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IL VORTICE DELLA VITA – ricordando François Truffaut – Jeanne Moreau

Un omaggio a François Truffaut – Il film è “Jules et Jim” tratto dall’omonimo romanzo di Henri-Pierre Roché ed a Jeanne Moreau.
Il primo video è tratto direttamente dal film, il secondo è riferito alla interpretazione di Vanessa Paradis e Jeanne Moreau a Cannes nel 1995.

Le parole sono di Cyrus Bassiak (pseudonimo di Serge Rezvani, scrittore, pittore francese, nato a Teheran nel 1928), la musica di Georges Delerue.

Le tourbillon de la vie

Elle avait des bagues à chaque doigt,
Des tas de bracelets autour des poignets,
Et puis elle chantait avec une voix
Qui, sitôt, m’enjôla.
Elle avait des yeux, des yeux d’opale,
Qui me fascinaient, qui me fascinaient.
Y avait l’ovale de son visage pâle
De femme fatale qui m’fut fatale {2x}
On s’est connus, on s’est reconnus,
On s’est perdus de vue, on s’est r’perdus d’vue
On s’est retrouvés, on s’est réchauffés,
Puis on s’est séparés.
Chacun pour soi est reparti.
Dans l’tourbillon de la vie
Je l’ai revue un soir, hàie, hàie, hàie
Ça fait déjà un fameux bail {2x}.
Au son des banjos je l’ai reconnue.
Ce curieux sourire qui m’avait tant plu.
Sa voix si fatale, son beau visage pâle
M’émurent plus que jamais.
Je me suis soûlé en l’écoutant.
L’alcool fait oublier le temps.
Je me suis réveillé en sentant
Des baisers sur mon front brûlant {2x}.
On s’est connus, on s’est reconnus.
On s’est perdus de vue, on s’est r’perdus de vue
On s’est retrouvés, on s’est séparés.
Dans le tourbillon de la vie.
On a continué à toumer
Tous les deux enlacés
Tous les deux enlacés.
Puis on s’est réchauffés.
Chacun pour soi est reparti.
Dans l’tourbillon de la vie.
Je l’ai revue un soir ah là là
trallallla
Elle est retombée dans mes bras
Quand on s’est connus,
Quand on s’est reconnus,
Pourquoi se perdre de vue,
Se reperdre de vue?
Quand on s’est retrouvés,
Quand on s’est réchauffés,
Pourquoi se séparer ?
Alors tous deux on est repartis
Dans le tourbillon de la vie
On à continué à tourner
Tous les deux enlacés
Tous les deux enlacés.

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Traduzione in italiano

Il turbinio dell’esistenza

Portava un anello per ciascun dito
una montagna di braccialetti ai polsi
e poi cantava con una certa voce
che pure mi acchiappava

Aveva certi occhi certi occhi d’opale
che mi affascinavano, o se mi affascinavano
e poi c’era l’ovale di quel pallido viso
di donna fatale che fatale mi fu.

Ci siamo conosciuti e riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
e ci siamo ritrovati e poi riattizzati
e poi ci siamo separati

Ciascuno è ripartito per fatti suoi
nel vortice della vita
e poi l’ho rivista una volta di sera trallallalla
e’ un ballo famoso

Al suono del banjo l’ho riconosciuta
quel curioso sorriso m’aveva invaghito
la voce fatale sul viso bello e pallido
mi emozionarono più che ma

Mi sono stordito mentre l’ascoltavo
l’alcool fa dimenticare
mi sono svegliato e sentivo
dei baci sulla mia fronte ardente

Ci siamo conosciuti e riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
e ci siamo ritrovati e poi riattizzati
e poi ci siamo separati

E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme
ci siamo riattizzati

Ciascuno è ripartito per fatti suoi
nel vortice della vita
E poi l’ho rivista una sera
trallallla
e mi è ricaduta tra le braccia

Quando ci siamo conosciuti
quando ci siamo riconosciuti
perché perdersi di vista,
perdersi ancora di vista?

Quando ci siamo ritrovati
quando ci siamo riacchiappati
perché separarsi?

Allora tutti e due siamo ripartiti
nel vortice della vita
E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme

The whirl of life
traduzione di Vanessa Paradis

She had rings on every finger
Tons of bracelets around her wrists
And then she used to sing with a voice
That, immediately, seduced me.

She had eyes, eyes like opal
That fascinated me, that facinated me
The oval of her pale face
Of a femme fatale who was fatal to me

We met, we recognized each other,
We lost sight of each other, we lost sight again
We met again, we heated up each other,
Then we separated

Each one is gone
In the whirl of life
I’ve seen her one day at night, ouch, ouch, ouch,
It’s been a long time now ( x 2)

To the sound of banjos I recognized her.
This strange smile that was so appealing to me.
Her voice so irresistible, her beautifull pale face
Moved me more than ever.

a cura di J.M.

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PERCHE’ “JOSHUA MADALON” E NON GIUSEPPE MADDALUNO terza parte

'O vico e poesie Di Giacomo

PERCHE’ “JOSHUA MADALON” E NON GIUSEPPE MADDALUNO terza parte

Il mio cognome è all’origine della denominazione successiva al mio atto di nascita. “Maddaluno” ha una grande diffusione nell’area Campania nord. Ha peraltro grande diffusione a Pozzuoli, dove risiedeva la mia famiglia (sono nato a Napoli così come i miei figli, toscani, sono nati a Firenze, anche se noi risiediamo dal 1982 a Prato). Vi sono delle variazioni diffuse in tutta Italia: a Belluno ad esempio vi è la variante Maddalozzo, con una splendido museo dedicato ad una famiglia rurale di quei luoghi ad Arsiè a pochi passi dalla Valsugana dentro la quale cui si perviene scendendo attraverso i tornanti di Primolano mentre di fronte lo sguardo si allunga verso Enego, primo contrafforte dell’altopiano di Asiago. Altre varianti sono Maddaluni, Mataluna, Maddaloni, che forse è quello più diffuso. Mi rifaccio con uno sguardo storico alle origini di quest’ultimo così come riportate da Wikipedia nel commento del toponimo della cittadina in provincia di Caserta, per l’appunto “Maddaloni”.

