dedicato alla mia terra (Procida)

VIAGGIATORI (da un dattiloscritto degli anni Sessanta)

 PROCIDA – L’ETERNO “ritorno”

“Novembre, il cielo ancora azzurro, i campi disadorni e i fossati verdi…A te ritorno, isola, così un nocchiero rivede la sua terra e s’inchina a baciarne le prime zolle…

ANNI CHE NON TI RIVEDEVO! che non assaporavo la tua quiete, nel percorrere le tue stradine, le viuzze con balconi fioriti e le comari con i loro pettegolezzi “quasi” per riservatezza muti”

Sembra come se doversi limitare al solo porto, quando sbarcano i viaggiatori, l’isola di Procida! Ed invece nasconde dietro la falsa quinta delle sue prime case di pescatori una ricchezza immensa che, durante il mite autunno, è ancora parzialmente incorrotta. Il silenzio vi è smosso di tanto in tanto dalle grida stridule e possenti di qualche venditore, dal botto di un fucile, dal rombo di un aereo straniero, dal clacson della corriera che si annuncia di lontano o che notifica la partenza.

“Ci siamo accorti troppo tardi che andava a finire così. Avevamo fatto di tutto per evitarlo, e tante parole inutili. Poi, improvviso, il mondo ci aveva assalito.”

La mia civiltà, la nostra civiltà è quella che ora noi tutti ignoriamo, anche se un giorno l’abbiamo avvicinata e l’abbiamo conosciuta. Civiltà di infanzia, civiltà di piccole cose, mondi eterni irripetibili, senza mai un ritorno, infanzia, fanciullezza, adolescenza, felicità, sorrisi.

Dovevo essere piccolo piccolo, pochi mesi o poco più di un anno. Le braccia del nonno materno, Vincenzo, le sento ancora e mi vedo in una stanza che solo ora mi è ben nota, dal pavimento uguale a quello di una vecchia casa mia, tenuto stretto da un fantasma, una forma senza tempo come l’aria, il cui volto posso solo intravedere da un ritratto, ingiallito dal tempo, nel quale il busto del nonno sembra emergere dalle nebbie.

Uguale allo zio, il nonno, con un paio di baffi che certamente avrò toccato e tirato nelle innocenti smanie di un bambino.

Soltanto questo, ricordo di mio nonno.

Ho poi vissuto gran tempo lontano ed il mio ritorno si è fatto man mano più rado, le mie visite frettolose col passare degli anni.

“Ma non potrò dimenticare i luoghi,  le persone che mi sono state e mi sono più care, che ho lasciato non troppo ma pur sempre lontane.”

I giochi da bambino sono per me il desiderio più represso ma non trovo – e forse nemmeno ricerco – altre persone capaci, comprensive e pronte a sognare con me; e tutte sarebbero pronte a denigrarmi.

Vado passeggiando giù per i viali terrosi stretti e gli alti fossati che mi videro saltellante gioioso ranocchio insieme ad altri spensierati fanciulli, per sfuggire l’attanagliante noia dei tempi che avrebbe facile vittoria nell’adulto bambino che mi ritrovo ad essere, che sono, l’accidiosa involontà di essere un verme strisciante ed il desiderio represso di volare al di sopra degli altri, come nei sogni notturni che avevo da bambino, una cosa piccina, molecola sconosciuta ed invisibile del grande infinito universo.

Assaporo il mandarino strappato con voglia dall’albero; il suo sapore asprigno, il suo profumo pregnante mi ravvivano da sempre ricordi di momenti lontani misteriosi archetipici ed anche per questo del tutto prerazionali; e mi provocano sensazioni uniche e mi sento un po’ – e per poco – male: insolita tristezza provata che genera poi energia creativa.

Imbocco una strada, ora di asfalto, e mi trovo su di un viottolo, erboso ai margini, rovi spinosi prorompenti nella bella stagione ed erbe della macchia mediterranea profumate più intensamente dalla pioggerella recente, acre sapore di mare salso, di sole, di terra bagnata umida tiepida ed accogliente; fin quando poi non si intravede il mare, il sole all’improvviso apparso tra gli alberi dietro i recinti murari a volte a secco che i contadini avevano costruito per delimitare i loro pezzi di terra e, dietro la leggera patina di foschia, oltre la striscia blu verde chiaro sfocata a parte ed altrove piena di faville, l’altra isola più grande che con la sua cima tra le nuvole osava toccare e sfidare il cielo.

Mi siedo là sul precipizio mantellato d’erba e rimango in silenzio a guardare: luci strane ed abbaglianti, le onde riflettono i raggi del sole al suo calar nelle onde e sembra un silente messaggio meccanico della natura.

“isciacquio, sciabordio, dolci rumori” rimango a guardare, in silenzio assorto a pensare, ed il mare culla, incanta la mia mente. In questo posto alcuni anni fa….

In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…

E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.

“Fore Serra”, nella terra di miei parenti, era la passeggiata nei pomeriggi di tutte le domeniche procidane. Ci andavamo tutti e come sempre davo da pensare ai miei, preoccupati che potessi scappare dalle loro mani per fare un tuffo nel mare dall’alto della collina di Punta Serra.

Ma se scappavo arrivavo fino al recinto dei maialini a tirar loro i codini contorti melmosi, a sentirli grugnire nel loro incomprensibile dialetto animalesco.

