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…e la Sinistra?

Quando dispenso giudizi sulla Sinistra, in quell’ambito non riesco a ritrovare il Partito Democratico, che pure dovrebbe rappresentarne una parte non indifferente, essendo riconosciuto mediaticamente come tale, come una rappresentanza (parziale) del mondo della Sinistra. A dire il vero, on si può certo dire che coloro che hanno prodotto i principali documenti istitutivi (Statuto e Carta dei valori) siano degli ipocriti: provate a spulciare quelle carte (le trovate sul web) e scoprirete che non troverete da nessuna parte la parola “Sinistra”, quella che pure accompagnava la dizione “Democratici” fino al 2007. Su Wikipedia troverete che “Il Partito Democratico (PD)è un partito politicoitaliano di centro-sinistra (ecco solo qui la trovate in minuscolo come se si trattasse di cosa marinale residuale, fondato il 14 ottobre 2007″ ma è ovviamente un’opinione non ufficiale.

Ma uno dei più gravi problemi che caratterizza la “Sinistra”, quella che in modo diverso presume di essere – forse non solo, ma in prevalenza, quella italiana – è la profonda inveterata incancrenita ormai da anni, ormai quasi un’abitudine abitudine reiterata orgogliosamente, volontà di contarsi, di sentirsi scorrere nelle vene sangue puro di rivoluzionari. Ma la loro rivoluzione si ferma di fronte alle mura possenti dei fortilizi che si sono costruiti, che non consentono una benché minima apertura al dialogo, al confronto dialettico che è alla base della convivenza socio-politica civile.

Non ci si può accontentare di sentirsi appagati per la propria dimostrazione di coerenza, soprattutto poi quando in modo straordinario ma purtroppo provvisorio ed insufficiente ci si va chiedendo “come mai la Sinistra stenti ad essere rappresentata negli organismi politici a tutti i livelli”.

La domanda è non solo legittima, ma è necessaria per avviare una riflessione più profonda che coinvolga anche tante di quelle persone che sono fuori da quei fortilizi e si sentono defraudati nelle loro idee che, a volte – o tante volte – possono essere connotate da una forma di azione pratica (il pragmatismo della casalinga di Voghera) che lascia trasparire insofferenza verso la sicumera ideologica dottrinale di chi si ritiene possessore di verità assolute ma impraticabili se non a costo di una certa disponibilità revisionistica.

Non si può dunque dare risposte semplici domande complesse. Ma se la Sinistra, quella rinchiusa nelle proprie mura vuole crescere deve aprirsi al confronto, partendo certamente dai “fondamentali” ma allo stesso tempo preparandosi a proporre non solo denunce dei “mali” che attanagliano la società civile ma anche soluzioni e poi occorre lavorare di più sui territori emarginati e sui bisogni che vengono espressi e non captati adeguatamente. Questo ha generato, anche per colpa di agenti esterni come la pandemia, una grande solitudine.

Continueremo a parlarne…..

Intanto, ciao Massimo! Sono così svuotato dentro da stamattina, quando uno dei miei più cari amici mi ha comunicato che eri mancato!

…e chi la farebbe, questa “rivoluzione culturale”?!

Occorrono anni di preparazione, di “lunghe marce”, per poter compiere una “rivoluzione culturale” che possa davvero creare le condizioni per un cambiamento. Pur nelle enormi difficoltà (e forse anche per queste) le nuove generazioni, ivi compresa la mia, sono troppo spesso rassegnati a subire le scelte dei propri amministratori, dei governanti senza scrupoli travestiti da difensori della onestà ma pronti a cambiare strada ad ogni piè sospinto, pur di ottenerne vantaggi per se stessi e per i suoi. I dati di cui disponiamo quotidianamente ci svelano una società ormai in declino, nella quale i “valori” sono semplicemente bandiere sventolanti senza reali contenuti, giusto per potersi illudere di rivivere vecchie stagioni gloriose.

E mi vengono in mente gli ultimi versi de “Le belle bandiere” di Pier Paolo Pasolini

…..“E, su tutto, lo sventolio, l’umile, pigro sventolio delle bandiere rosse: Dio! , belle bandiere degli Anni Quaranta! A sventolare una sull’altra, in una folla di tela povera, rosseggiante, di un rosso vero, che traspariva con la fulgida miseria delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie- e col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva, ardente rosso affastellato e tremante, nella tenerezza eroica d’un immortale stagione!”

Ma questo è davvero uno degli aspetti rivelatori della stagnazione culturale che sta travagliando il mondo della Sinistra, quella parte onesta di essa che vive ancora di sane illusioni. Essi meritano rispetto come si confà nei rapporti civili familiari e amicali. Ma bisogna che qualcuno li risvegli da quella sorta di torpore catatonico cui si sono ormai assuefatti, continuando a credere che basti scendere nelle piazze a contarsi.

Serve, certamente, ma occorre accompagnare queste manifestazioni con richieste perentorie rivolte a coloro che sono stati designati democraticamente a sostenere i reali bisogni “comuni”, affinché si pongano all’ascolto e si propongano di affrontare le problematiche più urgenti, che si appoggiano sui valori fondamentali ma si palesano come concretezze sempre più difficili, perché troppo spesso appesantite da interessi “complessi” cui non ci si riesce a sottrarre. Ne è un esempio tutta la vicenda della cosiddetta “Multiutility” di cui si è discusso a Prato. Il Partito Democratico in questa città sembra essersi asservito ad interessi che poco hanno a che fare con quelli della cittadinanza che – con una maggioranza politica di un Centrosinistra appannato – amministra.

Intanto, dopo le Primarie (abbiamo avviato una riflessione partendo da queste), e passata la festa ora si ritorna alle vecchie pratiche……

Ne riparleremo. Ringrazio (Paolo) che mi ha inviato le sue riflessioni….

A presto

Dedicato ai giovani di oggi ANNIVERSARI 236 ANNI FA – 30 NOVEMBRE 1786

ANNIVERSARI 236 ANNI FA – 30 NOVEMBRE 1786

FESTA DELLA TOSCANA in ricordo di un evento del 30 novembre 1786 – 236 anni fa

236 anni fa il 30 novembre del 1786 il Granduca Pietro Leopoldo abolì la pena di morte nel Granducato di Toscana. Dal 2000 la Regione Toscana in questo giorno lo vuole ricordare assumendosi il compito di paladina della libertà e del rispetto dei diritti civili, opponendosi all’applicazione della pena capitale ancora vigente in alcuni paesi. Le Circoscrizioni di Prato in quella prima occasione assunsero un ruolo di primo piano organizzando riflessioni approfondite su quel tema attraverso momenti culturali quali il convegno che si svolse presso il centro per l’Arte contemporanea “Luigi Pecci”. Nel 2003 furono poi pubblicati gli atti con il titolo PACE E DIRITTI UMANI.
Qui di seguito riporto uno dei contributi “esterni” (l’autrice non era presente ma fu menzionata proprio in quanto un mese e mezzo prima aveva inviato una lettera a “Repubblica” nella quale discuteva del caso di Derek Rocco Barnabei, giustiziato dopo che sulla sua colpevolezza erano emersi seri dubbi), quello della Presidente del Parlamento Europeo di quel tempo, Nicole Fontaine, riportato nel libretto sopra menzionato.

Joshua Madalon

Nicole Fontaine, Lettera aperta agli americani

Nella sua stragrande maggioranza, senza distinzioni di nazionalità o di sensibilità politica, il Parlamento europeo, che è la voce democratica di 370 milioni di europei che costituiscono attualmente l’Unione europea, non comprende il fatto che gli Stati Uniti siano oggi l’unico, tra le grandi democrazie del mondo, a non aver rinunciato a comminare e applicare la pena di morte.

Ogni volta che un’esecuzione capitale è programmata in uno degli Stati del vostro paese, l’emozione e la riprovazione che essa suscita assumono, ormai, una dimensione mondiale. Tutti gli interventi a favore della clemenza, fatti dalle più alte autorità religiose o politiche presso i governatori da cui dipende la decisione finale, ricevono soltanto un netto rifiuto.

Il caso di Derek Rocco Barnabei ha suscitato un’emozione particolarmente grande in Europa, sia perché, ancora una volta, sussistono dubbi sulla sua reale colpevolezza, sia perché, oltre alla sua nazionalità americana, egli è anche originario di uno Stato membro dell’Unione europea, l’Italia.

Le iniziative diplomatiche, che invano in tanti abbiamo intrapreso presso il governatore della Virginia su richiesta dei parenti del condannato e delle associazioni che sostengono la sua causa, non hanno avuto alcun seguito. Mi permetto, allora, di dirigervi questa lettera aperta, non nello spirito di dare delle lezioni, ma in quello del dialogo leale che si addice all’amicizia che unisce i nostri grandi insiemi continentali.
Da questa parte dell’Atlantico, si riconosce che il vostro grande paese simbolizza ampiamente, in tutto il mondo, la libertà e la democrazia. Nessuno ha dimenticato ciò che l’Europa gli deve per averla aiutata a ritrovare la libertà al prezzo del sangue dei suoi figli negli ultimi due conflitti mondiali.

Nessuno contesta che la pena di morte sia stata riconosciuta dalla Corte Suprema conforme alla Costituzione degli Stati Uniti. Nessuno contesta che, in seguito a una condanna capitale, lunghi anni di procedure offrono ai condannati la possibilità di una revisione del loro processo. Nessuno contesta il diritto di una società organizzata a difendersi dai criminali che minacciano la sicurezza delle persone e dei beni, né quello di punirli nella misura dei loro delitti.

L’Europa non dimentica che, fino a poco tempo fa, essa stessa ha usato la pena di morte, e spesso con crudeltà. Alcuni Stati l’avevano abolita da tempo, nel loro diritto penale e nella pratica, ma meno di vent’anni fa alcune grandi nazioni europee, profondamente legate ai diritti dell’uomo e ai valori universali, tra cui il mio paese, la Francia, non vi avevano ancora rinunciato e quando i loro parlamenti hanno affrontato la sua abolizione, i dibattiti politici sono stati veementi quanto lo sono oggi negli Stati Uniti. Oggi, ogni polemica è spenta.