“Nel corso del tempo vari studiosi si sono cimentati nella ricerca dell’origine del toponimo Mataluni, ma non si è ancora giunti ad una conclusione certa; tra i tanti, il de’ Sivo si concentra sul Castrum Kalato Magdala, cioè il monastero di Maria Maddalena la cui chiesa fu distrutta dal terremoto del 5 giugno 1694. Secondo il Mazzocchi «questo nome fosse venuto al castello dalla voce araba di Magdalo, che vuol dire appunto castello, imposta a quel luogo forte dà Saraceni, che assai probabilmente dovettero farsene un nido di rapina». Per don Francesco Piscitelli, arciprete della Collegiata di San Pietro e studioso maddalonese, invece, il toponimo deriverebbe dal principe Matalo, capitano dei Galli Boi che seguirono Annibale nella sua discesa in Italia durante la seconda guerra punica: poiché lo stesso Annibale si curò poco di loro, essi, «avvezzi ad abitare appiè delle Alpi, trovarono alle falde del Tifata un sito conforme alle loro abitudini».
Decisero, quindi, di stabilirsi lì e di non seguire il condottiero punico a Capua: dal nome del principe, Matalo, gli abitanti di quella zona furono detti Mataluni. Altra ipotesi vorrebbe che il nome derivi, dal Medioevo, da “Mezza Luna”, descrivendo così la forma che è andata assumendo l’espansione del centro abitato rispetto alla collina che sorge dietro di esso. Una quarta ipotesi vede la città citata al tempo dei Romani con il nome di Meta Leonis, ovvero a forma di leone, sembra a causa di un masso di tale forma sito nei pressi”.

A dire il vero, ho sempre pensato che il mio cognome mi appartenesse senza dubbio per il mio sguardo “utopico” sulle vicende del mondo. Una composizione amena di origine iberica: “Mata Luna” come dire “Ammazza la Luna”, un “sognatore” come il “Don Chisciotte” di Cervantes. Oppure una derivazione poco affascinante da “Media Luna” (“Mezzaluna”) riferita alla presenza di quell’immagine nello stemma, emblema dell’islamismo.
Ecco, però, ritornando al mio “nomignolo”, fu proprio l’esigenza di variarlo, derivata dalla diffusione del cognome nell’area flegrea abbinato ad un nome, Giuseppe, altrettanto inflazionato essendo il secondo nome più diffuso in Italia, superato solo da Maria. Perché “variarlo”? Una delle mie passioni è stata quella del “teatro” e già da ragazzo ho calcato le scene con alcune compagnie locali e, dovendo distinguermi dagli omonimi, decidemmo di modificare “ad arte” il mio nome in Giosuè. Sulle locandine appariva così, accanto al personaggio, il nome dell’interprete, semplicemente “Giosuè”. I miei registi sono stati Nunzio Matarazzo ed Enzo Saturnino, con una puntata entusiasmante con Peppe La Mura con il quale abbiamo costruito un testo straordinario “Ccà puntey ll’arbe” (Spunta l’alba”) in dialetto puteolano, ispirato alla celeberrima “Cantata dei pastori”.
Fu in occasione di una delle proposte colte “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde al Teatro Lopez dove interpretavo la parte del reverendo Chasuble che venne a vedermi Marietta, mia moglie. Da allora – e non solo lei – mi chiamano Giosuè.

Joshua Madalon

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BUONA PASQUA…abbiamo bisogno di una Sinistra, vera!… seconda parte

“Mente e braccia vogliono riunirsi, manca il cuore….Tu, Mediatore, mostra la via dell’uno e dell’altro….”

BUONA PASQUA…abbiamo bisogno di una Sinistra, vera!…seconda parte

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O MEDIADOR ENTRE A MENTE E AS MÃOS DEVE SER O CORAÇÃO

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Rivedo la scena finale del film di Fritz Lang,“Metropolis” del 1927, nella quale Freder il giovane rampollo della buona società dei ricchi industriali attraverso una giovane donna, Maria, rappresentante della società del mondo sotterraneo dove vivono e lavorano gli operai, si pone come mediatore tra gli interessi del mondo della produzione industriale, impersonati dal padre di Freder, Johann, e quello del lavoro interpretato da un rappresentante degli operai che nella scena appena precedente si recano con il consueto ordine verso l’ingresso della cattedrale. Il gesto della stretta di mano su invito di Maria è il suggello finale del film, che contribuisce a portare pace ed armonia in quel mondo.

Per tantissimi motivi quel film mi è caro ma questo finale supera la distopia generale e si addentra in un mondo utopico ma non del tutto impossibile.

Quel Freder avrebbe potuto essere rappresentato da quel “rampollo” di buona famiglia che ha governato il Paese prima direttamente poi “indirettamente”; ma non è stato così: egli ha preferito allearsi esclusivamente con quella parte più forte, garantendo che nella ripresa essa si arricchisse a dismisura.
Il “Job’s Act” è una legge squilibrata a favore dei “furbi”. Ha lasciato ampi spazi ai profittatori, non ha risolto la piaga del “lavoro nero”, ha abbassato il potere contrattuale in modo generale. Tardivamente lo stesso Partito Democratico in corso di campagna elettorale ha cercato di rimediare in modo maldestro a questi aspetti, senza tuttavia fare ammenda dell’errore. L’idea che la ricchezza prodotta potesse essere redistribuita era davvero amena, conoscendo la tradizionale cupidigia della stragrande parte del mondo imprenditoriale sempre più lontano dalla Cultura, se non quella del Guadagno. D’altra parte la lieve marcia indietro ha contribuito all’insuccesso elettorale, in quanto non ha convinto nessuna delle parti in causa. Ha creato profondo allarmismo nei gruppi industriali, abbinato ormai ad un discredito diffuso corrispondente ai proclami demagogici ed autogiustificatori del gruppo dirigente del PD, che tendevano a valorizzare (Cicero pro domo sua) le grandi scelte ed il loro successo.
In modo davvero paradossale sembra che ad operare un’inversione di tendenza in quel settore fondamentale della vita possano essere “oggi” coloro che si vogliono accreditare come “onesti” e “puri” ma che difettano di esperienza (e non è certamente poco importante sapere distinguere la sincerità dalla furbizia senza una certa esperienza “politica”) e possono essere facili vittime di inganni e soprattutto schiavi del malgoverno già ampiamente diffuso. Noi abbiamo bisogno di gente umile e di gente abile ed esperta nella ricostruzione della Sinistra. Parlo di “ricostruzione” perchè la Sinistra – anche se, come ho rilevato all’avvio di questo post nella prima parte (31 marzo), essa esiste come necessità da tempo inespressa – va reinventata aggredendo le contraddizioni che l’hanno resa quasi invisibile da alcuni decenni a questa parte. Alcune idee del M5S sono assolutamente affini alla Sinistra ma non possono essere realizzate senza un profondo coinvolgimento della parte più sana della società, che abbia la capacità di sanzionare comportamenti illegali purtroppo diffusi in tutto il Paese e tollerati con una forma di lassismo dilagante (“Così fan tutti!”).