“Quella notte avevamo bevuto tanto, e mangiato per giunta in modo spropositato; la prima uva ornava le viti; mio cugino, più esperto e “padrone” del territorio, era addetto al raccolto furtivo aiutandosi al buio con le sole sue mani già abili e scaltre.. sentimmo di lontano, ma non troppo, musiche e canti, fisarmoniche e voci, grida e fresche risate, fuochi crepitare e vedemmo nel cielo senza luna e senza nuvole tre stelle cadenti ed un corpo non ben identificato, lontano, zigzagare e poi scomparire nei segreti meandri della Via Lattea. La voce della fanciulla che non mi riconosceva, e come avrebbe mai potuto, la porto nella memoria tuttora e sarebbe apparso come un avvenimento ancor più importante il giorno dopo nella mia mente. Girammo intorno al fuoco ormai quasi spento, come in un rito inconscio per la delusione di essere soli, per il desiderio di avere, di possedere un bene, un amore, quella ragazza, forse!

Girammo intorno al fuoco già spento, per dirci che eravamo ubriachi, per sentircelo dire ne accentuavamo il barcollio ed il balbettio insensato, e provare quel senso di abbandono totale da incoscienti, o quasi.

E da incoscienti guidammo l’auto giù per una strada tutta curve, senza mostrare responsabilità,  di notte, luci spente, come matti; e forse lo eravamo davvero. Così matti da andare poi subito a dormire, quella notte calda, senza nemmeno svestirsi, quella notte calda, accogliente, senza vento, un cielo stellato, un mare calmo, senza sorprese; a dormire quella notte, come matti; e prima avevano pianto i porcellini ancora giovani nel loro recinto, quei porcellini cui il cugino cattivo aveva anche lui voluto con più energia tirare i codini: avevano pianto e strillato forte; ma nessuno poteva sentirli, né aiutarli.

E, poi, quella ragazza che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

Arrivavo sotto gli alberi con l’immenso desiderio di scalarli e sentivo sapevo di non farcela di non averlo mai saputo fare, mentre gli altri veloci raggiungevano i posti più alti ed io, graffiandomi, rimanevo a guardarli impotente (una foto del tempo delle elementari me lo ricorda impietosamente). Le querce di Procida erano alte e dal tronco largo e nodoso. Sotto queste piante, sui bordi del promontorio di Serra, le buche dei conigli mi mettevano una strana paura e il ricordo correva a quel mio dito sanguinante inciso dai denti di uni di essi; ed ero minuscolo bambino ancora ingenuo e poco accorto lanciato alla conoscenza del mondo e delle sue piccole insidie. Sin da quel tempo, il cane da caccia “muso storto” mi guardava ringhiando e vaniva la mia coraggiosa intenzione di avvicinarlo e di carezzarlo con segno di amicizia da quel curioso che ero, allora, da quel curioso pettegolo che sono, adesso. La capra dal suo recinto protetto, addossato alle mura di quella casina diroccata in parte, ma del tutto abbandonata e trasformata in piccola stalla, lasciata lì solo a baluardo, con le sue mura forti ed alte, belava sentendoci arrivare, segno che l’ora del pasto e della mungitura delle sue mammelle lattifere era già arrivata. Tra tutte queste attività correvo scappavo dappertutto raccogliendo le ghiande e lanciandole qua e là con il segreto intento di raggiungere il mare, vicino (allora così mi sembrava!) da uno o dall’altro lato della punta, ed avrei voluto vedere nell’acqua, che tuttavia era lontana, i cerchi ingrandirsi concentrici e precisi man mano fin poi a scomparire.

Avevo saputo che laggiù sulla stretta spiaggia del Pozzo Vecchio venivano anche di inverno nelle belle giornate calde perché soleggiate gli innamorati, a cercare un istante di pace, uno scorcio romantico dove ispirarsi, ci venivano anche gli artisti, i fotografi, con i loro pennelli ed i loro colori, con le macchine fotografiche ad eternare momenti ed immagini.

“Dissi a mio cugino che andavo scrivendo qualcosa, niente di molto serio, poesie, racconti. Eravamo là sulle gradinate di casa, le lunghe caratteristiche gradinate procidane mediterranee costruite con il tufo e spalmate di bianca calce; ed io preferivo lungamente star lì seduto, piuttosto che andare al mare, che era per di più a quattro passi da noi; preferivo rimanere con me stesso, da quel chiuso riservato carattere che avevo, piuttosto che scendere alla spiaggia, a contendermi gli sguardi e le risa delle ragazze, a provare gelosia ed insieme invidia, a giocare con rabbia per emergere, farmi notare, ad impormi con aggressività nelle facoltà dove stimavo di eccellere e che spesso erano sottovalutate e derise, a nascondere la costituzione macilenta del mio fisico indossando maglioni poco adatti al caldo estivo, al sole che picchiava sulle sabbie sempre più calde, bollenti. E mio cugino mi offrì un sorriso di commiserazione, comprendendo che andavo rivolgendo dentro me stesso tempeste. Non avevo mai amato soverchio la bellezza, forse perché essa mi trovava sempre impreparato, sprovveduto, timido e chiuso. Avevo imparato che la bellezza era anche simbolo di vanagloria ed ogni volta che incrociavo gli occhi di una ragazza ostentavo una indifferente noia, un superficiale disgusto, una maschia sicurezza, che nascondeva l’immensa quantità di complessi.

Il tempo passa e ritorno, con lo stesso animo di un tempo, con gli stessi nascosti desideri di vincere l’età che mi trovo, di ritornare ancora una volta bambino e mi piace ritornarci da solo ad ascoltare e parlare con i fantasmi di coloro che ormai non vedo più come una volta, vinti dalla memoria e dagli anni.