Si è però sviluppata in tutta l’Europa una presa di coscienza collettiva che ha travolto le esitazioni ancora esistenti. Questa presa di coscienza, alla quale mi permetto oggi di invitare il popolo americano, è fondata sui seguenti elementi: nessuno studio obiettivo ha mai dimostrato che la pena di morte abbia un effetto dissuasivo sulla grande criminalità e in nessuno dei paesi europei che l’hanno recentemente abolita si è avuto un aumento della grande criminalità; le società contemporanee hanno dei mezzi sufficienti per difendersi da essa senza spezzare il sacro principio della vita umana; la punizione per mezzo della pena di morte non è che la sopravvivenza arcaica della vecchia legge del taglione: poiché hai ucciso, anche tu morirai; il macabro copione delle esecuzioni capitali ha ben poco di degno ed è piuttosto il rito sacrificale di un omicidio legale; quando una società di diritto perfettamente stabilizzata e che dispone di altri mezzi per difendersi ricorre alla pena di morte, essa indebolisce il carattere sacro di ogni vita umana e l’autorità morale che essa può avere per difenderla dovunque essa sia offesa nel mondo; infine, troppi condannati a cui si toglie la vita sono stati poi riconosciuti innocenti e in quel caso è la società, anche in nome del diritto che si è data, ad aver commesso un crimine irreparabile.

In tutta la storia della giustizia della nostra società moderna, un solo innocente da noi messo a morte per errore, una morte che non comporta alcuna necessità, sarebbe sufficiente per condannare radicalmente il principio stesso di questa pena capitale. Ora, sappiamo tutti che il caso è proprio questo, in particolare negli Stati Uniti.

So che la maggioranza della popolazione del vostro paese rimane favorevole al mantenimento della pena di morte e che, in democrazia, il popolo è sovrano, ma tutto ciò può bastare a chi ha la responsabilità di guidare il proprio paese in modo saggio o moderno? Quando il presidente Lincoln abolì la schiavitù, aveva forse il sostegno della maggioranza degli Stati del Sud? Quando il presidente Roosevelt impegnò gli Stati Uniti al fianco degli europei per ristabilire la pace e la libertà nel mondo devastato dal nazismo o dai suoi alleati, ebbe egli immediatamente il sostegno maggioritario degli americani? Quando il presidente Kennedy impose la fine della segregazione razziale che perdurava in alcuni Stati, egli ebbe il coraggio, senza dubbio a costo della sua stessa vita, di andare controcorrente rispetto ai tanti che intendevano mantenerla, anche con la violenza. E’ possibile che gli uomini politici di oggi, per opportunismo o per motivi elettorali, non siano che una pallida ombra di quei grandi visionari che hanno fatto l’unione e la grandezza della nazione americana?

Breviario minimo: sul RdC

Ho da sempre criticato l’empito utopico dei sostenitori del M5S, che li avrebbe sospinti a fare i conti con il pragmatismo della Politica concreta, quella basata essenzialmente sulla reale consistenza degli apparati pubblici, mal funzionanti ed incapaci di poter dare seguito a progetti basati sui “sogni” di un gruppo di volenterosi giovanotti. Non bastano le idee positive; occorrono apparati che le facciano funzionare: ed è così che il “reddito di cittadinanza”, pur essendo una proposta che avrebbe potuto essere funzionale a quell’abbattimento della povertà che i promotori sbandierarono come realizzata semplicemente perché dal punto di vista legislativo erano state approvate le linee procedurali, fu affidato a strutture che già da tempo avevano mostrato di non essere in grado di attivare i necessari percorsi creativi di opportunità lavorative.

Allo stesso tempo scarsissime erano le possibilità, anche collegate alla fretta con cui si voleva concretizzare il progetto, di attivare controlli minimamente efficaci intorno alla congruità delle richieste: anche per questo motivo molte sono state le irregolarità riscontrate nel corso dei mesi. L’apparato dello Stato ha mostrato i suoi limiti e queste vicende hanno sospinto i critici “potenti” a prendere in considerazione l’abolizione tout court del RdC. Come se, di fronte ad irregolarità nella corresponsione di pensioni di invalidità (abbiamo ben presenti falsi ciechi e invalidi in genere), si decidesse di abolirle per tutti. Ben diversa sarebbe la presa di coscienza dei limiti evidenziati e l’impegno a mettere in funzione la macchina amministrativa per agganciare domanda e offerta. Attualmente c’è un dibattito politico molto acceso, con le Destre – che peraltro ritengono erroneamente di avere la maggioranza nel Paese – che vorrebbero eliminare il RdC, mantenendo una certa attenzione per coloro che non possono lavorare e sospingendo tutti gli altri, senza un vero e proprio controllo sulla congruità con cui il Reddito è stato percepito, ad accettare la prima proposta “congrua” di lavoro, pena la perdita di quel diritto. “Congrua” è una forma ambigua generica che non esplicita in alcun modo a quale compenso quantitativo si riferisca; inoltre bisognerebbe comprendere pienamente quali siano state le ragioni di una parte di coloro che interpellati da datori di lavoro hanno rifiutato la proposta, accontentandosi di avere circa 500 euro al mese. Viene il dubbio (a me ma mi chiedo come mai questo dubbio non venga ai detrattori del RdC) che la proposta di compenso in senso quantitativo fosse (forse) di poco superiore a quella cifra e comunque collegata a turni di lavoro massacranti come quelli della ristorazione (dove peraltro ci sono contratti fasulli che, a fronte di pochissime ore dichiarate, richiedono un impegno molto più intenso). Allo stesso tempo mi sono da sempre chiesto come fanno coloro che per lavorare accettano proposte in territori molto lontani da quelli in cui vivono e percepiscono salari o stipendi incongrui per la sopravvivenza minima: e quell’ “incongrui” è riferito ad affitti onerosi e costo della vita esorbitanti difficilmente compatibili con la minima dignità.

quel che mi manca…

GIORNI

Giorni uggiosi schizofrenici tra bassi e alti, alti e bassi, con lenti sonnacchiosi risvegli e serate che decollano troppo tardi, costringendoti ad addormentarti ad ora tarda dopo aver avuto colpi di sonno. Un giorno senti di essere molto più giovane di quanto sei ed addirittura senti dentro il desiderio di ritornare al lavoro che hai condotto per tanti anni; un altro subito dopo, un altro giorno, cammini lento portandoti dietro molto più peso di quanto dovresti. Capita per l’ appunto in modalità schizzata proprio in quel giorno in cui sei ritornato a scuola per una festa di commemorazione per un giovane ex allievo di tanti anni fa, che se ne è andato via, così all’improvviso: quello proprio il giorno giusto, no, per sentire dentro di te la vitalità! Roba da psicanalisti anche di quelli alle prime armi o di un counselor che come la mosca cocchiera si possa credere alla stessa altezza dei migliori professionisti. Certamente contribuisce a farti sentire vivo la tragedia di una vita stroncata anzitempo, anche se Menandro suggerirebbe che quella tragica fine sia cara agli dei. Ancor più la giornata mite tranquilla pur di un autunno maturo e l’incontro con docenti che non vedevi da tempo e che nella distanza “forse” hanno imparato ad apprezzare meglio quel che valevi e ti sorridono, mentre alcuni anni prima non erano così cordiali e felici di incontrarti. Ed ancor più la presenza di allievi di quelli ancora più giovani che, casualmente, incroci nei corridoi ti riconduce il desiderio di riprendere un rapporto più sereno e maturo.

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Il giorno dopo ti svegli più presto del solito. A fine novembre è ancora buio. Devo lavorare in casa prima di uscire. Devo farlo entro le 8.00 perchè per le 9.00 devo essere a scuola; non quella del giorno prima. Esco di casa dopo una mezza dozzina di caffè perchè non sono riuscito ancora a scrollarmi di dosso la sonnolenza. Per fortuna non piove. Fa freddo, sì, ma non piove e questo mi dà garanzie che non correrò il rischio di impallarmi nel traffico, come in altre occasioni. La città è come me sonnacchiosa. Esco presto anche perché parcheggio in un posto lontano dal luogo dove devo recarmi. Mi dà la possibilità di camminare, che per un settantenne è necessario terapeuticamente. Mi fermo in un parcheggio libero dove non c’è quasi nessun’ altra auto. Mi fermo e
prima di uscire nascondo alla vista qualsiasi oggetto che pur immeritatamente possa indurre in tentazione qualche ladruncolo di passaggio. E poi con una lentezza biblica come se dovessi attraversare un deserto mi avvio lungo la pista pedonale del Bisenzio andando verso il centro. Cammino, mi fermo ed osservo tutti i soggetti che la Natura propone. C’è un sole tiepido rinfrescato dal venticello della valle ma è straordinariamente piacevole prendersela comoda, ed avvertire la forza morale dell’età che si contrappone alla sensazione di un inevitabile lento declino.

Joshua Madalon

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riprendo a trattare temi poco più che personali….

14 MARZO – ELOGIO DELL’IPOCONDRIA – INTRODUZIONE

riprendo dal 22 MAGGIO 2022 dopo una sosta molto lunga (il precedente post era del 14 marzo)

Da alcune settimane per motivi abbastanza seri ho dovuto tralasciare questo impegno di presenza documentaria. Da oggi riprendo a lavorare. Tante, forse davvero troppe, sono le argomentazioni che vorrei trattare, ma soprattutto vi parlerò della mia esperienza “sanitaria” senza rinunciare a far emergere gli aspetti negativi, molto spesso triti e ritriti e controproducenti (tenendo conto che la responsabilità dei limiti del nostro sistema sanitario non può essere addossata a figure distinguibili in modo oggettivo), così come porrò in luce i tanti aspetti positivi che non sono mai mancati (faccio presente che – pur essendo un “emerito” rompiscatole” – ho una visione bonaria ed ottimistica della nostra società).’

E’ la data del mio ultimo post pubblicato prima di questa “ripresa”. Vado a controllare e già in quel periodo da un paio di settimane ero “impegnato” nella contesa tra un malanno non ancora del tutto identificato, ma le cui caratteristiche lasciavano ben pochi dubbi, e le innumerevoli insidie del sistema sanitario, anche in un territorio come quello toscano che viene esaltato – a giuste ragioni, visto il degrado generale molto diffuso – da tanti altri.

Voglio qui spezzare una lancia (è un modo di dire) a favore degli ipocondriaci. Periodicamente, ma molto molto raramente, mi sono sentito affibbiare la caratteristica di “ipocondriaco” anche in famiglia, ma si trattava di episodi più che altro collegati ai “cambiamenti di stagione” che hanno fatto di me un chiaro esempio di “meteoropatico”.

Ovviamente non posso non pensare a quello straordinario “incipit” di “Tre uomini in barca….” (1889) di J.K.Jerome che ha fatto grande scuola in tantissimi come noi, lettori seriali sin dalla nostra tenera età. E’ una sintesi dell’ipocondria, utilissima con annessa “morale” finale sotto forma di ricetta utile per tutto il resto della vita, fino a che, però……

E poi ne abbiamo conosciuto altri di ipocondriaci, reali, come quella “signora” che quotidianamente accedeva allo studio medico della dottoressa di famiglia e ne occupava lo studio, ponendo tutti i suoi dubbi, mentre altre persone che forse ne avrebbero avuto vero bisogno erano costrette ad attendere tempi “biblici” nella sala d’attesa. E poi alcuni personaggi pubblici, chiaramente e pateticamente, naturalmente ipocondriaci, come Carlo Verdone o Woody Allen, che hanno giocato molto su questa loro “patologia” rendendola funzionale allo stile artistico. Un discorso a parte merita Nanni Moretti. Forse molto più collegabile alla esperienza “personale” di cui tratto.