Ritornando al film di Fritz Lang del quale qui sotto allego la scena finale riporto la traduzione delle didascalie, che ho utilizzato all’inizio di questo post del 1° aprile 2018, Giorno di Pasqua, come “Augurio” per il nostro futuro.

“Mente e braccia vogliono riunirsi, manca il cuore….Tu, Mediatore, mostra la via dell’uno e dell’altro….”

…abbiamo bisogno di una Sinistra, vera!…fine seconda parte

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abbiamo bisogno di una Sinistra, vera! prima parte

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abbiamo bisogno di una Sinistra, vera!
Prima parte

Intanto, chiariamoci una volta per tutte (anche se non sarà l’ultima, credo!): se esiste una Destra possiamo presupporre che vi sia una Sinistra. Politologi e massmediologi nel corso degli ultimi decenni hanno propinato a larghe mani la sciocchezza che dietro al fallimento del comunismo reale (quello sovietico) tutta la Sinistra sia fallita. Complici interessati o utili idioti, inconsapevoli dei danni che avrebbero provocato, hanno dato fiato a questa teoria, rincorrendo il neoliberismo sfrenato accompagnato dalla globalizzazione economica. Anche una parte di coloro che prima del 1989 dicevano di appartenere alla Sinistra si adeguarono e cominciarono a costruire una profonda revisione del loro passato ideologico. Si dedicarono al sostegno delle pratiche economiche neoliberiste trovando sostegno nelle lobbies finanziarie internazionali che dettavano sempre più la loro legge anche nel nostro Paese. Indubbiamente la conseguenza di tutto questo divenne conferma della causa. Il mondo del lavoro subì, soprattutto ma non solo ai livelli bassi di operatività, una profonda trasformazione che costantemente e progressivamente tese a modificare a vantaggio del padronato le condizioni. Negli ultimi anni a sostegno di questi ultimi in Italia abbiamo avuto governi di Centrodestra e governi di Centrosinistra, che hanno contribuito in modo concorde a smantellare i diritti acquisiti dal movimento operaio nel corso degli anni Settanta del secolo scorso. Ma non solo nel mondo del Lavoro è importante segnare la differenza tra la Destra e la Sinistra: nella società contemporanea molto dipende dalla capacità di comunicazione. Troppe volte la Politica mente. Lo fa soprattutto per rendersi più credibile, solleticando i bisogni e le paure della gente. Tende a convincere che dalla loro parte è la difesa degli interessi comuni. Non può essere così! Se la Centrodestra è sostenuta dal punto di vista economico dalla società neocapitalistica, essa non può ergersi a difesa degli ultimi. Di converso in condizioni simili non lo può fare il Centrosinistra, soprattutto non il Partito Democratico a trazione renziana. Ritornando per un rapido esempio al mondo del Lavoro, il Job’s Act vede il sostegno convinto al 200% di Confindustria e la contrapposizione di larga parte del mondo operaio e lavorativo: una Legge “zoppa” che non è stata concordata con i veri protagonisti e li ha voluti subalterni.
Il mondo dell’Istruzione ha visto sempre più prevalere la burocrazia e l’aziendalizzazione della Conoscenza; è diventato sempre più lontano da una sua funzione umanistica e la tendenza si è spostata sempre più verso una “privatizzazione” anche nella scuola “pubblica”. La Sanità ha subito un decorso analogo, rendendo un pessimo servizio quello pubblico e conveniente per chi possiede mezzi propri quello privato. L’Ambiente è sottoposto all’incuria delle amministrazioni pubbliche e dei cittadini irrispettosi, interessati più al consumo mordi e fuggi che alla costruzione di un futuro ecologicamente corretto.
Non ci sono giustificazioni accettabili; non di certo il riferimento al trasferimento di risorse sempre più alto dallo Stato centrale alle periferie, accolto con scarsissime rimostranze da queste ultime, nell’accettazione supina di una “spending review” che ha finito per continuare a colpire i più deboli a vantaggio dei potenti.
Continuerò nelle prossime ore a riflettere sui motivi per cui abbiamo bisogno di una Sinistra, vera!

Joshua Madalon – prima parte —

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IL BAMBINO NON RESTITUISCE LA PALLA!

Il 23 maggio del 2016 pubblicavo un post dal titolo “LA FAVOLETTA DELA BAMBINO E DELLA PALLA” – ve ne ripropongo una piccola parte (in corsivo), quella sostanziale, dalla quale poi far discendere un commento attuale.

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LA FAVOLETTA DEL BAMBINO E DELLA PALLA

