nei tempi brevi per mettere in evidenza le responsabilità e chiedere di poterle riconoscere. Cosa abbiamo saputo noi dai nostri canali ufficiali – la nostra TASS – che si sono palesati pubblicamente di recente con delle pseudo liste di proscrizione: poco più che l’unico responsabile di tutto questo disastro (umano, economico, ambientale) siano Putin e la Russia. Ancora oggi (8 giugno 2022) non si è compreso – o almeno così appare a noi, poveri bischeri, che tenere fuori la Russia dai rapporti politici, economici, culturali (che aberrazione anche i DASPO culturali e sportivi), istituzionali (il non invito a manifestazioni istituzionali come quella del 2 giugno a Roma) , allontana di gran lunga la possibilità di riaprire un dialogo reciproco, non solo per far cessare la guerra, ma per far vincere la PACE.

28 febbraio quinto giorno di guerra – Attenti alla guerra – arma di distrazione di massa – una introduzione ai temi attuali

In questi giorni in tanti si vanno chiedendo le ragioni per cui fino all’altro ieri il giudizio su Putin fosse quasi identico a quello con il quale oggi si identifica come un despota nemico della Democrazia, ma non si andava oltre e anzi ci si fermava esclusivamente a denunce di tipo morale del tutto inefficaci. La scelta che Putin ha fatto nel minacciare “prima” e nel procedere poi ad una invasione di un territorio non di sua competenza ha messo a nudo l’inadeguatezza di una Politica internazionale, a partire da quella dei Paesi europei, che in questi anni pur criticando l’assenza di Democrazia in Russia e nonostante la presenza di sanzioni preesistenti non cessavano di sottoscrivere accordi commerciali con quel Paese.

Sotto questo aspetto nessun Paese è indenne da critiche e dunque non sono credibili i passi diplomatici di vari leader; addirittura ci potrebbe essere il sospetto di accordi di basso profilo e questo danneggerebbe ancor più la credibilità del mondo politico attuale.

Tali scelte, portate avanti nel nome di un mercato globalizzato, hanno dato la sensazione di una profonda debolezza dell’Europa, sia politica che economica. D’altro canto la Russia, proprio attraverso la sua conduzione politica despotica dei gruppi di potere costituitisi intorno a Putin ha teso a mantenere e far crescere una sempre più profonda divaricazione sia culturale che economica nella sua popolazione.

Il mondo è stato a guardare; anche quello che oggi si erge a difesa della “Pace”, senza peraltro chiedersi quali possano essere le vere ragioni del contendere. Non è affatto sorprendente che da qualche parte si alzino critiche verso forme poco più o poco meno che ideologiche e che si inviti ad una maggiore cautela, pur nella difesa strenua delle ragioni dei più deboli, che in questo momento sono coloro che subiscono le azioni di guerra.

5 marzo –

Il 28 febbraio scrivevo un post sottolineando la debolezza degli Stati europei, della Nato e degli USA, ma non mancavo di cominciare ad esporre le mie perplessità intorno alla inadeguatezza e alla sempre più scarsa credibilità di un fronte pacifista, che finisce per avere connotati ideologici improduttivi. Non basteranno questa volta raduni oceanici a far girare la ruota della Storia; così come in altre occasioni “storiche” non è la bandiera della Pace che può fornire una giusta risposta ai problemi dell’Ucraina e del suo popolo. Piuttosto sarebbe opportuno chiedersi davvero cosa significhi l’invio di armi ai resistenti; solo un atto pietoso simbolico, dopo il quale occorrerà uno sforzo maggiore da parte delle potenze internazionali, UE e Cina comprese, nel perseguire una linea di trattative credibili, che possano concedere a tutti i concorrenti elementi di soddisfazione. Se questo non accade, e ci si limita a mettere in campo personalità in declino come Macron, significa praticamente che finiscono per prevalere posizioni molto personali dei grandi protagonisti, non solo Putin ma anche Biden, che giocano una battaglia poco nobile sulla testa di inermi cittadini e combattenti diversamente armati.