Malgrado, procedendo nella ricostruzione di quel che mi stava accadendo, ben poche erano le speranze di esiti benevoli, ma imperterrito continuavo a pubblicare su questo Blog, in quella forma molto personalistica che mi caratterizza, documenti che si riferivano a iniziative da me promosse, misti a riflessioni contemporanee e progettazioni future.

Per la cronaca, affinché sia di aiuto anche per tanti altri, erano già alcuni mesi che in modo particolare ero di tanto in tanto interessato a colpi di tosse, stizzosa, nevrotica; ma ciò accadeva quasi sempre mentre mi trovavo a dibattere con qualcun altro sulle possibili prospettive organizzative da mettere in atto sul nostro territorio nella fase post pandemica, cercando di lenire le difficoltà sempre più crescenti di quella parte di popolazione che aveva dovuto inevitabilmente soffrire maggiormente la crisi.

Comunque la data da cui la crono-storia potrebbe partire può essere quella del 22 gennaio 2022. Ho avuto – come dicevo – dall’inizio del nuovo anno sempre più frequenti, crisi, soprattutto notturne, di tosse e difficoltà respiratorie. Decido di andare a fare un controllo con un RX torace; ovviamente, per poter accelerare gli esiti, mi dirigo verso uno studio privato. La risposta è immediata, l’interpretazione è evidente, anche se rimanda a controlli più approfonditi da espletare: c’è più di qualcosa che proprio non va bene. “Si documenta estesa area di consolidazione parenchimale” nel lobo polmonare superiore destro: vuol dire che una parte del polmone è occupato da materia estranea, cioè qualcosa che preme, soffoca, costringe a respirare sempre più con grande difficoltà.

Avevo potuto notare un certo imbarazzo nel tecnico di laboratorio che, dando uno sguardo alla radiografia, mi aveva immediatamente chiesto quali sintomi avessi. In quel periodo c’era quella tosse nervosa, che era apparsa per lo più come afferente a una patologia di tipo gastro intestinale, e solo qualche lieve inizio di affaticamento. Da ipocondriaco colto, prima di uscire dallo studio medico ho dato una rapida occhiata su Google, digitando “area di consolidazione parenchimale”; poco di buono mi diceva (ma lo si sa, ed è un monito per tutti coloro che leggono: non vi fidate troppo di Internet; potrebbe sortire in voi l’”effetto Jerome Klapka Jerome di cui parlavo nel blocco introduttivo); poi ho inviato la scannerizzazione alla dottoressa di famiglia cui per prassi viene spedito il referto. E’ una giovane preparata e che, nelle sporadiche occasioni in cui ne ho avuto bisogno è stata sempre molto attenta scrupolosa e sollecita. Anche in questa occasione lo sarà. Il giorno dopo di prima mattina, nove e trenta precise come da lei indicato, sono in ambulatorio. Legge nuovamente il referto, guarda il dischetto e suggerisce di procedere immediatamente con altra indagine più profonda, una TAC con mezzo di contrasto. La prenoto rapidamente e contemporaneamente mi attivo con altri contatti più attinenti alla materia. La prima persona che sento è un mio carissimo amico, medico pneumologo, che mi riceve nel suo studio privato e mi dice che può essere qualsiasi cosa e occorre essere preparati anche al peggio. Mi rendo conto che il peggio sia un cancro e dico a me stesso e anche a voce alta, che, sì, d’altra parte in una vita, se non si muore di colpo, può toccare anche questa esperienza da “vivere”. Quante volte ho immaginato di non attraversare la “notte”; che potesse accadere quel che è avvenuto per tante altre persone, senza sintomi evidenti, senza sofferenza alcuna. E, poi, dall’altra parte ci sono tante valide esperienze di lotta ingaggiata, perduta o vinta non importa: quel che conta è non arrendersi a ciò che potrebbe apparire come ineluttabile.

La TAC del 31 gennaio conferma quel che non va, mettendone in evidenza ulteriori dettagli. Alla dottoressa evidenzio la mia scelta per il “Careggi” nel proseguire indagini e procedere più rapidamente possibile agli interventi necessari. Ho provveduto già a fissare per l’8 febbraio una visita “intra moenia”, così si identificano i rapporti privati con i medici di un ospedale. Ho scelto una figura intermedia, non il Primario né tanto meno un giovane: il dott…….. dal curriculum che vado a scorrere appare maturo e competente. In realtà avrei potuto rivolgermi subito all’ospedale di Prato, ma per alcuni motivi, che attengono ad esperienze personali e non hanno creato in me quel senso di fiducia necessario che deve esistere nel rapporto paziente-personale medico, non l’ho fatto. A conti fatti, potrei oggi dire – anche se è ancora troppo presto per poterlo fare del tutto – che ne sono pentito. Vedremo, infatti: vedremo. Ad ogni modo, vado al “Careggi”.

1 – segue 2 con una digressione sul significato del titolo


Di norma, l’ipocondriaco è uno strano individuo, spesso auto isolato nelle sue preoccupazioni di tipo sanitario. E’ un soggetto da racconto o da film e, come sanno bene i miei amici, inducono ad un certo sorrisino beffardo, solo di rado consolatorio. Ovviamente, si parla sempre di quegli…altri che esagerano, non di se stessi nel caso in cui si facesse parte integrante di…quella famiglia. Pur tuttavia, al netto delle esagerazioni, in questo percorso inatteso nel quale mi sono ritrovato, ho fatto qualche riflessione per l’appunto “personale”. E se invece di, sottilmente, deridere fossi stato più attento ad ascoltare i ritmi non più correttamente funzionali della mia salute, non sarebbe stato meglio? Domanda oziosa, ovviamente, fatta “a posteriori”. Ma, a dire il vero, non mi sono mai considerato un ipocondriaco: o, meglio, ho sempre dato un calcio ai pensieri che mi angosciavano e mi sono posto al servizio della società, della politica, del lavoro.

La “digressione” è finita: è stata anche fin troppo lunga.

Vado al “Careggi”, dunque. Una visita accurata, professionalmente e umanamente. Già nella sala d’attesa, ho intercettato una testimonianza positiva da un dialogo telefonico: un signore raccontava come dopo l’operazione al polmone alla quale era stato sottoposto avesse man mano ripreso la normale attività fisica. Accennava a lunghe passeggiate nel verde: e ciò non poteva che rincuorarmi. Ancor più poi in quanto è entrato prima di me nell’ambulatorio dove sapevo perfettamente avrei trovato il dottore che avevo scelto. E non c’è stato a lungo. Era solo per un breve controllo. E infatti dopo poco sono entrato io e, come dicevo, il dottore che ha voluto subito vedere le risultanze della TAC, ha proceduto a tutte le verifiche “dirette” con la misurazione dell’ossigeno, l’auscultazione del torace ed alcune domande circa la pratica del fumo. E’ dal gennaio del 1984 che non fumo più; e non ne consumavo certo molte. Ero un modestissimo fumatore; di certo, non avrei mai pensato di poter essere inquisito e colpevolizzato per quelle quattro cinque sigarette, quasi sempre collegate ai riposi post pasti principali, come di consueto. E non ci ho messo tanto tempo a staccarmi da quella “pratica”: non ho fatto come lo Zeno Cosini di Italo Svevo. Non ho atteso tanti eventi, piccoli medi o grandi, ma uno solo, molto significativo ed importante per me: la nascita di Lavinia. 8 gennaio 1984: ultima sigaretta. Anzi, già il giorno prima avevo buttato via tutto l’armamentario utile per il “fumo”: accendino (di quelli di poco conto, ovvio), i residui del pacchetto.  Il dottore, però, non era così tranquillo, appariva severo nel gudizio (o, perlomeno, così a me è apparso), come se accreditasse a quella “pratica”  per me così lontana le ragioni per comprendere il mio attuale stato di salute. Da profano non ero affatto convinto di questo giudizio, pur non espresso in modo chiaro; e pensai che però nel corso degli anni successivi ero stato comunque a contatto con ambienti fumosi, come circoli e sedi di Partito.

Cosa scrivevo l’altro giorno…?

Cosa scrivevo l’altro giorno trattando le tematiche che dovrebbero essere prese in considerazione da parte dei militanti, tutte/i/*, del Partito Democratico, soprattutto da coloro che finiranno per essere parte passiva delle scelte che le varie leadership stanno per intraprendere, ciascuna per mantenere l’obiettivo principale, la “loro” sopravvivenza? Non di certo quella di una forza politica che ha messo in evidenza progressivamente quei limiti che in tanti avevano cominciato già dagli esordi a sottolineare. Limiti che si sono accresciuti nel tempo, anche grazie agli innesti innaturali e deleteri prodotti con il periodo del “renzismo”. Scrivevo, riferendomi al mio Blog ed ai tanti contributi che vi ho inserito, sia storici (sono stato co-coordinatore – eravamo in due, Tina ed io – dell’unico Comitato per la fondazione del PD in quel di Prato) sia collegati a tutta una serie di eventi che andavano segnalando la profonda sofferenza di una parte significativa dei militanti e dei simpatizzanti.

Scrivevo infatti: “Scorrendo le pagine del mio Blog, chi lo volesse troverebbe molti spunti utili ad affrontare ed eventualmente portare a soluzione il sempre più difficile travaglio del Partito Democratico.”

Lo scrivevo, mantenendo nel sottofondo un barlume di speranza. E’ un mio difetto, quello di essere ottimista, senza tener conto ovviamente delle altrui debolezze; mentre è per me molto facile argomentare su quel che sarebbe utile, non tengo conto delle grandi difficoltà cui dovrebbero sottoporsi in tanti, nella disponibilità di discutere le rendite, aprendosi alla competizione meritocratica. Perché alla fin fine di questo si tratterebbe; sarebbe un grande gesto di messa a disposizione, nell’aprirsi al confronto democratico da subito, che non necessariamente significherebbe una rinuncia, ma permetterebbe a chiunque, tra quanti riconoscano valori e metodi, di sentirsi partecipe a pieno titolo, al di là della mera adesione.

“Partecipi”, perchè non si può essere solo dei numeri e dei manichini di cartone, ma persone in carne ed ossa e menti pensanti.

Una “mano” concreta a costruire ponti democratici potrebbe venire proprio da quella che è vista come una maledizione pendente sulla testa del PD, e cioè la “fuoruscita” dei supporter renziani.