Qualche anno fa, era d’estate, mi trovavo sulla riviera della Versilia più o meno all’altezza della Versiliana a Marina di Pietrasanta; ero là per espletare le mie funzioni di Presidente di una Commissione di Esami di Stato, quelli detti “di Maturità” ed incontrai, tra le altre persone lì presenti, una signora fiorentina, della provincia di Firenze, e più precisamente di Rignano sull’Arno, che raccontò a me e ad un amico che era passato a trovarmi alcuni suoi ricordi degli anni in cui sua figlia era piccola e con lei si recava ai giardinetti della Parrocchia a passare i pomeriggi primaverili e della prima estate. In quegli anni (erano i primi anni Ottanta) erano molti i bambini che trascorrevano il loro tempo in quegli spazi ed alcuni di loro, soprattutto i maschietti ma anche qualche bambinetta come sua figlia, sceglievano di giocare con il pallone, scimmiottando i loro beniamini della “Viola” (erano gli anni di Antognoni, Graziani e Galli). Tra questi ve n’era uno, particolarmente aggressivo e volitivo, molto accentratore e pieno di sè, di quei bambini che a volte ti risultano odiosi “a pelle” (è grave dirlo, ma sfido chiunque a negare che dentro di noi non emerga in quelle situazioni un po’ di Erode). Arrivava con il suo pallone e pretendeva già all’età di cinque anni di scegliersi i compagni di squadra, di solito quelli più bravi (amava vincere, ovviamente, gli interessava ben poco trascorrere il suo tempo giusto per rimanere là in un posto così bello ed ameno a divertirsi come di solito fanno tutti i bambini e le bambine di questo mondo); ma non sempre gli andava bene: a volte accadeva che la “squadretta” da lui scelta non funzionava e gli toccava rischiare di perdere. E allora? ehhhh, e allora – diceva la simpatica signora – prendeva il pallone e scappava via!
Ora, come ho scritto sopra nel titolo, questa sembra una “favoletta” ma è la realtà. E non è una realtà molto lontana: d’altronde dagli anni Settanta ad oggi sono passati poco più che quaranta anni; quel bambino ne ha infatti più o meno tanti, di anni. Ed ama (o forse, amava) dire che “lui” no, non porterà via il “pallone” quando avesse perso qualche battaglia politica. E sì, perché è proprio di “lui” che si parlava!

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Si era in una lunga fase pre-referendaria e la battaglia campale non era ancora pervenuta alle ultime conseguenze, nefaste soprattutto per il leader ed il suo Governo. Ancora oggi Renzi si rammarica del fatto che il “suo” referendum sia stato sonoramente bocciato e va descrivendo delle “magnifiche sorti e progressive” che l’approvazione avrebbe potuto produrre. Ne approfitta perché gli italiani “forse” continuano ad essere un po’ labili di memoria. Il Segretario del PD, che era (?!?) poi lo stesso Renzi, davanti a quei risultati rinunciò alla Presidenza del Consiglio e si arroccò, anche allora al tramonto del 2016, nella sua turris eburnea del 40%, illudendosi che tutti quelli che avevano votato SI fossero suoi elettori. E qualcuno ci abboccò, cullando insieme a lui l’idea che potesse essere confermato alle Politiche del 2018 quel risultato delle Europee del 2014 così esaltante (40,8%) a fronte di un calo dei votanti, mai così pochi (57,22%).
Ora siamo di fronte ad una debacle, peraltro annunciata, conseguente ad un atteggiamento “cesaristico” che è stato sanzionato anche pubblicamente da uno dei suoi ex mentori. Il suo atteggiamento non è cambiato: la responsabilità non è sua e dei suoi fedeli sostenitori; se il “popolo” avesse ben compreso il valore del referendum oggi sarebbe “tutta un’altra storia”. Ed il bambino cresciuto fisicamente ma non del tutto mentalmente continua a portar via la palla e se ne sta a guardare.

Joshua Madalon

IL DOMINO LETTERARIO riparte da dove era cominciato

IL DOMINO LETTERARIO riparte da dove era cominciato

Nei prossimi giorni lo annunceremo ufficialmente – Il Domino letterario era partito il 27 marzo di tre anni fa con questo libro di Manuele Marigolli – riprenderà nella seconda metà del mese di aprile 2018 con Manuele Marigolli, autore del libro di racconti dedicati alla caccia, di cui Manuele è profondo cultore. Questo post è solo un annuncio. A breve uscirà un mio commento al libro.

Marigolli

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Libero “era cresciuto fra l’Arno e la strada, lì aveva imparato a valutare avversari e pericoli, ad adottare comportamenti e strategie conseguenti, pesare le forze in campo. Capire anche quando era il caso di voltarsi e andare, prima che l’andare fosse una fuga. Mantenere intatto il proprio prestigio, perché sarebbe stato utile una prossima volta….Non era e non diventò mai un competitivo, ma se era costretto a competere allora voleva essere quello che rimaneva in piedi. Vincere e giocar bene è privilegio di pochi, il destino dei campioni. Libero campione non lo era.”

“Fra l’Arno e la strada” di Manuele Marigolli è un romanzo nel vero senso del termine con una struttura moderna, dove la “memoria” viene di continuo interrotta da una sorta di “flusso di coscienza” che implica frequenti “flash-back”; è un “romanzo di formazione” che segue la crescita e la maturazione del protagonista, Libero, per l’appunto come descritto sopra dall’autore “uomo libero”; è un romanzo dall’andamento classicheggiante in molte delle sue parti dove si respira una poetica elegiaca nel recupero di raffinati spazi nascosti dalla quotidianità che tutto tende ad obnubilare e che attraverso sprazzi preziosi emergono grazie alla sorprendente capacità stilistica dell’autore, che sin dalle prime pagine si rivela accanto a riflessioni esistenziali eterne: “Vola. Vola con le ali del sogno oltre i monti e le colline. Vola sui boschi di querce e di castagni. Sale fino ai faggi e agli alberi dei crinali. Scende per valli e fiumi, e vola. Vola fino al primo ricordo che la sua mente sappia rievocare”. Ce n’est qu’un début….” direbbero i sessantottini. Ed è così, non è che l’inizio: siamo soltanto a pag.25 (la 15° del romanzo).