“Un giorno verremo a trovarvi” “Un giorno andremo” aveva detto mio padre e loro ed a me. Ed avevo pensato con intima gioia all’attimo dell’abbraccio e del bacio non più dato solo per affetto, né per abitudine inveterata di famiglia. Mi recavo da solo in soffitta ad aspettare ed arrivava puntuale, ma il più delle volte si rimaneva a guardarci negli occhi, per un po’ soltanto guardarci negli occhi e poi ridere, fortemente eccitati, come sbocco di una voglia tremenda. La stessa buona stoffa di un voyeur, che da sempre aborrivo, sorgeva in me allorquando mostrava la bella forma nei suoi abiti felicemente larghi e campagnoli, larghe gonne e non lunghe, nello scendere i pioli delle scale che portano alla stretta e protettiva soffitta. Cosa era successo al nonno, non l’avevo più visto e poi mi avevano detto che era morto e ricordavo quando mi aveva stretto a sé, mi aveva portato con lui, e questo mi aveva lasciato dentro la misteriosa arcana paura di un regno invisibile vicino e lontano, lontano e vicino ma senza ritorno, di un luogo tremendo dove regna il silenzio, dove non si può più comunicare tra noi, la qual cosa mi toglieva ogni speranza di immortalità, quella a cui avevo sempre creduto. “Gli altri, non io” mi dicevo e ne ero convinto ma non sapevo, non capivo, non mi rendevo conto che cosa fosse la vita, cosa fosse la morte. E quelli che ci lasciamo dietro e che ci precedono sono tappe comunque della nostra vita; senza speranza di evitare il turno, ci affrettiamo a dimenticare lottando con gli altri, fingendo a noi stessi la vita, recitando commedie mai scritte, innamorandoci. Dov’era mio nonno, il nonno? Quando io ero bambino non ho ricordi che mi diano pace, consolazione, solo quei buffi baffi folti e quel volto dello zio, dello zio Michele così buono, che ha pagato molto cara la sua vita affrontandola seriamente ed in tanta solitudine. “Và ‘o cinema co’ Michalino; Assuntì, Peppino va ‘o cinema co’ Micalino” dicevano le zie a mia madre che mai mi avrebbe lasciato allontanare da solo ed io, già un ragazzetto, a dieci anni, attraversavo le stradine dell’isola, rifiutando per ribellione la mano dello zio, per orgoglio, per dimostrare la mia autonomia, lo zio poco loquace e dal sorriso buono ed io altrettanto silenzioso e per niente ciancioso verso di lui che mi avrebbe, forse, preferito, almeno allora quando si è bambini, più aperto ed affettuoso. Ma io non ho saputo mai mentire, non potevo essere diverso da quel che ero, riflessivo e riservato, specialmente con le persone che ho amato, quelle più care. Forse ho finto con la gente che non ho stimato, che non ho mai stimato, con quelli che mi hanno amaramente deluso facendomi prima credere in loro e mostrandosi poi quelli che veramente erano. Odio per questo ancor oggi i subdoli amici, non mi va di essere preso per i fondelli da chi non è intelligente da mondo e semmai merita finanche l’immortalità fra gli stronzi. Con lo zio al cinema scambiavo così sì e no qualche parola. Vi incontravamo suoi amici ed allora li sentivo parlare, e li ascoltavo con grande attenzione, dei loro problemi, la raccolta dei limoni, la qualità dell’uva, la vendemmia, la quantità di vino prodotto, le botti, il cane, le galline…..

Nei campi c’era tanta erba e la sera, un’ora prima del tramonto, si andava a raccoglierla. Bisognava però sapere quale sì e quale no. “No, chesta n’è bbona” diceva la zia Linda, esperta (perché quello era davvero uno dei suoi “mestieri”) del lavoro agreste e tanto spesso la vedevo zappare le zolle, salire gli “scalieddi”, raccogliere “dd’ove” alle galline spesso togliendogliele da sotto le chiappe ed allora – a volte – mi veniva di imitarla e rischiavo di cascare giù dall’alto di una scala a pioli, di tranciarmi le dita del piede con la zappa o di farmi beccare un occhio dal geloso gallo per il fastidio che procuravo alle sue pennute signore schiamazzanti nel recinto del pollaio. Con lei la zia Linda, donna molto dolce ed affettuosa con noi suoi nipoti, mi portava, ed erano impegni seri i suoi, tremendamente seri e, non si sarebbe mai detto oggi, mi piacevano particolarmente, ne ero affascinato; mi piacevano, in quel tempo! La Chiesa di S.Antonio Abate, detta popolarmente “Sant’Antuono” per distinguerla dall’altra dedicata a S.Antonio da Padova, era la sua seconda casa e le sere le trascorreva, come oggi potrebbero fare le dame in un salotto borghese attorno ad un tavolo da bridge o da burraco, accanto alla mensa del Signore. Procida è un’isola molto religiosa, tradizionalmente molto religiosa, ed io non nascondo a me stesso che mi attirava, mi interessava tanto quella vita, quell’ambiente con quei profumi intensi di incenso, tanto da farmi spesso pensare, e le zie qualche volta mi avevano anche incoraggiato, che in quel tempo desiderassi essere se non proprio prete, perlomeno un chierichetto. Procida era un’isola molto religiosa. Ora lo è di certo ancora ma forse per quei bambini che vivono innocenti nelle loro piccole case di campagna con una famigliola che li educa, integra moralmente perché vuole fare di loro dei buoni figli e li mantiene lontano da tutto quello che nel mondo simboleggia la corruzione, la civiltà del perbenismo e dei consumi esasperati. Amorosamente  cresciuti crederanno fin quando sarà loro possibile, come per quel bambino che ero io, alle storie del Cristo di cui vedono dappertutto gli esempi, senza però accedere a quei disvalori propagati dalle notizie diffuse dalla stampa, dalla televisione, dalla vita quotidiana di una qualunque piccola, media o grande città. Avranno la convinzione di essere anche loro una parte dell’eterno mondo ed invece dovranno forse un giorno abiurare amaramente a questo loro alto convincimento ideale. Cristo! Come avrei potuto esserlo, come avrei potuto diventarlo, come avrei potuto rimanere come ero quando ero bambino. Ma fui tentato dalla nostra Chiesa, quella che aveva abbandonato la primitiva semplicità, e fra Procida e la terra su cui vivo non c’è una distanza incolmabile, non aveva adottato solo la tecnica della presunzione di credersi migliori, aveva peccato  non solo di orgoglio, ma di ogni sorta di peccato, aveva forse creduto di essere veramente inattaccabile ed era poi caduta miseramente nel fango qui dentro il mio cuore. La mia debolezza mi aveva sconfitto di dentro ed avevo deciso risolutamente di rifiutare al Signore il mio impegno. Ma, in quegli anni di infanzia con le zie,  gli odori inebrianti di incenso, i colori ed i fregi delle chiese, delle immagini affrescate o dipinte dei santi, degli angeli e dei diversi protagonisti della storia religiosa (Cristo, la Madonna, lo Spirito Santo, il Padreterno), l’odore del legno dei banchi passati a lucido anche se molte volte corrosi dai tarli ed il canto corale delle donne, nelle diverse funzioni religiose cui partecipavo, che a tratti era accentuato quasi a volersi far ascoltare dal Signore lassù oltre le nuvolette, mi affascinavano non poco. 