Scrivevo l’altro giorno:” Il “renzismo” sta lentamente mostrando in modo netto e chiaro la sua vera natura. Il “guado” melmoso in cui attualmente il PD stagna va sospingendo parte di coloro che osannarono l’avvento di Renzi e che non sono ancora transitati in “Italia Viva” a compiere la loro scelta.”

E le notizie che si rincorrono nelle ultime ore parlano – in modo trionfalistico – di passaggi dal PD a “Italia Viva” come se dovesse prefigurarsi in ciò una riduzione di consensi per la prima sigla ed un incremento per la seconda. Ciò non avviene e, a mio parere, non si verificherà, in quanto poco importa all’elettorato questo “giochetto”. Importa molto invece a chi vorrebbe con serietà e tranquillità discutere di problematiche serie e coinvolgenti, risolutive. La presenza dei “filo renziani” è stata da subito e da tempo un vero e proprio impedimento, una “palla al piede” condizionante.

Ordunque occorre augurarsi che si sbrighino ad emigrare, lo facciano prima possibile.

dedicato alla mia terra (Procida)

VIAGGIATORI (da un dattiloscritto degli anni Sessanta)

 PROCIDA – L’ETERNO “ritorno”

“Novembre, il cielo ancora azzurro, i campi disadorni e i fossati verdi…A te ritorno, isola, così un nocchiero rivede la sua terra e s’inchina a baciarne le prime zolle…

ANNI CHE NON TI RIVEDEVO! che non assaporavo la tua quiete, nel percorrere le tue stradine, le viuzze con balconi fioriti e le comari con i loro pettegolezzi “quasi” per riservatezza muti”

Sembra come se doversi limitare al solo porto, quando sbarcano i viaggiatori, l’isola di Procida! Ed invece nasconde dietro la falsa quinta delle sue prime case di pescatori una ricchezza immensa che, durante il mite autunno, è ancora parzialmente incorrotta. Il silenzio vi è smosso di tanto in tanto dalle grida stridule e possenti di qualche venditore, dal botto di un fucile, dal rombo di un aereo straniero, dal clacson della corriera che si annuncia di lontano o che notifica la partenza.

“Ci siamo accorti troppo tardi che andava a finire così. Avevamo fatto di tutto per evitarlo, e tante parole inutili. Poi, improvviso, il mondo ci aveva assalito.”

La mia civiltà, la nostra civiltà è quella che ora noi tutti ignoriamo, anche se un giorno l’abbiamo avvicinata e l’abbiamo conosciuta. Civiltà di infanzia, civiltà di piccole cose, mondi eterni irripetibili, senza mai un ritorno, infanzia, fanciullezza, adolescenza, felicità, sorrisi.

Dovevo essere piccolo piccolo, pochi mesi o poco più di un anno. Le braccia del nonno materno, Vincenzo, le sento ancora e mi vedo in una stanza che solo ora mi è ben nota, dal pavimento uguale a quello di una vecchia casa mia, tenuto stretto da un fantasma, una forma senza tempo come l’aria, il cui volto posso solo intravedere da un ritratto, ingiallito dal tempo, nel quale il busto del nonno sembra emergere dalle nebbie.

Uguale allo zio, il nonno, con un paio di baffi che certamente avrò toccato e tirato nelle innocenti smanie di un bambino.

Soltanto questo, ricordo di mio nonno.

Ho poi vissuto gran tempo lontano ed il mio ritorno si è fatto man mano più rado, le mie visite frettolose col passare degli anni.

“Ma non potrò dimenticare i luoghi,  le persone che mi sono state e mi sono più care, che ho lasciato non troppo ma pur sempre lontane.”

I giochi da bambino sono per me il desiderio più represso ma non trovo – e forse nemmeno ricerco – altre persone capaci, comprensive e pronte a sognare con me; e tutte sarebbero pronte a denigrarmi.

Vado passeggiando giù per i viali terrosi stretti e gli alti fossati che mi videro saltellante gioioso ranocchio insieme ad altri spensierati fanciulli, per sfuggire l’attanagliante noia dei tempi che avrebbe facile vittoria nell’adulto bambino che mi ritrovo ad essere, che sono, l’accidiosa involontà di essere un verme strisciante ed il desiderio represso di volare al di sopra degli altri, come nei sogni notturni che avevo da bambino, una cosa piccina, molecola sconosciuta ed invisibile del grande infinito universo.

Assaporo il mandarino strappato con voglia dall’albero; il suo sapore asprigno, il suo profumo pregnante mi ravvivano da sempre ricordi di momenti lontani misteriosi archetipici ed anche per questo del tutto prerazionali; e mi provocano sensazioni uniche e mi sento un po’ – e per poco – male: insolita tristezza provata che genera poi energia creativa.

Imbocco una strada, ora di asfalto, e mi trovo su di un viottolo, erboso ai margini, rovi spinosi prorompenti nella bella stagione ed erbe della macchia mediterranea profumate più intensamente dalla pioggerella recente, acre sapore di mare salso, di sole, di terra bagnata umida tiepida ed accogliente; fin quando poi non si intravede il mare, il sole all’improvviso apparso tra gli alberi dietro i recinti murari a volte a secco che i contadini avevano costruito per delimitare i loro pezzi di terra e, dietro la leggera patina di foschia, oltre la striscia blu verde chiaro sfocata a parte ed altrove piena di faville, l’altra isola più grande che con la sua cima tra le nuvole osava toccare e sfidare il cielo.

Mi siedo là sul precipizio mantellato d’erba e rimango in silenzio a guardare: luci strane ed abbaglianti, le onde riflettono i raggi del sole al suo calar nelle onde e sembra un silente messaggio meccanico della natura.

“isciacquio, sciabordio, dolci rumori” rimango a guardare, in silenzio assorto a pensare, ed il mare culla, incanta la mia mente. In questo posto alcuni anni fa….

In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…

E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.

“Fore Serra”, nella terra di miei parenti, era la passeggiata nei pomeriggi di tutte le domeniche procidane. Ci andavamo tutti e come sempre davo da pensare ai miei, preoccupati che potessi scappare dalle loro mani per fare un tuffo nel mare dall’alto della collina di Punta Serra.

Ma se scappavo arrivavo fino al recinto dei maialini a tirar loro i codini contorti melmosi, a sentirli grugnire nel loro incomprensibile dialetto animalesco.

“Quella notte avevamo bevuto tanto, e mangiato per giunta in modo spropositato; la prima uva ornava le viti; mio cugino, più esperto e “padrone” del territorio, era addetto al raccolto furtivo aiutandosi al buio con le sole sue mani già abili e scaltre.. sentimmo di lontano, ma non troppo, musiche e canti, fisarmoniche e voci, grida e fresche risate, fuochi crepitare e vedemmo nel cielo senza luna e senza nuvole tre stelle cadenti ed un corpo non ben identificato, lontano, zigzagare e poi scomparire nei segreti meandri della Via Lattea. La voce della fanciulla che non mi riconosceva, e come avrebbe mai potuto, la porto nella memoria tuttora e sarebbe apparso come un avvenimento ancor più importante il giorno dopo nella mia mente. Girammo intorno al fuoco ormai quasi spento, come in un rito inconscio per la delusione di essere soli, per il desiderio di avere, di possedere un bene, un amore, quella ragazza, forse!

Girammo intorno al fuoco già spento, per dirci che eravamo ubriachi, per sentircelo dire ne accentuavamo il barcollio ed il balbettio insensato, e provare quel senso di abbandono totale da incoscienti, o quasi.

E da incoscienti guidammo l’auto giù per una strada tutta curve, senza mostrare responsabilità,  di notte, luci spente, come matti; e forse lo eravamo davvero. Così matti da andare poi subito a dormire, quella notte calda, senza nemmeno svestirsi, quella notte calda, accogliente, senza vento, un cielo stellato, un mare calmo, senza sorprese; a dormire quella notte, come matti; e prima avevano pianto i porcellini ancora giovani nel loro recinto, quei porcellini cui il cugino cattivo aveva anche lui voluto con più energia tirare i codini: avevano pianto e strillato forte; ma nessuno poteva sentirli, né aiutarli.

E, poi, quella ragazza che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

Arrivavo sotto gli alberi con l’immenso desiderio di scalarli e sentivo sapevo di non farcela di non averlo mai saputo fare, mentre gli altri veloci raggiungevano i posti più alti ed io, graffiandomi, rimanevo a guardarli impotente (una foto del tempo delle elementari me lo ricorda impietosamente). Le querce di Procida erano alte e dal tronco largo e nodoso. Sotto queste piante, sui bordi del promontorio di Serra, le buche dei conigli mi mettevano una strana paura e il ricordo correva a quel mio dito sanguinante inciso dai denti di uni di essi; ed ero minuscolo bambino ancora ingenuo e poco accorto lanciato alla conoscenza del mondo e delle sue piccole insidie. Sin da quel tempo, il cane da caccia “muso storto” mi guardava ringhiando e vaniva la mia coraggiosa intenzione di avvicinarlo e di carezzarlo con segno di amicizia da quel curioso che ero, allora, da quel curioso pettegolo che sono, adesso. La capra dal suo recinto protetto, addossato alle mura di quella casina diroccata in parte, ma del tutto abbandonata e trasformata in piccola stalla, lasciata lì solo a baluardo, con le sue mura forti ed alte, belava sentendoci arrivare, segno che l’ora del pasto e della mungitura delle sue mammelle lattifere era già arrivata. Tra tutte queste attività correvo scappavo dappertutto raccogliendo le ghiande e lanciandole qua e là con il segreto intento di raggiungere il mare, vicino (allora così mi sembrava!) da uno o dall’altro lato della punta, ed avrei voluto vedere nell’acqua, che tuttavia era lontana, i cerchi ingrandirsi concentrici e precisi man mano fin poi a scomparire.

Avevo saputo che laggiù sulla stretta spiaggia del Pozzo Vecchio venivano anche di inverno nelle belle giornate calde perché soleggiate gli innamorati, a cercare un istante di pace, uno scorcio romantico dove ispirarsi, ci venivano anche gli artisti, i fotografi, con i loro pennelli ed i loro colori, con le macchine fotografiche ad eternare momenti ed immagini.