Nella prima parte del commento che ieri ho pubblicato parlavo di “una sorta di flusso di coscienza”; “una sorta”, perché non si tratta di sequenze di termini “apparentemente” alla rinfusa ma di blocchi interi di memoria in un insieme di ricordi appiattiti dal tempo, il quale viene segnato esclusivamente dagli eventi “storici” sia quelli che Libero non ha vissuto direttamente ma li ha conosciuti come se fossero suoi dalle narrazioni dei suoi nonni e degli zii, sia quelli che riguardano la Vita di Libero e che rappresentano la sua crescita civile. Nello scrivere “Fra l’Arno e la strada” Manuele Marigolli ha voluto- e questo identifica questo romanzo come “opera prima” di ottimo livello – fare i conti con la storia della sua gente, recuperandone sprazzi di esistenza quotidiana partendo dagli anni più crudi della barbarie fascista e dell’insensatezza della guerra portandosi fino ai giorni nostri. La scrittura di “Fra l’Arno e la strada” funziona per Manuele anche come antidoto nei confronti di un tema terribile che condiziona l’esistenza degli umani: la tanatofobia, la paura della morte; nel libro troviamo questa ricerca frequente di esorcizzare tale timore, sin dalle primissime pagine

“L’angoscia era originata dalla convinzione che solo la morte avrebbe cancellato lo stato di felicità. La coscienza dello stato di grazia ritrovato (n.d.r. l’amore per Teresa, la compagna di tutta una vita) sarebbe finito in “una fossa di nebbia appena fonda” gli risvegliò l’antico terrore. L’esaltazione dell’amore gli faceva credere che solo la morte avrebbe potuto impedire a quel sentimento di essere eterno. La certezza che di quell’emozione non sarebbe rimasto assolutamente nulla, persa in un lago di niente, risvegliò la paura che lo aveva accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza.”

E via via così fino alla fine del romanzo, attraverso la morte dei suoi cari anziani, i nonni prima e poi i genitori, “vissute come un fatto che andava nell’ordine naturale delle cose…elaborate triturando il dolore nel fondo del suo animo, non rispondendo con la rimozione ma con il ricordo”, sino alla morte considerata ingiusta “un non senso, un fatto contro natura, un fiume che torna indietro dal mare”, quella della cara Teresa, colpita da un male non curabile che la spense in meno di un mese.

Abbiamo scritto che nel romanzo “Fra l’Arno e la strada” Manuele Marigolli ha inteso fare i conti con tutta una serie di angosce esistenziali, a partire da quelle collegate ai misteri della “morte”. Il suo personaggio, alter ego “Libero”, riesce a superarle solo nelle pagine finali “Non ha più bisogno di inventarsi dei sotterfugi per ingannarla come faceva da bambino prima di addormentarsi, ora è la malattia che lo terrorizza”: ed è con quest’ultima che Libero ingaggia la sua ultima sfida. “La paura della morte che lo aveva terrorizzato adesso non gli appartiene più, anche se non l’ha superata di colpo ma lentamente, giorno per giorno.” Ed è la perdita della persona a lui più cara, un momento estremamente triste e doloroso, che gli permetterà di riconciliarsi, arrendevolmente, con il naturale flusso della Vita. In fondo “il terrore della morte si era sempre manifestato nei momenti più belli.” E le donne, le donne che lo accompagnano nella sua vita, sono figure straordinariamente positive, a partire dalla nonna Dina, della quale parleremo poi, fino alla sua compagna Teresa, alla giovane Irene ed alla figlia Eugenia. Irene appare sin dalle prime pagine come bellissima, sensuale e snella, elastica e morbida nell’incedere, sorridente: è la personificazione della giovinezza e della bellezza che un tempo hanno coinvolto Libero da giovane e che ora nei giorni della maturità inoltrata ritornano prepotentemente ed inaspettatamente a galla. Libero incontra Irene casualmente con la complicità dell’altra sua passione, la caccia ed i cani (ai quali Manuele dedica parte considerevole del suo romanzo) che lo hanno accompagnato nel corso della vita. E poi c’è stata Teresa, che alla fine non c’è più (“La malattia si manifestò cruenta, senza dare neppure il tempo di elaborarla, un male non curabile la aggredì e la spense in meno di un mese.”): l’amore di una vita, l’AMORE, scoperto nelle fumose “riunioni semi clandestine in cui sembrava che si stesse progettando la rivoluzione.” Era l’inverno del 1975. Teresa “aveva i capelli raccolti dentro un foulard rosso con fiorellini neri, legato dietro la nuca…Due ciocche di capelli neri e lucenti…occhi neri come la notte, sopracciglia lunghe, fronte alta, bocca ben disegnata e un sorriso che la illuminava…” E’ AMORE a prima vista, l’Amore di una vita. E poi c’è Eugenia, la loro figlia, con cui Libero ha un difficile rapporto collegato ad un episodio del quale egli porta dentro di sè il dolore di una profonda reciproca incomprensione (“Con lui non riesco a lasciarmi andare, c’è qualcosa che mi frena, che mi ha sempre impedito slanci emotivi.”); ma è lei che ha in mano il destino di Libero e dovrà impegnarsi a riportarlo di nuovo alla Vita.
Le donne di Libero, dunque! I personaggi femminili prevalgono (come, d’altronde, accade nella vita di noi tutti) per la loro profonda concretezza; avevamo accennato alla nonna Dina, una vera e propria femminista “ante litteram”: “Libero vedeva nella nonna il prototipo della donna emancipata. Lei non aveva avuto bisogno di costituire gruppi di coscienza al femminile, di partecipare a movimenti di nessun genere per affermare un bisogno e un diritto….aveva potuto contare su una volontà granitica….Senza mai prendersi troppo sul serio, con un gran senso dell’ironia…Non credeva in un aldilà…Ma credeva nella persona, nella compassione e nella solidarietà del vicino…nell’indivduo, nell’azione del singolo…Era una anarchica individualista…”.

E poi c’era anche l’altra nonna, Annita, da cui Libero apprende le tecniche della “narrazione”: “Quando Libero da bambino restava a dormire da Annita nella casa sul fosso, la nonna, che era una grande narratrice, gli raccontava del tempo passato”.

Ma “Fra l’Arno e la strada” è anche un libro che affida i suoi personaggi alla Storia del Novecento: dal tempo e dai contrasti fra laici e credenti, fra comunisti e democristiani negli anni della Guerra Fredda (“Dal primo luglio del 1949 la Chiesa aveva scomunicato chi era iscritto, chi votava, chi diffondeva la stampa e le idee comuniste…Il Partito allora indicò loro un sacerdote fiorentino. Si sposarono a Firenze…il matrimonio venne celebrato da un prete giovane, che credeva più nel Vangelo che nelle gerarchie….”) fino alle vicende legate alle varie piene dell’Arno ed all’alluvione del novembre 1966, cui Manuele Marigolli dedica un intero capitolo pieno di vicende ed aneddoti; per arrivare poi al Sessantotto ed alle grandi manifestazioni che vedono operai e studenti insieme nella lotta (“La nostra lotta è anche la vostra, vogliamo un mondo in cui i figli degli operai possano studiare, farsi una cultura per non essere più solo numeri buoni per la produzione e lo sfruttamento”).