La mia giovane semplicità mi fece entusiasmare quando feci conoscenza con una donna che aveva fatto voto di castità, un personaggio interessante ma forse un po’ fuori dagli schemi normali, un po’ folle, di quella follia che accomuno ad una passione disinteressata, ad un dedicarsi totale al servizio degli altri. Folle, sì; ma sono sicuro che a nessuno sia mai saltato in mente di chiamare folle una donna che viva santamente la propria esistenza fra una funzione religiosa e l’altra avvicinandosi anche più volte al giorno ai sacramenti ma sempre con l’obiettivo di praticare del bene. Ed in fondo se non altro per lei questa è la vita! La donna era fondamentalmente sola, era da troppo tempo stata sola come in una sorta speciale di clausura dalla quale era riuscita ad emergere; la tragedia della solitudine ci passa accanto chissà quante volte ma non ci coinvolge e quindi non riusciamo a comprenderla, non possiamo capirla, non possiamo, non potete conoscerla mai pienamente. L’aria di santità la circondava completamente; entrare in casa sua era come varcare una parte segreta di un santuario; prima di arrivare nella sua stanza si attraversava un corridoio buio un po’ funereo  illuminato solo dalla luce fioca di candele poste davanti a quadretti di vari santi. Ella di solito sedeva in una stanza in fondo al corridoio principale su un’ampia poltrona – le sue forme negli ultimi tempi tendevano all’obeso spinto – davanti alla quale aveva un ampio ma basso tavolo sul quale poggiava alcuni libri di preghiere, una bottiglia d’acqua ed un bicchiere, un piatto di porcellana dozzinale ed un’oliera piccola. Nei miei ricordi la stanza era buia ed illuminata da lumi a petrolio e da candele accese davanti a fotografie di persone morte. Si avvertiva un odore di antico, di pulito ma anche di vecchio, una mistura unica ed irripetibile che non ho mai più avvertito da tempo. Fra le mani di solito stringeva una coroncina del Rosario e murmuliava parole sconnesse in un italiano-latino tutto particolare. Il tutto faceva un po’ senso, ma il ricordo oggi non mi appare negativo; ero in quel tempo abituato più di ora a frequentare quei luoghi. Sembra che ella riuscisse a parlare anche con i morti e praticava arti un po’ insolite per gli ambienti religiosi come la lettura e l’eliminazione di quello che popolarmente chiamano “il malocchio”. Ho visto anch’io in diretta apparire e sparire misteriosamente gli “occhi” d’olio nel piatto dove prima aveva versato un fondo d’acqua e poi attingendo con le dita dall’oliera due-tre goccioline d’olio le aveva fatte schizzare nell’acqua. Ma ora a raccontarla sembra sia stata tutta un’allucinazione, una suggestione.

E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

A tavola erano in otto, quella sera. Mancava uno dei giovani maschi, Michele,  che già da tempo aveva deciso di andare a vivere da solo; ritornava di tanto in tanto più per necessità che per vero senso di appartenenza familiare,  ed era un po’ un isolato, forse misogino,  inadatto a vivere in una comunità con la prevalenza femminile.  C’era aria di festa; Domenico era tornato per un breve congedo dal servizio militare. Come si conveniva ad un lupo di mare era stato arruolato nella Regia Marina, Corpo Reale Equipaggi Marittimi, prima sul’incrociatore Garibaldi fino al marzo del 1938 e poi sul cacciatorpediniere Ostro. Erano vicine le festività pasquali e si respirava un’aria di primavera inoltrata; non aveva molti giorni ma avrebbe partecipato alle funzioni della Settimana Santa, quelle del giovedì, il 14 aprile e del venerdì, di certo; ma doveva far ritorno la mattina del sabato per consentire ad altri suoi compagni di poter andare in congedo. Era fortunato perché a Procida quella settimana ha un forte connotato religioso innervato nella realtà sociale: tutti, in modi diversi, vi partecipano.