“Dissi a mio cugino che andavo scrivendo qualcosa, niente di molto serio, poesie, racconti. Eravamo là sulle gradinate di casa, le lunghe caratteristiche gradinate procidane mediterranee costruite con il tufo e spalmate di bianca calce; ed io preferivo lungamente star lì seduto, piuttosto che andare al mare, che era per di più a quattro passi da noi; preferivo rimanere con me stesso, da quel chiuso riservato carattere che avevo, piuttosto che scendere alla spiaggia, a contendermi gli sguardi e le risa delle ragazze, a provare gelosia ed insieme invidia, a giocare con rabbia per emergere, farmi notare, ad impormi con aggressività nelle facoltà dove stimavo di eccellere e che spesso erano sottovalutate e derise, a nascondere la costituzione macilenta del mio fisico indossando maglioni poco adatti al caldo estivo, al sole che picchiava sulle sabbie sempre più calde, bollenti. E mio cugino mi offrì un sorriso di commiserazione, comprendendo che andavo rivolgendo dentro me stesso tempeste. Non avevo mai amato soverchio la bellezza, forse perché essa mi trovava sempre impreparato, sprovveduto, timido e chiuso. Avevo imparato che la bellezza era anche simbolo di vanagloria ed ogni volta che incrociavo gli occhi di una ragazza ostentavo una indifferente noia, un superficiale disgusto, una maschia sicurezza, che nascondeva l’immensa quantità di complessi.

Il tempo passa e ritorno, con lo stesso animo di un tempo, con gli stessi nascosti desideri di vincere l’età che mi trovo, di ritornare ancora una volta bambino e mi piace ritornarci da solo ad ascoltare e parlare con i fantasmi di coloro che ormai non vedo più come una volta, vinti dalla memoria e dagli anni.

“Un giorno verremo a trovarvi” “Un giorno andremo” aveva detto mio padre e loro ed a me. Ed avevo pensato con intima gioia all’attimo dell’abbraccio e del bacio non più dato solo per affetto, né per abitudine inveterata di famiglia. Mi recavo da solo in soffitta ad aspettare ed arrivava puntuale, ma il più delle volte si rimaneva a guardarci negli occhi, per un po’ soltanto guardarci negli occhi e poi ridere, fortemente eccitati, come sbocco di una voglia tremenda. La stessa buona stoffa di un voyeur, che da sempre aborrivo, sorgeva in me allorquando mostrava la bella forma nei suoi abiti felicemente larghi e campagnoli, larghe gonne e non lunghe, nello scendere i pioli delle scale che portano alla stretta e protettiva soffitta. Cosa era successo al nonno, non l’avevo più visto e poi mi avevano detto che era morto e ricordavo quando mi aveva stretto a sé, mi aveva portato con lui, e questo mi aveva lasciato dentro la misteriosa arcana paura di un regno invisibile vicino e lontano, lontano e vicino ma senza ritorno, di un luogo tremendo dove regna il silenzio, dove non si può più comunicare tra noi, la qual cosa mi toglieva ogni speranza di immortalità, quella a cui avevo sempre creduto. “Gli altri, non io” mi dicevo e ne ero convinto ma non sapevo, non capivo, non mi rendevo conto che cosa fosse la vita, cosa fosse la morte. E quelli che ci lasciamo dietro e che ci precedono sono tappe comunque della nostra vita; senza speranza di evitare il turno, ci affrettiamo a dimenticare lottando con gli altri, fingendo a noi stessi la vita, recitando commedie mai scritte, innamorandoci. Dov’era mio nonno, il nonno? Quando io ero bambino non ho ricordi che mi diano pace, consolazione, solo quei buffi baffi folti e quel volto dello zio, dello zio Michele così buono, che ha pagato molto cara la sua vita affrontandola seriamente ed in tanta solitudine. “Và ‘o cinema co’ Michalino; Assuntì, Peppino va ‘o cinema co’ Micalino” dicevano le zie a mia madre che mai mi avrebbe lasciato allontanare da solo ed io, già un ragazzetto, a dieci anni, attraversavo le stradine dell’isola, rifiutando per ribellione la mano dello zio, per orgoglio, per dimostrare la mia autonomia, lo zio poco loquace e dal sorriso buono ed io altrettanto silenzioso e per niente ciancioso verso di lui che mi avrebbe, forse, preferito, almeno allora quando si è bambini, più aperto ed affettuoso. Ma io non ho saputo mai mentire, non potevo essere diverso da quel che ero, riflessivo e riservato, specialmente con le persone che ho amato, quelle più care. Forse ho finto con la gente che non ho stimato, che non ho mai stimato, con quelli che mi hanno amaramente deluso facendomi prima credere in loro e mostrandosi poi quelli che veramente erano. Odio per questo ancor oggi i subdoli amici, non mi va di essere preso per i fondelli da chi non è intelligente da mondo e semmai merita finanche l’immortalità fra gli stronzi. Con lo zio al cinema scambiavo così sì e no qualche parola. Vi incontravamo suoi amici ed allora li sentivo parlare, e li ascoltavo con grande attenzione, dei loro problemi, la raccolta dei limoni, la qualità dell’uva, la vendemmia, la quantità di vino prodotto, le botti, il cane, le galline…..

Nei campi c’era tanta erba e la sera, un’ora prima del tramonto, si andava a raccoglierla. Bisognava però sapere quale sì e quale no. “No, chesta n’è bbona” diceva la zia Linda, esperta (perché quello era davvero uno dei suoi “mestieri”) del lavoro agreste e tanto spesso la vedevo zappare le zolle, salire gli “scalieddi”, raccogliere “dd’ove” alle galline spesso togliendogliele da sotto le chiappe ed allora – a volte – mi veniva di imitarla e rischiavo di cascare giù dall’alto di una scala a pioli, di tranciarmi le dita del piede con la zappa o di farmi beccare un occhio dal geloso gallo per il fastidio che procuravo alle sue pennute signore schiamazzanti nel recinto del pollaio. Con lei la zia Linda, donna molto dolce ed affettuosa con noi suoi nipoti, mi portava, ed erano impegni seri i suoi, tremendamente seri e, non si sarebbe mai detto oggi, mi piacevano particolarmente, ne ero affascinato; mi piacevano, in quel tempo! La Chiesa di S.Antonio Abate, detta popolarmente “Sant’Antuono” per distinguerla dall’altra dedicata a S.Antonio da Padova, era la sua seconda casa e le sere le trascorreva, come oggi potrebbero fare le dame in un salotto borghese attorno ad un tavolo da bridge o da burraco, accanto alla mensa del Signore. Procida è un’isola molto religiosa, tradizionalmente molto religiosa, ed io non nascondo a me stesso che mi attirava, mi interessava tanto quella vita, quell’ambiente con quei profumi intensi di incenso, tanto da farmi spesso pensare, e le zie qualche volta mi avevano anche incoraggiato, che in quel tempo desiderassi essere se non proprio prete, perlomeno un chierichetto. Procida era un’isola molto religiosa. Ora lo è di certo ancora ma forse per quei bambini che vivono innocenti nelle loro piccole case di campagna con una famigliola che li educa, integra moralmente perché vuole fare di loro dei buoni figli e li mantiene lontano da tutto quello che nel mondo simboleggia la corruzione, la civiltà del perbenismo e dei consumi esasperati. Amorosamente  cresciuti crederanno fin quando sarà loro possibile, come per quel bambino che ero io, alle storie del Cristo di cui vedono dappertutto gli esempi, senza però accedere a quei disvalori propagati dalle notizie diffuse dalla stampa, dalla televisione, dalla vita quotidiana di una qualunque piccola, media o grande città. Avranno la convinzione di essere anche loro una parte dell’eterno mondo ed invece dovranno forse un giorno abiurare amaramente a questo loro alto convincimento ideale. Cristo! Come avrei potuto esserlo, come avrei potuto diventarlo, come avrei potuto rimanere come ero quando ero bambino. Ma fui tentato dalla nostra Chiesa, quella che aveva abbandonato la primitiva semplicità, e fra Procida e la terra su cui vivo non c’è una distanza incolmabile, non aveva adottato solo la tecnica della presunzione di credersi migliori, aveva peccato  non solo di orgoglio, ma di ogni sorta di peccato, aveva forse creduto di essere veramente inattaccabile ed era poi caduta miseramente nel fango qui dentro il mio cuore. La mia debolezza mi aveva sconfitto di dentro ed avevo deciso risolutamente di rifiutare al Signore il mio impegno. Ma, in quegli anni di infanzia con le zie,  gli odori inebrianti di incenso, i colori ed i fregi delle chiese, delle immagini affrescate o dipinte dei santi, degli angeli e dei diversi protagonisti della storia religiosa (Cristo, la Madonna, lo Spirito Santo, il Padreterno), l’odore del legno dei banchi passati a lucido anche se molte volte corrosi dai tarli ed il canto corale delle donne, nelle diverse funzioni religiose cui partecipavo, che a tratti era accentuato quasi a volersi far ascoltare dal Signore lassù oltre le nuvolette, mi affascinavano non poco. 

La mia giovane semplicità mi fece entusiasmare quando feci conoscenza con una donna che aveva fatto voto di castità, un personaggio interessante ma forse un po’ fuori dagli schemi normali, un po’ folle, di quella follia che accomuno ad una passione disinteressata, ad un dedicarsi totale al servizio degli altri. Folle, sì; ma sono sicuro che a nessuno sia mai saltato in mente di chiamare folle una donna che viva santamente la propria esistenza fra una funzione religiosa e l’altra avvicinandosi anche più volte al giorno ai sacramenti ma sempre con l’obiettivo di praticare del bene. Ed in fondo se non altro per lei questa è la vita! La donna era fondamentalmente sola, era da troppo tempo stata sola come in una sorta speciale di clausura dalla quale era riuscita ad emergere; la tragedia della solitudine ci passa accanto chissà quante volte ma non ci coinvolge e quindi non riusciamo a comprenderla, non possiamo capirla, non possiamo, non potete conoscerla mai pienamente. L’aria di santità la circondava completamente; entrare in casa sua era come varcare una parte segreta di un santuario; prima di arrivare nella sua stanza si attraversava un corridoio buio un po’ funereo  illuminato solo dalla luce fioca di candele poste davanti a quadretti di vari santi. Ella di solito sedeva in una stanza in fondo al corridoio principale su un’ampia poltrona – le sue forme negli ultimi tempi tendevano all’obeso spinto – davanti alla quale aveva un ampio ma basso tavolo sul quale poggiava alcuni libri di preghiere, una bottiglia d’acqua ed un bicchiere, un piatto di porcellana dozzinale ed un’oliera piccola. Nei miei ricordi la stanza era buia ed illuminata da lumi a petrolio e da candele accese davanti a fotografie di persone morte. Si avvertiva un odore di antico, di pulito ma anche di vecchio, una mistura unica ed irripetibile che non ho mai più avvertito da tempo. Fra le mani di solito stringeva una coroncina del Rosario e murmuliava parole sconnesse in un italiano-latino tutto particolare. Il tutto faceva un po’ senso, ma il ricordo oggi non mi appare negativo; ero in quel tempo abituato più di ora a frequentare quei luoghi. Sembra che ella riuscisse a parlare anche con i morti e praticava arti un po’ insolite per gli ambienti religiosi come la lettura e l’eliminazione di quello che popolarmente chiamano “il malocchio”. Ho visto anch’io in diretta apparire e sparire misteriosamente gli “occhi” d’olio nel piatto dove prima aveva versato un fondo d’acqua e poi attingendo con le dita dall’oliera due-tre goccioline d’olio le aveva fatte schizzare nell’acqua. Ma ora a raccontarla sembra sia stata tutta un’allucinazione, una suggestione.