Si accenna anche allo “strappo” dei compagni del “Manifesto” primo momento di sbandamento per Libero che non comprende i motivi per quella “estromissione” a loro comminata dal PCI e considerata di stampo stalinista. La Storia continua ad accompagnare Libero nella scoperta della passione politica che va di pari passo con la sua crescita civile, culturale ed umana (si snodano davanti ai nostri occhi momenti drammatici come il sequestro Moro, l’uccisione di Guido Rossa e di tante altre persone innocenti colpevoli solo di opporsi al terrorismo di quegli anni). E, al di sopra di tutto, rimane un’unica straordinaria passione che accompagnerà Libero nel romanzo di Marigolli dalla prima all’ultima pagina: la caccia con i suoi riti, le attese, le angosce collegate al profondo rispetto nei confronti della natura che gli viene inculcato dallo zio Mareno, che per la prima volta lo accompagnò a caccia di beccacce. La lettura di quelle pagine è di una profonda emotiva piacevolezza, soprattutto allorché Libero ritrovandosi fra le mani il corpo senza vita della prima beccaccia avvertì un profondo senso di colpa che stemperò l’entusiasmo dell’attesa (“Libero conobbe allora la contraddizione di amore e morte che alberga nel cuore di ogni beccacciaio, ne divenne prigioniero e quella malattia non lo avrebbe più lasciato per tutta la vita.”).

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Manuele Marigolli ha costruito, forse spinto da un suo personale impellente bisogno di ricostruire parti della sua Storia facendola accompagnare per mano lungo i sentieri del Novecento, un romanzo piacevolissimo colmo di riferimenti alla sana e ricca cultura popolare della sua gente, che gli consente di costruire personaggi che, di certo riferiti alla realtà, rimarranno indelebili nella memoria dei lettori.

UN POST per chiarire…

UN POST per chiarire…

…d’altronde rispondere su Facebook è molto più effimero di quanto non sia una risposta sul mio Blog.

Ho profondo rispetto per i travagli culturali e politici dei miei amici che si imbattono in una delle crisi più acute che io stesso, settantenne, non ricordo di averne vissute. E comprendo la difficoltà di interpretarla in modo interiore con il necessario distacco. Ed inoltre capisco la passione che sospinge ciascuno ad interpretazioni diverse ma sostanzialmente tutte sincere.
Quando accenno a documenti mi riferisco alle ragioni intorno alle quali ci si divide. Ed è necessario dunque fare il punto, doveroso financo. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 su un quotidiano locale (non ritrovo l’articolo) due membri del gruppo di San Paolo, tra gli ex PD, vengono reclutati (non del tutto involontariamente ma con una certa sorpresa personale) a sostegno di un Progetto che metta insieme la Sinistra anche se in modo difforme dalla loro volontà. Marzio Gruni e io apprendiamo che siamo della “partita”. Niente di male, ovviamente: l’interpretazione non era sgradita e nessuno, al di fuori, poteva sorprendersi, non riconoscendoci già da tempo nella linea del PD (Gabriele Bosi ebbe a dirmi: “Maddaluno, non condividi proprio più nulla del Partito?” “Sì, caro! Non l’avevi ancora capito?”), anche se a legger bene quell’articolo non si parlasse del tutto di Alternativa.
Si avviò però subito dopo un percorso chiamato “Alternativa 2019” (il nome non era stato scelto da noi, che in quella prima fase non partecipammo concretamente al progetto, ma “Alternativa” e “2019” un senso ce lo aveva, no?) che portò alla stesura di una “Carta d’intenti” curata in particolare da Fabio Bracci. I “sanpaolini” iniziarono a partecipare in modo costante il 9 febbraio all’Assemblea convocata proprio in via Cilea. In quell’occasione potemmo notare essendoci stata consegnata in serata che nel testo della Carta d’intenti composto da due fitte pagine mancava del tutto la parola “SINISTRA” e su proposta mia e di Manuele Marigolli proponemmo di aggiungere in apertura la seguente dizione (la parte in grassetto):

“Siamo persone nate o che hanno scelto di vivere e lavorare a Prato e nella sua provincia.”

“Siamo animati da una grande passione civile che ci spinge ad impegnarci nella nostra città per creare una forte alternativa politica di Sinistra”

La nostra proposta fu accolta all’unanimità. Qualcuno, a dire il vero, continuava ad argomentare che non fosse del tutto necessario aggiungere quella “parolina”, perchè era sottinteso che noi si fosse di Sinistra. Davvero curioso questo pensiero, per me soprattutto che affermavo e continuo a ribadire che la forma è sostanza, e nulla è scontato ed ovvio: certo scrivere “Sinistra” e fare poi azioni di Destra non garantirebbe nulla, ma meglio averla ben presente quella parola che indichi soprattutto a noi la direzione da prendere.
Non ricordo bene se ci fu una nuova Assemblea prima del 22 marzo, ma quest’ultima fu significativa. Era in discussione la scelta del nome da dare al “soggetto” politico. Fui ancora io a proporre “Prato A Sinistra” per lo stesso motivo di cui sopra. La proposta fu approvata a maggioranza qualificata, quasi all’unanimità, ma con una mail del 30 marzo Diego ci inviava il report dell’incontro con questa notazione:

“È bene specificare che il nome non rappresenta nient’altro che il riferimento del percorso e senza fare alcuno slancio in avanti, come è stato specificato anche ieri, non è necessariamente il nome di un’auspicabile (ma ancora prematura) lista della sinistra alle prossime elezioni comunali del 2019”.

A parte il fatto che in quell’occasione non si parlò di limiti e non ci fu alcun dibattito sulla “essenza” di quell’ “A Sinistra”, ritenni che fosse del tutto arbitraria e frutto di una volontà non espressa in sede assembleare quell’affermazione. D’altronde Diego già dal 24 febbraio (articolo de “Il Tirreno”) aveva lasciato Sinistra Italiana e aveva inteso partecipare legittimamente ad un nuovo progetto nazionale di conversione verso il PD da parte di Pisapia.