Molto spesso siamo condizionati da punti di vista veicolati dal Potere nostrano, per cui – sì davvero – Putin appare il demonio e Biden l’angelo del Bene. Non è così, a parte quelle che sono le caratteristiche personali di facciata, per cui Putin rappresenta il “machismo” e Biden il “buon padre di famiglia”. Poi è del tutto evidente che chi utilizza le armi (ma gli USA hanno brillato in tal senso) non può avere consensi tra la stragrande maggioranza della gente comune; ma quest’ultima parte della società conta davvero molto poco e prevalgono ristrettissime oligarchie sia tra gli uni (la Russia, per noi i “cattivi”) che tra gli altri (USA, Nato e UE, per noi i “buoni”).

Partendo dalla consapevolezza che non è così netta la distinzione tra buoni e cattivi, bisognerà anche ragionare intorno ad un dilemma che dovrebbe essere motivo di turbamento da parte di coloro che, risvegliandosi dal letargo, ergono il vessillo della Pace, a tutti i costi. Una delle condizioni migliori per loro sarebbe che, toccato da un effetto miracoloso, il despota russo ritorni anche solo parzialmente sui suoi passi e si disponga ad un accordo, facendo fermare e retrocedere l’esercito. Ma questa soluzione appare oggi improbabile utopia. L’altra possibilità potrebbe essere che una parte del gruppo di oligarchi politici e militari che circonda Putin lo convinca a desistere, a farsi da parte in modo pacifico con un suon “buen retiro” una sorta di prepensionamento (ma, visto il lungo tempo di permanenza al Potere, sarebbe cosa buona e giusta) come è accaduto per alcuni suoi predecessori, a partire da Gorbaciov, e di converso si avvii una fase nuova di trattative, che potrebbero essere anche più vantaggiose per la stessa Russia (estromesso Putin, ciò non sarebbe impossibile). Una terza ipotesi tuttavia potrebbe essere elemento di “turbamento” per le menti pacifiste. Ed è il principale dilemma di cui accennavo poco qui sopra: può un pacifista accettare che sia una soluzione l’eliminazione fisica violenta del “despota”?

Questa non è un’ipotesi peregrina, visto il cumulo di odio che si è addensato sulla testa di Putin.

7 marzo –

Concludevo il post del 4 marzo ponendo una domanda scomoda:
può, e aggiungo oggi, un (“vero”) pacifista accettare che sia una soluzione l’eliminazione fisica violenta del “despota”?

La scesa in campo così numerosa di “pacifisti” nelle manifestazioni di questi giorni è solo la cartina di tornasole del senso di colpa profondo che tanti di costoro, forse inconsapevolmente, avvertono nell’aver sottovalutato la pericolosità della presenza antidemocratica di alcuni personaggi sulla scena contemporanea, a partire ma purtroppo non solo da quella di Putin. Sulla sua figura da molto tempo vi erano delle forti perplessità relative al comportamento dispotico che aveva evidenziato soprattutto contro i suoi oppositori, non solo quelli che avrebbero potuto avere un ruolo di concorrenza politica, ma anche tutti coloro che, senza distinzione di classe sociale e di età, avevano provato a dissentire su piccole o grandi scelte. E’ – ed era – a tutti ben nota l’idiosincrasia verso i dissenzienti, che avevano anche portato ad eliminazioni fisiche, come è accaduto alla giornalista Anna Politkovskaja uccisa con un colpo di pistola il 7 ottobre 2006 nell’ascensore del suo palazzo a Mosca; e a tentativi più o meno falliti di eliminazione come nel caso di Alexei Navalny, attualmente in carcere. 

Non si può pensare di alzare barricate di bandiere con proclami semplicistici come il “Fermiamo la guerra, no all’invio di armi”; non si può pensare di avviare una trattativa, allorquando il fragore delle armi è priva di una forma razionale minima di disponibilità da una delle parti, mentre le altre, forse troppe e probabilmente non così unite come vorrebbero sembrare, cincischiano, pensando ad ottenere qualche piccolo vantaggio per sé nell’immediato futuro.