E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

A tavola erano in otto, quella sera. Mancava uno dei giovani maschi, Michele,  che già da tempo aveva deciso di andare a vivere da solo; ritornava di tanto in tanto più per necessità che per vero senso di appartenenza familiare,  ed era un po’ un isolato, forse misogino,  inadatto a vivere in una comunità con la prevalenza femminile.  C’era aria di festa; Domenico era tornato per un breve congedo dal servizio militare. Come si conveniva ad un lupo di mare era stato arruolato nella Regia Marina, Corpo Reale Equipaggi Marittimi, prima sul’incrociatore Garibaldi fino al marzo del 1938 e poi sul cacciatorpediniere Ostro. Erano vicine le festività pasquali e si respirava un’aria di primavera inoltrata; non aveva molti giorni ma avrebbe partecipato alle funzioni della Settimana Santa, quelle del giovedì, il 14 aprile e del venerdì, di certo; ma doveva far ritorno la mattina del sabato per consentire ad altri suoi compagni di poter andare in congedo. Era fortunato perché a Procida quella settimana ha un forte connotato religioso innervato nella realtà sociale: tutti, in modi diversi, vi partecipano.

“Comme te va, Mimì, te veco ‘nu poco dimagrito” disse Vincenzo, il capofamiglia con un paio di baffoni curati alla Umberto I e  seduto in cima al tavolo largo e capiente. “Nun te fanno mangià comme a casa; ma chi è che te cucina?”. Mimì sorrise e, tra una cucchiaiata di minestra di fagioli bolliti nel tradizionale fiasco e poi conditi con patate, erbe, cipolle e cotica, di quella conservata in gelatina con una parte di carne di maiale, mise le mani nel giubbotto che aveva appoggiato dietro la spalliera della sedia e ne tirò fuori un portafoglio dal quale estrasse alcune foto. “Ecco, qui simmo in libera uscita, a Taranto” mostrando la sua divisa ancor più elegante nel suo portamento di giovane poco più che ventenne  “e comme vedite c’è tanta ggente, tanta bella ggente, tante gguaglione ca ce guardano e, insomma, ce stà da fà”  fece con orgoglio maschile. “Chest’ata fotografia è a bordo, eccolo qua, chillo ca ce fa da mangià”  e mostrò un giovane dal sorriso aperto “ è nu guaglione de Puzzule, Lello; pur’isso è in congedo e forse, ci aggio ditto io, me vene pure a truvà, venerdì, e po’ ce ne iammo assieme”. La famiglia di Mimì era molto ospitale ed accolse con piacere l’annuncio della visita di chi, alla fine, si curava del benessere del loro congiunto. “E che cucina?” chiese la maggiore delle sorelle, forse curiosa forse invidiosa di un ruolo che aveva da tempo assunto con perizia. “Di tutto; però, basta che sape fà nu bbuono raù, ‘na bbona frittura, nu poco ‘e carne e quacche vvota ‘na bella ‘nsalata e a nnuje ce basta. Nun te preoccupà, Agnesì; a tte nisciuno te batte”. La madre Rachele gioiva solo al vederlo, quel figliolo, seduto in mezzo a loro, e non parlava. Mimì parlava con il padre e con le quattro sorelle scambiava poche parole, tanto erano esse riservate e di conseguenza silenziose. La più piccola era intimidita da quel fratellone grande e grosso ma aveva gettato lo sguardo, mantenendosi lontana, su quella foto nella quale c’era il “cuciniere” di bordo

C’era qualcosa che la incuriosiva e facendosi coraggio dentro senza esprimerlo fuori si avvicinò al fratello abbracciandolo  ed accoccolandosi accanto a lui saettò con le pupille sulla foto. Quel giovane era molto bello, il suo sorriso dolce e delicato quasi vicino a quello di alcuni angeli che aveva guardato ammirato e sognato nelle immagini sacre nelle chiese di Procida; Mimì non era fesso, se ne accorse e disse: “Tina, te piace? È ‘nu bravo guaglione, ‘nu grande lavoratore; nun se ferma maie. Nun cucina sultanto, fa tutto chello ca i superiori gli diceno; è bbravo a fà ‘o carpentiere e quindi aggiusta tutt’ ‘e scialuppe e a Puzzule ha fatto pure ‘o piscatore; però nun saccio se a Puzzule tene ggià ‘na guagliona. Nun t’allummà.”.

Tina, la minore, era la più coccolata dai fratelli e dalle sorelle e possedeva una grazia minuta, occhi grandi di color marrone ed una grande voglia continua di cantare e di danzare mentre svolgeva i suoi lavori domestici che erano assegnati a lei; gli altri lavori, quelli di campagna e l’accudimento degli animali, erano appannaggio delle altre sorelle, più robuste ed esperte. Sognava, invece, e aspettò il 15 aprile per vedere di persona come era quel ragazzo. Lo aspettò anche un po’ guardando dall’alto del tetto di casa la costa lontana oltre il Capo Miseno, là dove c’è Pozzuoli. Lello sarebbe arrivato di buon mattino, venerdì, quando a Procida c’è la processione del Cristo Morto, transitando attraverso Torregaveta con la Cumana.

Lello a Pozzuoli era arrivato la mattina di martedì 12 insieme a Umberto e a Mimì, che si era subito imbarcato per arrivare a Procida prima di pranzo. Umberto abitava sul Lungomare verso le Terme “La Salute”; la famiglia di Lello invece che fino a pochi anni prima aveva abitato alle spalle del Corso Garibaldi in un seminterrato molto modesto si era trasferita alle nuove Palazzine popolari alla base della Ferrovia nazionale ed a pochi passi dall’Anfiteatro Flavio lungo la Domiziana. Don Peppino e donna Rosa avevano cinque figli, 3 maschi e 2  femmine e riuscivano a stento ad andare avanti. Lello era il maggiore ed era l’unico ad essere stato arruolato; degli altri maschi uno era proprio piccolo a quel tempo e l’altro pure, ma di statura,  per la qual ragione era stato esentato dal servizio militare, il che era una fortuna perché poteva contribuire al reddito della famiglia.

Don Peppino era abile carpentiere di barche: Lello aveva imparato da lui. Lello era il figlio prediletto soprattutto per il suo comportamento integerrimo e la grande disponibilità a farsi in quattro per la famiglia. In città la vita era più dura per tutti rispetto a chi abitava in campagna e spesso si soffriva la fame per cui bisognava andare verso l’interno (Toiano, Quarto, Monte Ruscello) per cercare di comprare a prezzi i più convenienti materie prime, non importava se di scarto e di pessima qualità. A pranzo, però, ora che c’era Lello donna Rosa aveva preparato “fasule e pasta” perché sapeva che a Lello piacevano e non sapeva che anche a bordo lui li cucinava molto spesso e li proponeva ai suoi compagni; per di più, in cambio di un lavoro su una barca da pesca, a don Peppino avevano regalato dei polpi e per questo a casa di Lello era una vera festa quel giorno, doppia.

“Te veco bbuono, Rafilù” disse donna Rosa “se vede che ll’aria d’’o mare te fa bbene”. “Sì, mammà; veramente nun ce manca niente e po i’ stongo int’’a cambusa e mangio tutte chello che vvoglio; aggia assaggià pe’ tramente cucino; faccio ‘a pacchia e i superiore me lassano fà”. Le sorelle, soprattutto Maria lo prese in giro, ricordando uno dei giudizi sulla sua pagella dove, a parte la condotta, l’unica valutazione “Lodevole” era stata quella per “Lavori donneschi e manuali”. Risero tutti, anche Lello, ma non fece mai parola, però, della nausea che lo prendeva quando ai profumi dei cibi si mescolava il puzzo della nafta. E tra una cucchiaiata e l’altra, parlando del più e del meno, della scarsa voglia di andare a scuola del fratellino e gli impegni di lavoro del padre e dell’altro fratello e le storielle d’amorazzi veri o fittizi delle due sorelle, parlò dei suoi amici, di Umberto che tutti a Pozzuoli conoscevano ma anche di Mimì, che lo aveva invitato a Procida, in occasione del Venerdì Santo. Chiese ai suoi di  poter ricambiare l’invito già per sabato a pranzo; avrebbero dovuto però mangiare velocemente qualcosa e presto, a mezzogiorno, nulla dunque di impegnativo (anche se, lo avesse voluto,  non sarebbe stato facile) perché sarebbero partiti nel primissimo pomeriggio per raggiungere Civitavecchia. Lello aveva visto, anche lui, alcune foto della famiglia di Mimì ed era curioso di conoscerla; in particolare aveva notato la più piccola, Tina; ma di ciò non aveva mai parlato né con Mimì né quel giorno ai suoi.

Il resto della giornata Lello lo trascorse con il padre nei Cantieri navali per vedere il lavoro che stava portando avanti.

E venerdì mattina nella casa di campagna di Procida tutti erano svegli, come di consuetudine, molto presto. Il Venerdì Santo, poi! Tina non aveva dormito pensando a come si sarebbe agghindata. Il giorno prima si era lavata i capelli e se li era composti con un nastrino che glieli teneva dietro lasciando aperto l’ovale del viso; aveva scelto un vestitino a fiorellini molto adatto alla primavera ed un paio di scarpe basse comode. Arrossendo aveva chiesto a Mimì, che quel giorno aveva per obbligo indossato la divisa di ordinanza dei “Marò”,  se lo poteva accompagnare al Porto; Mimì acconsentì ma a patto che fossero d’accordo Vincenzo e Rachele. Di lui si fidavano perché lo conoscevano come ragazzo assennato, anche lui un gran lavoratore nella pesca oltre che braccio essenziale per la campagna, e non ebbero nulla in contrario a che Tina andasse insieme a lui. Si fidavano anche dei suoi giudizi e, se Lello era suo amico, pensavano dovesse di sicuro essere una brava persona. Le sorelle mugugnarono sotto sotto, erano fatte così; in effetti mantenevano un comportamento molto austero e mal sopportavano la puledrina a volte un tantino ribelle. Erano fatte così, rappresentando forme arcaiche in tempi che avrebbero portato forti cambiamenti. E Tina era alla fin fine la più vezzeggiata e si permetteva spesso di trasgredire.

Alle otto, più o meno alle otto arrivò il vaporetto. Mimì e Tina, orgogliosa di essere accompagnata da un fratello così elegante, alto, robusto e bello, erano sulla banchina.