Era evidente che non sarebbe stata possibile una convergenza, anche se per alcune settimane e ben più di due mesi siamo andati avanti in scaramucce formali e davanti a noi strade divaricate.

Ben prima del fallimento della proposta “pisapiana” ci sono stati numerosi tentativi di convincere alcuni di noi di sostenere quel percorso, di certo tentativi legittimi nell’agone politico, ma certamente non si potrà negare che con la stessa legittimità, riconoscendo in essi una insistenza al di là di ogni immaginazione di fronte all’affermazione netta di autonomia dal Partito Democratico, ciascuno di noi ha interpretato quell’atteggiamento come accondiscendente e sottomesso negando di volervi aderire.

Personalmente ancora una volta ritengo che “conditio sine qua non” per il mio impegno politico sia l’essere svincolati nettamente dal PD nella ricerca di costituire un soggetto unico della Sinistra.

Il mio obiettivo è quello di lavorare per un Progetto di Governo cittadino ampio, articolato, coinvolgente, partecipato. Qual è l’obiettivo degli altri? Non basta dire che “non si vuole che il Centrodestra riprenda il Comune”; occorrono strategie che, nelle condizioni attuali, significa rinnovamento complessivo dei metodi e, purtroppo, delle persone che i vecchi metodi hanno utilizzato e non se ne riescono a liberare. Occorre NON pensare ad avere rappresentanti ma far viaggiare le idee (forse poi i rappresentanti arriveranno) in modo libero da vincoli di Potere già consolidati.

Joshua Madalon

DE PROFUNDIS (modesto sommesso intervento di scuse)

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DE PROFUNDIS (modesto sommesso intervento di scuse)

Sì, è vero, ho pubblicato un post sgradevole utilizzando un termine improprio e me ne rammarico. La colpa è anche di Facebook ( e quindi anche di Mark Zukerberg ) che ci fa utlizzare post sintetici con bei colori e ricami costringendoci a non spiegarci fino in fondo. L’epiteto (lo ripeto solo per marcarne la distanza: “Pidioti”) era essenzialmente riferito a quanti, tra i sostenitori di quella forza politica che ancora a volte si ricorda della parola che pure è contenuta nella sua struttura di (Centro)sinistra o forse Centro(sinistra) che è forse più vera come reale predilezione dei suoi adepti, nelle ultime settimane si dedicano a denunciare effetti naturalmente conseguenti agli esiti delle Politiche del 4 marzo. Che tra questi vi siano esponenti di primo piano non ha assunto per me alcuna sorpresa ma, in verità, sono qui per scusarmi con tutti per aver travalicato i limiti della decenza; lo faccio soprattutto per quelle migliaia e migliaia di sostenitori iscritti o elettori che siano che hanno ancora a cuore quel Partito. Alcuni hanno la mia stima altri no. A tutti le mie scuse moralmente distinte.

Joshua Madalon

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I CONTI NON TORNANO – un racconto morale

Si tratta di un meta-racconto che mette in evidenza come la Politica di quella parte che raccontava al mondo di essere Sinistra rincorreva già più di venti anni fa interessi particolari che poco coincidevano con quelli della “gente comune”.

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I CONTI NON TORNANO – un racconto morale

“Professore, al cambio d’ora passi in Presidenza” la bidella del piano aveva risposto al trillo imperioso del telefono interno nel corridoio ed anche gli allievi, che stavano concentrandosi nella prova di italiano in quella fine del trimestre, avevano sentito parte del breve dialogo che, subito dopo essersi interrotto, era stato riportato: la bidella aveva bussato con insolita circospezione ed aveva informato il professor De Marco. “No, avvertite la Preside che scenderò solo al termine della prova: non posso lasciare soli i ragazzi!”.
La bidella ritornò al telefono ma la risposta fu, a tutta evidenza, negativa.
“La Preside dice che manderà un sostituto a sorvegliare la regolarità della prova e le chiede di scendere subito dopo”.
Dal terzo piano Giorgio non appena arrivò a sostituirlo una giovane collega – ma tutto avvenne con insolita rapidità – scese giù verso la stanza della Presidenza, davanti alla quale già sostavano altri due colleghi, la professoressa Bencolti ed il professor Merletti, ai quali scoprì subito era stato detto di attenderlo prima di entrare…
Non era strano vederli insieme; erano tutti e tre politicamente impegnati nell’amministrazione comunale con vari e diversi incarichi istituzionali e più di una volta la Preside li aveva interpellati insieme, ma in quell’occasione la situazione che si prospettò rapidamente fu molto diversa: era il Provveditore agli Studi che li voleva con urgenza ed aveva autorizzato la Preside ad esentarli dalle lezioni e sostituirli per il resto della giornata.
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“Ci vediamo in Piazza San Francesco, davanti all’edicola”
Ognuno di loro aveva il pass per accedere al centro ed il contrassegno consentiva di trovare più facilmente un parcheggio: ciascuno poi pensava, vista l’ora e gli impegni di lavoro modulari, di poter tornare direttamente a casa…
Si ritrovarono nel luogo convenuto a pochi passi dalla sede del Provveditorato.
Vi salirono e si presentarono alla Segretaria che intanto li fece accomodare: “Il Provveditore è impegnato a telefono con il Ministero, gli ho appena passato la linea: quando la ritorna libera lo avverto”. E continuò a lavorare per proprio conto.
Era da poco passato il tocco e tutti avevano avvertito la propria famiglia già prima di uscire da scuola che non sapevano a che ora sarebbero tornati.
E s’era fatto un quarto alle due: il Provveditore aveva smesso la sua conversazione e la segretaria li aveva annunciati. Con un grande sorriso li salutò chiamandoli come di dovere in modo formale istituzionale e stringendo loro vigorosamente le mani.
“Accomodatevi”.
De Marco aggiunse una sedia alle altre due di fronte all’ampia scrivania ricolma di scartoffie e di ninnoli vari.
I volti in un momento di silenzio interrogavano il sorriso dell’uomo di fronte a loro, un sorriso soddisfatto ma per tutti amletico. Pochi secondi, neanche un minuto di silenzio interrotto poi da un proclama apparentemente senza appello.
Manzoni docet.
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“Mettiamolo ai voti!”
Giorgio aveva presentato alla Commissione Scuola del Partito un Documento chiaro e preciso nel quale si prendevano in esame le richieste di allievi, docenti e genitori dell’Istituto in cui insegnava da più di dieci anni e la cui sede rischiava di essere spostata dalla parte della città opposta a quella in cui si trovava per scelte che erano considerate inopportune sia dal punto di vista storico che da quello più utilitaristico, che appariva prioritario nelle motivazioni.
Lo chiamavano “dimensionamento” ed era stato collegato alla necessità di risparmiare oneri di affitto per strutture ad uso scolastico che appartenevano a privati, privilegiando al meglio quelle che erano di proprietà pubbliche.
L’Istituto di Giorgio, il “Dagomari”, era ad un passo dalla Stazione Centrale e dal capolinea dei trasporti automobilistici.
“Dai calcoli fatti da esperti la proposta avanzata dalla Provincia è fuori scala; il “Dagomari” non entra nella sede del “Gramsci” ed il “Copernico”, se non si ridimensiona, cioè non autoriduce il numero dei suoi studenti, non entra nella sede del “Dagomari”: insomma quella che si sta svolgendo è una vera e propria “partita di scacchi” sulla testa dei cittadini; non si può valutare una scuola solo sulla base dei numeri, e del numero degli allievi. In aggiunta, le proiezioni sulla decrescita della popolazione scolastica dei prossimi anni sono del tutto inventate e dunque aleatorie.”
Giorgio aveva così sintetizzato ai presenti della riunione il suo pensiero che più analiticamente aveva sviluppato nel Documento.