“Comme te va, Mimì, te veco ‘nu poco dimagrito” disse Vincenzo, il capofamiglia con un paio di baffoni curati alla Umberto I e  seduto in cima al tavolo largo e capiente. “Nun te fanno mangià comme a casa; ma chi è che te cucina?”. Mimì sorrise e, tra una cucchiaiata di minestra di fagioli bolliti nel tradizionale fiasco e poi conditi con patate, erbe, cipolle e cotica, di quella conservata in gelatina con una parte di carne di maiale, mise le mani nel giubbotto che aveva appoggiato dietro la spalliera della sedia e ne tirò fuori un portafoglio dal quale estrasse alcune foto. “Ecco, qui simmo in libera uscita, a Taranto” mostrando la sua divisa ancor più elegante nel suo portamento di giovane poco più che ventenne  “e comme vedite c’è tanta ggente, tanta bella ggente, tante gguaglione ca ce guardano e, insomma, ce stà da fà”  fece con orgoglio maschile. “Chest’ata fotografia è a bordo, eccolo qua, chillo ca ce fa da mangià”  e mostrò un giovane dal sorriso aperto “ è nu guaglione de Puzzule, Lello; pur’isso è in congedo e forse, ci aggio ditto io, me vene pure a truvà, venerdì, e po’ ce ne iammo assieme”. La famiglia di Mimì era molto ospitale ed accolse con piacere l’annuncio della visita di chi, alla fine, si curava del benessere del loro congiunto. “E che cucina?” chiese la maggiore delle sorelle, forse curiosa forse invidiosa di un ruolo che aveva da tempo assunto con perizia. “Di tutto; però, basta che sape fà nu bbuono raù, ‘na bbona frittura, nu poco ‘e carne e quacche vvota ‘na bella ‘nsalata e a nnuje ce basta. Nun te preoccupà, Agnesì; a tte nisciuno te batte”. La madre Rachele gioiva solo al vederlo, quel figliolo, seduto in mezzo a loro, e non parlava. Mimì parlava con il padre e con le quattro sorelle scambiava poche parole, tanto erano esse riservate e di conseguenza silenziose. La più piccola era intimidita da quel fratellone grande e grosso ma aveva gettato lo sguardo, mantenendosi lontana, su quella foto nella quale c’era il “cuciniere” di bordo

C’era qualcosa che la incuriosiva e facendosi coraggio dentro senza esprimerlo fuori si avvicinò al fratello abbracciandolo  ed accoccolandosi accanto a lui saettò con le pupille sulla foto. Quel giovane era molto bello, il suo sorriso dolce e delicato quasi vicino a quello di alcuni angeli che aveva guardato ammirato e sognato nelle immagini sacre nelle chiese di Procida; Mimì non era fesso, se ne accorse e disse: “Tina, te piace? È ‘nu bravo guaglione, ‘nu grande lavoratore; nun se ferma maie. Nun cucina sultanto, fa tutto chello ca i superiori gli diceno; è bbravo a fà ‘o carpentiere e quindi aggiusta tutt’ ‘e scialuppe e a Puzzule ha fatto pure ‘o piscatore; però nun saccio se a Puzzule tene ggià ‘na guagliona. Nun t’allummà.”.

Tina, la minore, era la più coccolata dai fratelli e dalle sorelle e possedeva una grazia minuta, occhi grandi di color marrone ed una grande voglia continua di cantare e di danzare mentre svolgeva i suoi lavori domestici che erano assegnati a lei; gli altri lavori, quelli di campagna e l’accudimento degli animali, erano appannaggio delle altre sorelle, più robuste ed esperte. Sognava, invece, e aspettò il 15 aprile per vedere di persona come era quel ragazzo. Lo aspettò anche un po’ guardando dall’alto del tetto di casa la costa lontana oltre il Capo Miseno, là dove c’è Pozzuoli. Lello sarebbe arrivato di buon mattino, venerdì, quando a Procida c’è la processione del Cristo Morto, transitando attraverso Torregaveta con la Cumana.

Lello a Pozzuoli era arrivato la mattina di martedì 12 insieme a Umberto e a Mimì, che si era subito imbarcato per arrivare a Procida prima di pranzo. Umberto abitava sul Lungomare verso le Terme “La Salute”; la famiglia di Lello invece che fino a pochi anni prima aveva abitato alle spalle del Corso Garibaldi in un seminterrato molto modesto si era trasferita alle nuove Palazzine popolari alla base della Ferrovia nazionale ed a pochi passi dall’Anfiteatro Flavio lungo la Domiziana. Don Peppino e donna Rosa avevano cinque figli, 3 maschi e 2  femmine e riuscivano a stento ad andare avanti. Lello era il maggiore ed era l’unico ad essere stato arruolato; degli altri maschi uno era proprio piccolo a quel tempo e l’altro pure, ma di statura,  per la qual ragione era stato esentato dal servizio militare, il che era una fortuna perché poteva contribuire al reddito della famiglia.

Don Peppino era abile carpentiere di barche: Lello aveva imparato da lui. Lello era il figlio prediletto soprattutto per il suo comportamento integerrimo e la grande disponibilità a farsi in quattro per la famiglia. In città la vita era più dura per tutti rispetto a chi abitava in campagna e spesso si soffriva la fame per cui bisognava andare verso l’interno (Toiano, Quarto, Monte Ruscello) per cercare di comprare a prezzi i più convenienti materie prime, non importava se di scarto e di pessima qualità. A pranzo, però, ora che c’era Lello donna Rosa aveva preparato “fasule e pasta” perché sapeva che a Lello piacevano e non sapeva che anche a bordo lui li cucinava molto spesso e li proponeva ai suoi compagni; per di più, in cambio di un lavoro su una barca da pesca, a don Peppino avevano regalato dei polpi e per questo a casa di Lello era una vera festa quel giorno, doppia.