Anche se è vero, profondamente, che non ci si possa oggi fermare a tracciare le linee di demarcazione delle responsabilità della situazione, non di meno bisogna che ciascuno di noi comprenda che da quella consapevolezza occorre ripartire. La qual cosa significa anche che l’alternativa alla guerra potrebbe essere una trattativa nella quale dover riconoscere le ragioni della Russia, ma promuovere allo stesso tempo l’elaborazione di una strategia democratica di collaborazione tra popoli. Detta così è una grande formulazione utopica, a dimostrazione anche che tutte le buone volontà, di pace disarmo fratellanza, finiscono per naufragare di fronte alle velleità di quei pochi che spingono per far prevalere i loro specifici personali interessi.

E ce ne sono tanti, troppi ancora anche tra di noi; oltre ai tanti che fingono ora di essere contrari a Putin e che invece ne hanno esaltato lo stile fino all’altro giorno. E non mi riferisco solo ai nazionalisti nostrani, ma ai tanti che ancora si ostinano ad esaltare l’ex Unione Sovietica e i suoi successori, dimenticando che in quelle realtà “prima durante e dopo” non c’era libertà di pensiero e soprattutto di parole. In soldoni, non c’era la Democrazia. E vale a poco sussurrare che anche nella nostra realtà spesso i livelli democratici vacillano.

I CONTI NON TORNA(VA)NO – parte 35 (per la parte 34 vedi 26 gennaio)

I CONTI NON TORNA(VA)NO – parte 35 (per la parte 34 vedi 26 gennaio)

Riprendo a trattare uno dei temi a me più cari: il mondo della Scuola pubblica e la difesa dei diritti all’Istruzione, la cui piena soddisfazione è da collegare anche con gli ambienti che ne ospitano la realizzazione – Alla fine del secolo scorso qui a Prato (ma forse anche in tanti altri territori) si svolse una delle “battaglie” civili più accese intorno alla programmazione strutturale che potesse consentire lo sviluppo più adeguato possibile al mondo della Scuola e ai suoi professionisti e fruitori. Il “tutto” visto con gli occhi di chi, in quel periodo, si occupava anche politicamente e in una delle forze politiche di maggioranza proprio delle tematiche scolastiche; e si opponeva ad una visione limitata, che avrebbe creato inevitabilmente gli attuali disastri strutturali (mancanza atavica di spazi vitali).

Alla cortese attenzione del Consiglio Comunale

Prato 21/12/98

Come genitori degli alunni che frequentano il liceo Scientifico “N.Copernico” ci siamo riuniti in comitato per seguire da vicino la vicenda del trasferimento di sede di questo istituto con la speranza di poter collaborare con l’amministrazione Provinciale e Comunale a gestire questo delicato passaggio.

In proposito ci preme far presente alcune considerazioni sul significato di questa scuola nella nostra città. poiché il LICEO SCIENT. “N.COPERNICO” è una importantissima realtà pratese, è patrimonio di tutti noi e l’alto numero degli studenti che lo frequentano (ben 1200 ragazzi) dimostra quanto la nostra collettività creda in questa istituzione, una istituzione che ha saputo farsi stimare in tutti questi anni grazie all’impegno ed alla qualità del corpo insegnante ed all’intesa che si è andata creando tra le varie componenti scolastiche.

Nonostante la scuola sia sempre stata sistemata in una struttura inadeguata, ha saputo esprimere una potenzialità di offerta formativa ricca, differenziata e preziosa per le richieste della comunità per cui ogni impoverimento di questa potenzialità si tradurrebbe in un impoverimento della nostra società, ogni indebolimento di questa entità attraverso la separazione della stessa in più edifici si tradurrebbe in un indebolimento globale generale.

Da queste considerazioni deriva la nostra duplice richiesta di non smembrare l’istituto e di collocarlo in una sede adeguata, sicura e, molto importante, funzionale.