,,,continua…

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UN “mio” DOCUMENTO datato 8 aprile 2008

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Nel 2008 si lavorava per costruire il “rinnovamento” nei metodi e nelle azioni di governo ed amministrazione dei territori, ma già allora emergeva la “reazione” da parte di tutti coloro che non volevano, se non con le chiacchiere, cambiare. Troppo spesso la politica è stata sottoposta ad interessi personali e la gente era stanca di giustificarli; oggi nulla è cambiato: anzi la situazione è ben peggiore ed a poco vale scollinare la crisi economica per rivedere luci fioche in fondo ai tunnel.

Riscrivo queste riflessioni a poco meno di dieci anni da allora per rispondere ad alcuni interlocutori che su Facebook intervengono a sproposito ignorando passaggi fondamentali della nostra storia recente.

Che cos’è la Politica? e che cos’è la Democrazia? che cos’è il Partito che abbiamo voluto chiamare Democratico?
Volevamo, o no, nel costruire il PD, rinnovare anche le modalità di accesso alla Politica? parlavamo di un Partito aperto, di un Partito nuovo, diverso da quelli che ci volevamo lasciare alle spalle; parlavamo di un Partito che avrebbe dovuto vedere abbattuti gli steccati non solo ideologici, utilizzando tutto il buono dei grandi valori ed abbandonando gli schematismi inutili delle appartenenze a questa o quella combriccola, un Partito che avrebbe dovuto sentirsi ricco delle differenze e soprattutto che avrebbe dovuto sapere valorizzare anche le “critiche”. E’ accaduto invece tutto il peggio di quel che poteva accadere: avevamo messo in conto che le antiche leadership avrebbero opposto una resistenza ufficialmente sotto una forma di continua dilazione delle scelte e di una decisa pur se silenziosa sottovalutazione degli elementi positivi che si andavano costituendo verso il PD nuovo. L’avevamo messo in conto ma non avevamo messo in conto che la malattia endemica del potere avrebbe coinvolto anche alcuni di quelli che apparivano sinceramente partecipi del processo verso il nuovo. Avevamo messo in conto tutte le possibili difficoltà ma siamo stati presi in un ingranaggio frenetico che ha fatto il gioco del pre-potere e che sta portando il PD attuale verso una situazione che solo fra una settimana riusciremo in qualche modo a giudicare. Abbiamo utilizzato e sentito utilizzare slogan sul PD fatto per i giovani, dove i giovani vengono soltanto utilizzati per la manodopera e dove la maggior parte della “vecchia guardia” di fatto decide per tutti. Abbiamo assistito ad un tempo preelettorale nel quale le scelte venivano prese di fatto così e così certamente si intenderebbe continuare a fare. A Prato decide forse la Coordinatrice, ma forse decide l’onorevole Giacomelli o forse decide Manciulli o forse decide Franceschini forse Veltroni.
E’ questa la Democrazia? E’ questo il PD? E’ questo il PD che se vuole realizzare un’iniziativa a livello decentrato la deve in ogni sua parte concordare con il Centro?
Bene. Sono fieramente all’opposizione di una simile procedura: questo non solo non è il PD che volevamo; non è nemmeno un Partito “democratico”. Con questo Partito non rinnoveremo un bel niente: ed infatti non servirà nè ridurre il numero nè i vantaggi dei Parlamentari. Non è questo quel che speravamo. Noi pensiamo ad un Partito che sappia indicare alle giovani generazioni una via diversa rispetto alla Politica che non sia più vista come una carriera ma come un vero e proprio servizio civile al quale ci si presta per brevi tratti della propria esistenza. Troppi sono davanti ai nostri occhi gli elementi negativi che caratterizzano la Politica degli affari, dei compromessi e delle clientele; è impossibile perpetuare questo stato di cose che può essere sopportato soltanto provvisoriamente con gesti umanitari nei confronti degli attuali fruitori di queste beneficenze. In tal senso tuttavia – se c’è qualcuno che ha segnali diversi li comunichi con urgenza! – non c’è alcun segnale. E dunque come pensate che si possa gioire di questo PD?
Confermo anche a quegli amici che hanno ritenuto concluso il lavoro del Comitato per il PD (quello detto Prato Democratica) che tale impegno proseguirà perchè non siamo soddisfatti di questo Partito; lo vogliamo come pensavamo e come non è: lo vogliamo diverso da DS e Margherita ed invece è ancora troppo collegato agli aspetti peggiori di quei due Partiti.

Ora pensiamo al voto; ma non dimentichiamoci che, subito dopo, come vada vada, dobbiamo lavorare di più alla forma Partito e dobbiamo “davvero” costruire il PD che vogliamo.

A presto. Giuseppe Maddaluno

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