Non era alto, Lello; ma a Tina apparve così mentre, vestito con la divisa da “marò”, scendeva la scaletta del vaporetto. Si andarono incontro e Mimì fece le presentazioni: i due già si erano conosciuti e le impressioni delle foto furono tutte confermate. Lello, benché fosse di carattere timido, complice la presenza dell’amico, si mostrava a suo agio; Mimì gli propose di lasciare il borsone con i suoi effetti personali negli uffici del Cantiere Navale che era gestito da un suo cugino in modo da poter poi girare senza tanti ingombri nel seguire la Processione del Venerdì Santo. Il giovane accettò subito di buon grado e poi si lasciarono entrambi prendere sotto braccio dalla radiosa Tina ed andarono incontro alla testa della Processione ascoltando il suono funereo della tromba che annuncia la morte del Cristo.

Tina avvertiva una forza che le infondeva sicurezza nel braccio di Lello che la stringeva verso di sé quando dovevano farsi largo tra la folla dei fedeli che seguiva il corteo nelle stradine di Procida. E quella ragazzina minuta esprimeva una freschezza straordinaria lasciandosi trasportare da quei due bei giovanotti, suscitando gelosie ed invidie in quelle persone, soprattutto donne ed in quel giorno particolare, che non riuscivano ad apprezzare la gaiezza ed i sorrisi anche se mai espressi in modo minimamente e seriamente riprovevoli. Lello chiedeva di tanto in tanto a Mimì, ma era poi sempre Tina a rispondere, alcuni significati dei simboli presenti nei cosiddetti “Misteri” che venivano trasportati dai fedeli incappucciati. E lei si impegnò volentieri a farlo essendo, come donna, molto più addentro alla conoscenza delle funzioni religiose, anche se non era mai stata assidua nel frequentare la Parrocchia e le sorelle per questi motivi tante volte l’avevano rimproverata.

Dopo aver ripreso il borsone di Lello, ritornarono a casa che era ora di pranzo. Per arrivarci, passarono attraverso un sentiero stretto costeggiato da campi coltivati e qualche rara abitazione. La casa era una tipica costruzione multifamiliare con cucina, camera da pranzo e cantine al piano terra e con una serie di piani concatenati da una scala interna. Si sentiva già mentre i tre arrivavano un invitante profumo di cibo. Il venerdì, poi quello Santo ancora di più, era consuetudine mangiare di magro. I genitori erano già seduti a tavola, quando i tre entrarono e Mimì presentò loro Lello; le sorelle lo salutarono con un certo riserbo sussiegoso, cioè senza eccessivi entusiasmi. Tina scappò, prima di entrare in cucina, nei piani alti per togliersi il vestitino da festa e subito dopo però si mise a disposizione delle sorelle in cucina.

Al di là del Venerdì Santo, giorno di meditazione per i fedeli, quel dì era comunque “festa” soprattutto perché il giorno dopo, di prima mattina, Mimì e Lello sarebbero partiti per Civitavecchia.

Tina era composta ma raggiante; per lei quel giorno non era ancora ora delle tristezze e dei rimpianti. Le sorelle se ne accorsero e qualche sorrisino sotto sotto emerse. Il pranzo, anche se di magro, era di tutto rispetto; il pesce, tutto di qualità, fresco pescato due notti prima troneggiava bollito spinato e preparato facendo bella mostra in un enorme vassoio in mezzo al tavolo. Seguite con molta attenzione da un corteo di gatti le sorelle maggiori portarono due zuppiere ricolme di spaghetti ben conditi con pomodori freschi e acciughe sminuzzate, olive, capperi, prezzemolo e basilico. In un altro piatto ovale vi erano tantissime uova sode con il guscio coperto da alcuni segni simbolici. Anche Tina aveva contribuito a prepararle e ne volle segnalare alcune.

Don Vincenzo si rivolse a Lello: “Nuje sapimmo ca tu saje cucinà, facce sapè se chello c’hanno preparete ‘ffiglie mie te piace. Buon appetito!”. Nel mentre donna Rachele, che rimase più o meno muta per tutto il pranzo, e le due figlie più grandi distribuivano il primo.

Don Vincenzo e donna Rachele erano seduti a capo tavolo l’uno di fronte all’altra. Tina era seduta accanto e Mimì. Le altre tre sorelle distribuite in modo da poter più agevolmente alzarsi per togliere i piatti e distribuire le altre vivande. Sulla tavola non mancava nulla: in una grande e fonda insalatiera c’era un contorno di verdure fresche dell’orto; due brocche contenevano vino rosso prodotto nella vendemmia dell’anno precedente e non mancava l’acqua attinta dal pozzo di casa; sopra una delle credenze infine era pronta una cesta di vimini piena di arance, mele e limoni.

“Tu ‘o ssaje fratete comm’è” disse don vincenzo a Mimì che si preoccupava dell’assenza del fratello più piccolo “nun le piace sta’ in famiglia. E’ fatto accussì”.  In effetti Giovanni non aveva nemmeno gradito la presenza di un estraneo ed aveva deciso di non farsi vedere; di solito nelle festività partecipava.

A tavola soprattutto gli “uomini” ed in particolare Mimì e Lello, discussero dei loro progetti di vita, sollecitati a ciò da don Vincenzo, che espressamente aveva chiesto a Lello (don Vincenzo non era “fesso” ed aveva capito molto bene quel che sarebbe accaduto) cosa facesse prima  e cosa intendesse fare dopo la leva militare e il giovane parlò della sua esperienza  di carpentiere di barche e di piccole navi, che aveva acquisito insieme al padre sin da piccolo. Mimì, anche se a don Vincenzo in quel momento interessava poco, per non essere da meno, disse che lui voleva continuare a fare il pescatore. Le sorelle intervennero solo per distribuire le portate. Tina se ne stette sempre seduta buona buona ed in perfetto silenzio, osservando soprattutto quel giovane che le era di fronte solo un po’ discosto alla sua sinistra.

E Lello non si sottraeva agli sguardi.

A fine pranzo gli uomini si alzarono lasciando campo libero alle donne. Don Vincenzo si accese uno dei suoi soliti sigari; ne fumava uno o due al giorno, aveva bisogno di calma per poterlo gustare e di norma ciò accadeva solo dopo il pranzo o la cena. Lello e Mimì confezionarono una sigaretta con il tabacco fornito dalla Marina militare e fumarono seduti tutti e tre sotto un grande albero di gelso nell’aia davanti alla casa.in silenzio venne Rachele a servire il caffè prima di salire nella sua camera per il riposo della controra. Si sentivano intanto già i rumori tipici della rigovernatura dei piatti e delle stoviglie. Dopo anche le donne sarebbero andate a riposare. Il rito della “controra” non era però adatto ai più giovani e frenetici e così Mimì e Lello, dopo aver convinto (ma non fu un grande sforzo)  anche Tina a seguirli, decisero di andare a fare due passi. Il tempo prometteva di essere anche caldo e così andarono tutti e tre, passando per i campi coltivati per sentieri minuscoli,  verso la costa dell’isola, fra Ciraccio e il Pozzo Vecchio, da dove si vede l’Isola d’Ischia.

Mentre facevano un “pieno” di quello splendido paesaggio sopraggiunsero  altri gruppi di giovani, ragazzi con le loro chitarre che, insieme a giovani donne, suonavano e cantavano motivi tradizionali popolari, mostrando la loro fresca allegria. Due di loro evidenziavano un’indubbia perizia sulle loro chitarre mentre una delle ragazze batteva il tempo su un tamburello. Un’altra vide Tina e Mimì e li chiamò. I tre si avvicinarono e Lello potè notare che fra Mimì e quella ragazza vi era qualcosa di più di una semplice amicizia; infatti si appartarono mentre Tina si riavvicinò a Lello che intanto seguiva le evoluzioni canore e danzanti degli altri giovani. Tina era intimidita dalla situazione del tutto nuova per lei e dentro aveva una gran voglia di danzare così come stavano facendo le altre ragazze su quello spiazzo panoramico. Lello comprese il desiderio della giovane e vincendo la sua naturale ritrosia le prese la mano ed accennò alcuni passi, saltellando in un modo così impacciato che suscitò il riso di alcune, in particolare quello della stessa Tina, che subito dopo però arrossì, temendo di averlo potuto offendere. Lello era così gentile e si capiva che doveva proprio essere un bravo ragazzo. Tina aveva tante domande da fargli ma non riuscì ad aprir bocca. Mimì dopo un po’ ritornò; a Lello sembrò che, e lo aveva intravisto con la coda dell’occhio, prima di lasciare la ragazza con cui stava parlando, che si riunì al gruppo, i due si fossero scambiati un tenero dolcissimo quasi casto e timido bacio, ma mantenne, per sua natura, il totale riserbo.

La giornata poi si concluse con pochi eventi. A Lello e Mimì per la notte riservarono la stanza del “mezzanino”, un luogo appartato che portava sui tetti, caratteristici mediterranei e bombati, da cui si accedeva ad un panorama mozzafiato su tutto il Golfo di Napoli e di Pozzuoli. Il giorno dopo, all’alba, i due partirono, salutando la famiglia e nessuno li accompagnò. Tina, al solito dormigliona, quel giorno si era alzata insieme agli altri. Ed era schierata per il saluto, di certo in preda ad emozioni contrastanti.

“Cara Tina, ho chiesto a tuo fratello l’indirizzo ed anche il permesso di chiederti se vuoi essere la mia fidanzata. Fammi sapere presto perché sarò in trepida attesa di una tua risposta. Sei bellissima.”

Non appena furono a Civitavecchia Lello si era fatto forza ed aveva chiesto a Mimì l’indirizzo della sua famiglia; voleva scrivere a Tina e non solo per salutarla. Mimì capì, aveva capito. Stimava Lello e non aveva alcun motivo per non essere contento di quanto sarebbe potuto accadere. Aveva intuito anche che Tina non aspettava altro. E così accadde che dopo due settimane arrivò una lettera per Lello; in verità era solo una busta, ma conteneva una foto di Tina. Dietro ella aveva scritto: “Procida 3 maggio 1938. Offro a te, o mio eterno amore, questa mia piccola foto, in segno di affetto, tua indimenticabile Tina”.

A fine maggio Mimì e Lello furono congedati e ritornarono a casa. Mimì continuava a fare il pescatore a Procida insieme al vecchio padre don Vincenzo, Lello con don Peppino a fare il carpentiere nel Cantiere navale di Pozzuoli. Nei fine settimana Lello andava a Procida a casa di Mimì e di Tina. Ed era stato accolto come un altro figlio. Tutto, dopo una festa di fidanzamento modesta, in quanto la vita era sempre più dura, procedeva verso il matrimonio quando, iniziata anche per l’Italia la seconda guerra mondiale il 10 giugno del 1940, Lello fu richiamato alle armi a Civitavecchia. Avevano progettato di sposarsi in settembre, ma la Storia come il diavolo ci aveva messo la coda; era tutto inevitabilmente da rinviare.