Il Comitato dei Genitori

La “miopia” generale di una parte economicamente e politicamente “egemone” a Prato non consentiva “anche” a questi genitori di comprendere che si sarebbe creato un disastro dal punto di vista strutturale: gli spazi, anche per l’atteggiamento bulimico dei Dirigenti e del “corpo insegnante” nel volersi accaparrare più iscrizioni di quanto fosse consentito, con il risultato poi di dover necessariamente selezionare in modo anche crudele e notoriamente più che rigido chi meritava di proseguire e chi no, finirono nell’arco di pochissimi anni per essere angusti ed insufficienti. Allo stesso tempo la scelta di “sfrattare” il “Dagomari” il cui “status” istituzionale non era da considerarsi molto diverso da quello vantato dai “copernicani” procurò molti altri danni alla qualità dell’istruzione in tutta la città (e Provincia). Sarebbe stato ben logico invece progettare soluzioni che non prevedessero spostamenti, costruendo un nuovo edificio e utilizzando temporaneamente nuovi spazi già a disposizione in modo provvisorio ma con una “programmazione” rigorosa.

LE STORIE 20 – per la parte 19 vedi 12 marzo

Proseguendo nella pubblicazione di alcuni documenti, quella che segue è la “Dichiarazione” (la scesa in campo) di disponibilità da parte di Massimo Carlesi a candidarsi a Sindaco di Prato per la legislatura 2009/2014

1.3. I COMPITI DELL’AMMINISTRAZIONE COMUNALE PER LA SCUOLA

Come abbiamo già rilevato in precedenza, l’impatto della Legge Gelmini finirebbe per acutizzare, anziché risolvere, alcune criticità nel compito dell’Amministrazione Comunale a mantenere il livello dei servizi di sua competenza, con un conseguente impatto negativo nella vita dei bambini e delle loro famiglie.

1.3.1. I servizi alla scuola

Nella nostra città, infatti, i servizi alla scuola (mensa, trasporto, pre-post scuola) hanno ormai raggiunto un alto livello di qualità, incontrando la soddisfazione della maggioranza delle famiglie che ne usufruiscono.

Ad esempio, per il servizio mensa sono state operate delle scelte significative volte a riorganizzare e migliorare la qualità dei pasti forniti, come l’introduzione di “menù biologici”. In questo senso, si potrebbe verificare anche la possibilità nelle scuole di coltivare un piccolo orto, grazie al coinvolgimento di pensionati volontari, i cui prodotti potrebbero essere consumati alla mensa scolastica.

Anche per l’edilizia scolastica, nel suo complesso, si segnala una situazione generale di buona conservazione; tuttavia occorre un’azione di sistematica di verifica per valutare e pianificare gli interventi strutturali necessari (ad es.  la “Pier Cironi” ha bisogno di particolari attenzioni). Vi è ormai l’estrema necessità di creare o completare l’edilizia scolastica all’interno delle nuove aree di insediamento abitativo che si sono sviluppate nelle zone periferiche. Sicuramente andrebbe maggiormente potenziato l’utilizzo dei locali anche al di fuori dell’orario scolastico, da destinare ad attività di animazione socio-culturale, indirizzati anche a giovani e adulti.

Tutto questo potrebbe cambiare in modo radicale nel caso ci trovassimo di fronte a dei forti tagli dei trasferimenti statali che costringerebbero l’AC a riversare gran parte del costo di tali servizi sulla cittadinanza (direttamente o indirettamente).

1.3.2. Le alternative al Tempo Pieno

Innanzitutto, è giusto sottolineare che il Tempo Pieno risponde da anni a due ordini di bisogni: quello dei bambini di vivere quotidianamente all’interno di un contesto significativo sia da un punto di vista educativo che relazionale; quello dei genitori di delegare ad un’agenzia educativa affidabile la custodia e l’educazione dei propri figli durante il tempo trascorso al lavoro, che, data la situazione, richiede sempre maggior quote della giornata ad entrambi i genitori per far fronte alle necessità di “sopravvivenza”. Vi è dunque motivo di temere per la sua cancellazione o drastica riduzione a mero “trattenimento” pomeridiano nei locali della scuola.