“Te veco bbuono, Rafilù” disse donna Rosa “se vede che ll’aria d’’o mare te fa bbene”. “Sì, mammà; veramente nun ce manca niente e po i’ stongo int’’a cambusa e mangio tutte chello che vvoglio; aggia assaggià pe’ tramente cucino; faccio ‘a pacchia e i superiore me lassano fà”. Le sorelle, soprattutto Maria lo prese in giro, ricordando uno dei giudizi sulla sua pagella dove, a parte la condotta, l’unica valutazione “Lodevole” era stata quella per “Lavori donneschi e manuali”. Risero tutti, anche Lello, ma non fece mai parola, però, della nausea che lo prendeva quando ai profumi dei cibi si mescolava il puzzo della nafta. E tra una cucchiaiata e l’altra, parlando del più e del meno, della scarsa voglia di andare a scuola del fratellino e gli impegni di lavoro del padre e dell’altro fratello e le storielle d’amorazzi veri o fittizi delle due sorelle, parlò dei suoi amici, di Umberto che tutti a Pozzuoli conoscevano ma anche di Mimì, che lo aveva invitato a Procida, in occasione del Venerdì Santo. Chiese ai suoi di  poter ricambiare l’invito già per sabato a pranzo; avrebbero dovuto però mangiare velocemente qualcosa e presto, a mezzogiorno, nulla dunque di impegnativo (anche se, lo avesse voluto,  non sarebbe stato facile) perché sarebbero partiti nel primissimo pomeriggio per raggiungere Civitavecchia. Lello aveva visto, anche lui, alcune foto della famiglia di Mimì ed era curioso di conoscerla; in particolare aveva notato la più piccola, Tina; ma di ciò non aveva mai parlato né con Mimì né quel giorno ai suoi.

Il resto della giornata Lello lo trascorse con il padre nei Cantieri navali per vedere il lavoro che stava portando avanti.

E venerdì mattina nella casa di campagna di Procida tutti erano svegli, come di consuetudine, molto presto. Il Venerdì Santo, poi! Tina non aveva dormito pensando a come si sarebbe agghindata. Il giorno prima si era lavata i capelli e se li era composti con un nastrino che glieli teneva dietro lasciando aperto l’ovale del viso; aveva scelto un vestitino a fiorellini molto adatto alla primavera ed un paio di scarpe basse comode. Arrossendo aveva chiesto a Mimì, che quel giorno aveva per obbligo indossato la divisa di ordinanza dei “Marò”,  se lo poteva accompagnare al Porto; Mimì acconsentì ma a patto che fossero d’accordo Vincenzo e Rachele. Di lui si fidavano perché lo conoscevano come ragazzo assennato, anche lui un gran lavoratore nella pesca oltre che braccio essenziale per la campagna, e non ebbero nulla in contrario a che Tina andasse insieme a lui. Si fidavano anche dei suoi giudizi e, se Lello era suo amico, pensavano dovesse di sicuro essere una brava persona. Le sorelle mugugnarono sotto sotto, erano fatte così; in effetti mantenevano un comportamento molto austero e mal sopportavano la puledrina a volte un tantino ribelle. Erano fatte così, rappresentando forme arcaiche in tempi che avrebbero portato forti cambiamenti. E Tina era alla fin fine la più vezzeggiata e si permetteva spesso di trasgredire.

Alle otto, più o meno alle otto arrivò il vaporetto. Mimì e Tina, orgogliosa di essere accompagnata da un fratello così elegante, alto, robusto e bello, erano sulla banchina.

Non era alto, Lello; ma a Tina apparve così mentre, vestito con la divisa da “marò”, scendeva la scaletta del vaporetto. Si andarono incontro e Mimì fece le presentazioni: i due già si erano conosciuti e le impressioni delle foto furono tutte confermate. Lello, benché fosse di carattere timido, complice la presenza dell’amico, si mostrava a suo agio; Mimì gli propose di lasciare il borsone con i suoi effetti personali negli uffici del Cantiere Navale che era gestito da un suo cugino in modo da poter poi girare senza tanti ingombri nel seguire la Processione del Venerdì Santo. Il giovane accettò subito di buon grado e poi si lasciarono entrambi prendere sotto braccio dalla radiosa Tina ed andarono incontro alla testa della Processione ascoltando il suono funereo della tromba che annuncia la morte del Cristo.

Tina avvertiva una forza che le infondeva sicurezza nel braccio di Lello che la stringeva verso di sé quando dovevano farsi largo tra la folla dei fedeli che seguiva il corteo nelle stradine di Procida. E quella ragazzina minuta esprimeva una freschezza straordinaria lasciandosi trasportare da quei due bei giovanotti, suscitando gelosie ed invidie in quelle persone, soprattutto donne ed in quel giorno particolare, che non riuscivano ad apprezzare la gaiezza ed i sorrisi anche se mai espressi in modo minimamente e seriamente riprovevoli. Lello chiedeva di tanto in tanto a Mimì, ma era poi sempre Tina a rispondere, alcuni significati dei simboli presenti nei cosiddetti “Misteri” che venivano trasportati dai fedeli incappucciati. E lei si impegnò volentieri a farlo essendo, come donna, molto più addentro alla conoscenza delle funzioni religiose, anche se non era mai stata assidua nel frequentare la Parrocchia e le sorelle per questi motivi tante volte l’avevano rimproverata.