Lo Schema di Regolamento pubblicato nel dicembre 2008 ammette le varie possibilità di scelta, per le famiglie, tra 24, 27, 30 e 40 ore di frequenza, ma non transige sulla necessità di far sparire la compresenza degli insegnanti, che finora ha permesso di gestire tante problematiche come le difficoltà di apprendimento o comportamentali, le difficoltà linguistiche degli stranieri, l’insufficiente copertura oraria dei docenti di sostegno e persino la copertura del servizio in caso di assenza improvvisa, dato che le supplenze risultano sempre più difficilmente attivabili. Così anche se il tempo passato all’interno della scuola dai bambini non dovrebbe subire riduzioni, ciò che diminuirà sarà invece la qualità dell’offerta educativa in esso realizzata.

Perciò, anche se nella scuola primaria la scelta del tempo corto (24 ore) e del maestro unico sembra sia una prerogativa della famiglia e non un’imposizione dall’alto, permangono forti dubbi sulla possibilità, da parte della scuola, di continuare ad offrire il servizio del Tempo Pieno così come ad oggi lo abbiamo conosciuto ed a chiunque ne faccia richiesta.

da “Helgoland” una lezione di vita per costruire un futuro di pace – parte prima

da “Helgoland” una lezione di vita per costruire un futuro di pace

Nei giorni scorsi ho accennato a questo saggio di Carlo Rovelli, mentre scorazzavo con la mente e le parole intorno a tematiche molto drammatiche, di cui ho sostanzialmente taciuto negli scorsi mesi: le vicende della guerra russo-ucraina si sono dipanate quasi interamente nel tempo in cui io ho avviato una singolar tenzone con la malattia…e pur avendo formato un mio personale giudizio (quasi certamente esso ha preso forma molto lentamente, costringendo le mie passioni a silenziose e solitarie riflessioni), ho tardato ad esporlo, rinunciando per più di due mesi ad utilizzare questo spazio.

Nondimeno ho letto molto ed il saggio di Carlo Rovelli, complice Alberto Crespi, mi ha rafforzato nei ragionamenti che andavo facendo tra me e me o poco più. Carlo Rovelli è un fisico, ed è un filosofo della scienza; Alberto Crespi è uno dei più grandi esperti della Storia del Cinema. Mi ha incuriosito il frequente richiamo bibliografico e le numerose citazioni, apposte ai punti più rilevanti (apertura e chiusura dell’ultimo suo saggio, “Short Cuts. Il Cinema in 12 storie”) derivanti dal testo di Carlo Rovelli, “Helgoland”. Quest’ultimo, solo in apparenza, tratta di argomenti di fisica quantistica lontani, dal mondo di cui parla Crespi.

In realtà la trattazione scientifica scorre per proprio conto ed è materia per chi è già esperto di quelle plaghe scientifiche: la storia narrata è affascinante e conferma l’assoluta distanza stratosferica tra i comuni mortali e i grandi possessori di scienza. Ma in quel saggio vi sono anche pagine che dovrebbero indurre a profonde riflessioni i nostri uomini politici, soprattutto quelli che ritengono di essere in possesso di qualità culturali superiori; senza andare a scomodare le solite affermazioni sulla Storia bisogna che vi sia la consapevolezza che “essa” ha un valore nel suo dipanarsi ma poi deve essere sempre sottoposta ad una verifica critica, che tenga conto delle variabili collegate ad una visione che sappia riconoscerle per adeguare le future scelte.

“Ogni visione è parziale” scrive Rovelli a pag.195 “Non esiste un modo di vedere la realtà che non dipenda da una prospettiva. Non c’è un punto di vista assoluto, universale. I punti di vista tuttavia comunicano, i saperi sono in dialogo fra loro e con la realtà, nel dialogo si modificano, si arricchiscono, convergono, la nostra comprensione della realtà si approfondisce.” E ancora, sempre in quella pagina: “Di relazioni è fatto il nostro io, le nostre società, la nostra vita culturale, spirituale e politica.”

In realtà Carlo Rovelli parla del lavoro dello scienziato, che non può fermarsi al dato oggettivo di un unico soggetto in un determinato momento ma ha bisogno di approfondire e comunicare inter relazionandosi con altri scienziati.

“Tutto quanto siamo stati capaci di fare nei secoli lo abbiamo fatto in una rete di scambi. Per questo la politica di collaborazione è più sensata ed efficace della politica di competizione”.

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