Dopo aver ripreso il borsone di Lello, ritornarono a casa che era ora di pranzo. Per arrivarci, passarono attraverso un sentiero stretto costeggiato da campi coltivati e qualche rara abitazione. La casa era una tipica costruzione multifamiliare con cucina, camera da pranzo e cantine al piano terra e con una serie di piani concatenati da una scala interna. Si sentiva già mentre i tre arrivavano un invitante profumo di cibo. Il venerdì, poi quello Santo ancora di più, era consuetudine mangiare di magro. I genitori erano già seduti a tavola, quando i tre entrarono e Mimì presentò loro Lello; le sorelle lo salutarono con un certo riserbo sussiegoso, cioè senza eccessivi entusiasmi. Tina scappò, prima di entrare in cucina, nei piani alti per togliersi il vestitino da festa e subito dopo però si mise a disposizione delle sorelle in cucina.

Al di là del Venerdì Santo, giorno di meditazione per i fedeli, quel dì era comunque “festa” soprattutto perché il giorno dopo, di prima mattina, Mimì e Lello sarebbero partiti per Civitavecchia.

Tina era composta ma raggiante; per lei quel giorno non era ancora ora delle tristezze e dei rimpianti. Le sorelle se ne accorsero e qualche sorrisino sotto sotto emerse. Il pranzo, anche se di magro, era di tutto rispetto; il pesce, tutto di qualità, fresco pescato due notti prima troneggiava bollito spinato e preparato facendo bella mostra in un enorme vassoio in mezzo al tavolo. Seguite con molta attenzione da un corteo di gatti le sorelle maggiori portarono due zuppiere ricolme di spaghetti ben conditi con pomodori freschi e acciughe sminuzzate, olive, capperi, prezzemolo e basilico. In un altro piatto ovale vi erano tantissime uova sode con il guscio coperto da alcuni segni simbolici. Anche Tina aveva contribuito a prepararle e ne volle segnalare alcune.

Don Vincenzo si rivolse a Lello: “Nuje sapimmo ca tu saje cucinà, facce sapè se chello c’hanno preparete ‘ffiglie mie te piace. Buon appetito!”. Nel mentre donna Rachele, che rimase più o meno muta per tutto il pranzo, e le due figlie più grandi distribuivano il primo.

Don Vincenzo e donna Rachele erano seduti a capo tavolo l’uno di fronte all’altra. Tina era seduta accanto e Mimì. Le altre tre sorelle distribuite in modo da poter più agevolmente alzarsi per togliere i piatti e distribuire le altre vivande. Sulla tavola non mancava nulla: in una grande e fonda insalatiera c’era un contorno di verdure fresche dell’orto; due brocche contenevano vino rosso prodotto nella vendemmia dell’anno precedente e non mancava l’acqua attinta dal pozzo di casa; sopra una delle credenze infine era pronta una cesta di vimini piena di arance, mele e limoni.

“Tu ‘o ssaje fratete comm’è” disse don vincenzo a Mimì che si preoccupava dell’assenza del fratello più piccolo “nun le piace sta’ in famiglia. E’ fatto accussì”.  In effetti Giovanni non aveva nemmeno gradito la presenza di un estraneo ed aveva deciso di non farsi vedere; di solito nelle festività partecipava.

A tavola soprattutto gli “uomini” ed in particolare Mimì e Lello, discussero dei loro progetti di vita, sollecitati a ciò da don Vincenzo, che espressamente aveva chiesto a Lello (don Vincenzo non era “fesso” ed aveva capito molto bene quel che sarebbe accaduto) cosa facesse prima  e cosa intendesse fare dopo la leva militare e il giovane parlò della sua esperienza  di carpentiere di barche e di piccole navi, che aveva acquisito insieme al padre sin da piccolo. Mimì, anche se a don Vincenzo in quel momento interessava poco, per non essere da meno, disse che lui voleva continuare a fare il pescatore. Le sorelle intervennero solo per distribuire le portate. Tina se ne stette sempre seduta buona buona ed in perfetto silenzio, osservando soprattutto quel giovane che le era di fronte solo un po’ discosto alla sua sinistra.

E Lello non si sottraeva agli sguardi.

A fine pranzo gli uomini si alzarono lasciando campo libero alle donne. Don Vincenzo si accese uno dei suoi soliti sigari; ne fumava uno o due al giorno, aveva bisogno di calma per poterlo gustare e di norma ciò accadeva solo dopo il pranzo o la cena. Lello e Mimì confezionarono una sigaretta con il tabacco fornito dalla Marina militare e fumarono seduti tutti e tre sotto un grande albero di gelso nell’aia davanti alla casa.in silenzio venne Rachele a servire il caffè prima di salire nella sua camera per il riposo della controra. Si sentivano intanto già i rumori tipici della rigovernatura dei piatti e delle stoviglie. Dopo anche le donne sarebbero andate a riposare. Il rito della “controra” non era però adatto ai più giovani e frenetici e così Mimì e Lello, dopo aver convinto (ma non fu un grande sforzo)  anche Tina a seguirli, decisero di andare a fare due passi. Il tempo prometteva di essere anche caldo e così andarono tutti e tre, passando per i campi coltivati per sentieri minuscoli,  verso la costa dell’isola, fra Ciraccio e il Pozzo Vecchio, da dove si vede l’Isola d’Ischia.

Mentre facevano un “pieno” di quello splendido paesaggio sopraggiunsero  altri gruppi di giovani, ragazzi con le loro chitarre che, insieme a giovani donne, suonavano e cantavano motivi tradizionali popolari, mostrando la loro fresca allegria. Due di loro evidenziavano un’indubbia perizia sulle loro chitarre mentre una delle ragazze batteva il tempo su un tamburello. Un’altra vide Tina e Mimì e li chiamò. I tre si avvicinarono e Lello potè notare che fra Mimì e quella ragazza vi era qualcosa di più di una semplice amicizia; infatti si appartarono mentre Tina si riavvicinò a Lello che intanto seguiva le evoluzioni canore e danzanti degli altri giovani. Tina era intimidita dalla situazione del tutto nuova per lei e dentro aveva una gran voglia di danzare così come stavano facendo le altre ragazze su quello spiazzo panoramico. Lello comprese il desiderio della giovane e vincendo la sua naturale ritrosia le prese la mano ed accennò alcuni passi, saltellando in un modo così impacciato che suscitò il riso di alcune, in particolare quello della stessa Tina, che subito dopo però arrossì, temendo di averlo potuto offendere. Lello era così gentile e si capiva che doveva proprio essere un bravo ragazzo. Tina aveva tante domande da fargli ma non riuscì ad aprir bocca. Mimì dopo un po’ ritornò; a Lello sembrò che, e lo aveva intravisto con la coda dell’occhio, prima di lasciare la ragazza con cui stava parlando, che si riunì al gruppo, i due si fossero scambiati un tenero dolcissimo quasi casto e timido bacio, ma mantenne, per sua natura, il totale riserbo.

La giornata poi si concluse con pochi eventi. A Lello e Mimì per la notte riservarono la stanza del “mezzanino”, un luogo appartato che portava sui tetti, caratteristici mediterranei e bombati, da cui si accedeva ad un panorama mozzafiato su tutto il Golfo di Napoli e di Pozzuoli. Il giorno dopo, all’alba, i due partirono, salutando la famiglia e nessuno li accompagnò. Tina, al solito dormigliona, quel giorno si era alzata insieme agli altri. Ed era schierata per il saluto, di certo in preda ad emozioni contrastanti.

“Cara Tina, ho chiesto a tuo fratello l’indirizzo ed anche il permesso di chiederti se vuoi essere la mia fidanzata. Fammi sapere presto perché sarò in trepida attesa di una tua risposta. Sei bellissima.”

Non appena furono a Civitavecchia Lello si era fatto forza ed aveva chiesto a Mimì l’indirizzo della sua famiglia; voleva scrivere a Tina e non solo per salutarla. Mimì capì, aveva capito. Stimava Lello e non aveva alcun motivo per non essere contento di quanto sarebbe potuto accadere. Aveva intuito anche che Tina non aspettava altro. E così accadde che dopo due settimane arrivò una lettera per Lello; in verità era solo una busta, ma conteneva una foto di Tina. Dietro ella aveva scritto: “Procida 3 maggio 1938. Offro a te, o mio eterno amore, questa mia piccola foto, in segno di affetto, tua indimenticabile Tina”.

A fine maggio Mimì e Lello furono congedati e ritornarono a casa. Mimì continuava a fare il pescatore a Procida insieme al vecchio padre don Vincenzo, Lello con don Peppino a fare il carpentiere nel Cantiere navale di Pozzuoli. Nei fine settimana Lello andava a Procida a casa di Mimì e di Tina. Ed era stato accolto come un altro figlio. Tutto, dopo una festa di fidanzamento modesta, in quanto la vita era sempre più dura, procedeva verso il matrimonio quando, iniziata anche per l’Italia la seconda guerra mondiale il 10 giugno del 1940, Lello fu richiamato alle armi a Civitavecchia. Avevano progettato di sposarsi in settembre, ma la Storia come il diavolo ci aveva messo la coda; era tutto inevitabilmente da rinviare.

Lello rimase a Civitavecchia fino al 18 aprile del 1943; di Mimì non sapeva nulla. Per tutto quel tempo Lello e Tina si erano scritti ma non avevano mai accennato ad altro se non ai loro sentimenti; Lello aveva anche nella prima lettera chiesto ma non ottenendo alcuna risposta aveva glissato in seguito; era sempre più in pensiero per i suoi, perché a Pozzuoli come in tanti altri paesi gli ultimi mesi erano stati durissimi: mancava tutto, in particolare il cibo. Era stato ferito non gravemente alla gamba destra ed usufruì di un breve periodo di convalescenza. Poi la Storia nuovamente bussò alla sua porta ed a quella di tante altre persone e lo aiutò a non tornare più in guerra nel totale sbandamento del dopo 8 settembre. Andava più spesso a Procida anche utilizzando mezzi di fortuna e con il buio per rifornirsi di cibo per la sua famiglia evitando i costi della piaga del “mercato nero”.

Mimì era riuscito ad evitare la chiamata alle armi e si era prudentemente tenuto nascosto, continuando comunque a pescare. La guerra dall’isola la si vide da lontano solo negli ultimi mesi.

Nei fine settimana Lello ritornava a Procida ed ora usciva sempre più spesso solo con Tina. Aveva abbandonato da tempo la sua timidezza e qualche sera insieme si ritrovavano con gli altri giovani a suonare e ballare davanti al fuoco.

A Tina piaceva girare vorticosamente fino a perdere l’equilibrio e ritrovarsi esausta fra le braccia di Lello. E girava, girava e la gonna si apriva e si gonfiava…si gonfiava.

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In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…

E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.

In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

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…E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

 …e come avrebbe potuto?….

PROCIDA L’ETERNO RITORNO   

FINE