Lello rimase a Civitavecchia fino al 18 aprile del 1943; di Mimì non sapeva nulla. Per tutto quel tempo Lello e Tina si erano scritti ma non avevano mai accennato ad altro se non ai loro sentimenti; Lello aveva anche nella prima lettera chiesto ma non ottenendo alcuna risposta aveva glissato in seguito; era sempre più in pensiero per i suoi, perché a Pozzuoli come in tanti altri paesi gli ultimi mesi erano stati durissimi: mancava tutto, in particolare il cibo. Era stato ferito non gravemente alla gamba destra ed usufruì di un breve periodo di convalescenza. Poi la Storia nuovamente bussò alla sua porta ed a quella di tante altre persone e lo aiutò a non tornare più in guerra nel totale sbandamento del dopo 8 settembre. Andava più spesso a Procida anche utilizzando mezzi di fortuna e con il buio per rifornirsi di cibo per la sua famiglia evitando i costi della piaga del “mercato nero”.

Mimì era riuscito ad evitare la chiamata alle armi e si era prudentemente tenuto nascosto, continuando comunque a pescare. La guerra dall’isola la si vide da lontano solo negli ultimi mesi.

Nei fine settimana Lello ritornava a Procida ed ora usciva sempre più spesso solo con Tina. Aveva abbandonato da tempo la sua timidezza e qualche sera insieme si ritrovavano con gli altri giovani a suonare e ballare davanti al fuoco.

A Tina piaceva girare vorticosamente fino a perdere l’equilibrio e ritrovarsi esausta fra le braccia di Lello. E girava, girava e la gonna si apriva e si gonfiava…si gonfiava.

°°°°°°°

In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…

E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.

In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

°°°°°°°

…E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

 …e come avrebbe potuto?….

PROCIDA L’ETERNO RITORNO   

FINE

Due racconti di novembre… 1966 – un mio “amarcord”

“LA SFIDA” un ricordo del novembre 1966

La sfida
Quante partite nello scalo merci delle ferrovie avevano giocato; al pomeriggio prima di mettersi a studiare si ritrovavano nel piazzale all’ingresso della Stazione della Metropolitana di Pozzuoli; si contavano e quando il numero lo permetteva si andava a giocare. Intanto con il pallone di cuoio quello regolamentare si palleggiava sulla strada. Allora le auto circolanti non erano molte e quando arrivavano si chiedeva agli automobilisti di parcheggiare più in là. La porta, virtuale, era nel muraglione della villa signorile che affacciava sulla piazza: si sistemavano degli oggetti reperiti casualmente (a volte erano i nostri giubbini arravugliati, altre volte dei mattoni di tufo) per delimitare lo spazio orizzontale della “porta”; per l’altezza si andava “ad occhio” ma, ad ogni modo, quando il numero dei convenuti era consistente si spostavano all’interno dello Scalo.
A volte, considerando questa pratica un allenamento, affittavano un campo di calcio con il contributo di tutti e si sfidavano fra di loro oppure sfidavano altri gruppi come il loro, mettendo in palio “pizza e birra”.
Era la fine di un mese di ottobre ancora caldo; molti già discutevano su come il clima fosse cambiato. Era il 1966.
Alberto spesso si recava nell’isola; di solito vi trascorreva la bella stagione ma anche qualche fine settimana. Là poteva respirare aria buona, godere della libertà dai vincoli, a volte apprensivi, della famiglia. Aveva un gruppo di amici con i quali condivideva alcune passioni, teatro e musica. Aveva costruito anche qualche timida relazione, ma niente di importante e di fisso, con una ragazza del luogo, amicizia e nulla di più per accordo reciproco. Seguiva – da tifoso – una delle squadre di calcio locali, dove giocavano altri amici ed amici dei suoi amici. Ed una sera, una domenica di metà settembre, raccontò loro del gruppo di amici della Metropolitana, elogiandone le qualità tecniche, quasi a sottolineare la loro possibile superiorità: quasi! Ma agli “isolani” sembrò certa la provocazione di Alberto nei loro confronti. Ed il guanto della sfida fu gettato.
A quei tempi nel gruppo della Stazione tutti erano studenti, molti al Liceo Classico, una parte all’Istituto Tecnico e, tranne un paio di loro che erano già all’Università, frequentavano l’ultima o la penultima classe del corso di studi superiori. L’occasione buona sarebbe stata quella delle vacanze dei Santi e dei Morti che, con il 4 novembre, Festa dedicata all’Armistizio di Villa Giusti che nel 1918 concluse la prima guerra mondiale, e con la concessione di un “ponte” il sabato 5 componeva un utile filotto. E così si strinse un patto fra Alberto e gli “isolani” per una sfida ufficiale nel primo pomeriggio del giovedì 3 novembre.
La banchina, quella mattina, era sgombra; la notte il vento era stato così forte da aver provocato la caduta di alcuni cartelloni pubblicitari lungo il viale di accesso al porto…ma il cielo era sgombro di nubi, quella mattina. Non faceva molto freddo. Il mare nel porto di Pozzuoli, protetto dal lungo molo caligoliano alla fine del quale vi era un faro abitabile, piccolo ma ugualmente maestoso, appariva calmo. Alberto con i suoi amici si avviarono, dopo aver acquistato i biglietti di imbarco ed aver controllato anche gli orari per il ritorno, verso quella che ancora allora chiamavano la “Cumana”, in ricordo del fatto che già dall’Ottocento e poi fino a metà Novecento il collegamento fra Procida e la terraferma si svolgeva prevalentemente da Torregaveta, “terminal” della Ferrovia per l’appunto detta “Cumana”. Dopo il controllo dei biglietti, salirono a bordo. Al di là del personale non vi erano molti altri passeggeri.
Alle 9.45, in perfetto orario, la nave si staccò dalla banchina. Il viaggio durava all’incirca 45 minuti; dopo essere uscita dal porto di Pozzuoli girava a sinistra e proseguiva mantenendo sulla destra la riva di Baia e di Bacoli fino a doppiare il Capo Miseno dove, virando a destra e mantenendosi a distanza dalla costa di Miliscola e del Monte di Procida, avrebbe puntato verso l’Isola di Procida.
Un percorso semplice semplice, ma quel giorno non fu così.
Non appena usciti dal porto, superato il Faro, ci si accorse che il mare non era più così tranquillo come sembrava. La nave, una delle più grandi fra quelle che circolavano su quella linea, cominciò a beccheggiare di fronte ad onde larghe ed enormi che la colpivano lateralmente. Il capitano decise di spostare la prua in direzione delle onde per poterle affrontare; il rollio commisto al beccheggio creava una combinazione maligna che in un primo tempo, ricordando alcune delle attrazioni dei Luna Park, appariva piacevole ai giovani passeggeri che scherzavano fra loro mimando gli ubriachi lasciandosi andare da una parte all’altra del ponte godendosela e ridacchiando. La nave si allargò dal Capo Miseno e si inserì verso il canale di Procida affrontando onde altissime che la portavano nella parte più bassa del ventre impedendo ai passeggeri di vedere la terra e poi la sollevavano sulle loro creste per farle ridiscendere vertiginosamente.
I giovani amici di Alberto cominciarono a spaventarsi e più di uno di loro dovette liberarsi della colazione; lo stesso Alberto era confuso e fortemente preoccupato per i suoi compagni, e qualcuno si spinse anche ad offenderlo. Il mare si calmò soltanto all’ingresso del porticciolo di Procida protetto dalla scogliera. Il gruppo, un po’ malconcio, raccattò le sue borse, dove erano state riposte le tute, le magliette ed i pantaloncini della squadra, e si preparò a scendere dalla scaletta che era stata calata sulla banchina di Procida. Si era di fronte all’imponente palazzo Merlato del ‘600 e ad una serie di abitazioni dal vario colore mediterraneo, ma la traversata aveva messo ciascuno di cattivo umore e poi tutti erano arrivati a Procida in tempi migliori. Alberto aveva lanciato già lo sguardo dall’alto della nave per cercare qualcuno dei suoi “isolani” e non ne aveva visto alcuno. Si era fermato in uno dei bar della Marina Grande ed aveva, utilizzando un gettone, telefonato a casa di Valerio, l’allenatore della squadra locale. Rispose sorprendendosi del fatto che loro fossero arrivati; chi vive circondato dal mare conosce i suoi segreti e le previsioni non erano positive: il mare andava ancor più ad agitarsi ed il rischio dell’interruzione del servizio marittimo nelle ore successive era molto elevato. Ma, visto che c’erano, disse che poiché avevano confermato il loro allenamento pomeridiano, non ci sarebbe stato alcun problema per la “sfida”, a patto però che si evitasse il gioco duro.
Si fermarono tutti a Marina Grande rifocillandosi con tè caldo al Bar del Porto; e poi si avviarono verso il piccolo autobus che era arrivato, essendo stato avvisato da Valerio. Il biglietto lo si faceva direttamente a bordo e l’autista sapeva anche dove lasciarli scendere poco prima di giungere al capolinea che era la Marina Chiaiolella. Riconobbe Alberto ed anche lui, l’autista, che si chiamava Gennaro, lo rimproverò di non aver consultato le previsioni marittime; sarebbe bastata una telefonata alla Capitaneria del Porto, anche quella di Pozzuoli. Alberto allargò le braccia per giustificarsi così come poteva e chiese a Gennaro di indicargli una trattoria alla buona per il pranzo. Erano soltanto le 11; potevano mangiare un primo ed un po’ di frutta prima di andare a giocare. L’appuntamento per la “sfida” era alle 14.30 per avviare alle 15.00 e chiudere entro le 17.00 per poter poi ripartire per Pozzuoli alle 18.00.
Decisero dunque di arrivare giù alla Chiaiolella e di fermarsi in una delle trattorie dove di solito facevano da mangiare agli operai edili che venivano dalla terraferma. In quei giorni non erano arrivati non solo per il maltempo ma soprattutto per le ricorrenze, per cui i gestori furono ben contenti di avere una dozzina di clienti inattesi e si prodigarono per accontentarli. Alberto li conosceva ma non bene come quelli della Corricella e di Marina Grande; si presentò e presentò i suoi amici spiegando il motivo per il quale si trovavano quel giorno a Procida.
Insieme ascoltarono alla radio le previsioni meteo e seppero che in gran parte dell’Italia del Centro Nord aveva continuato a piovere mentre al Sud non erano previste perturbazioni pericolose: si rasserenarono convinti anche del fatto che, pur se il vento continuava ad essere intenso, non facesse freddo ed il cielo era pressoché sgombro di nubi. Tanto che, alla fine del pranzo, dopo il caffè si spostarono verso la spiaggia e si sedettero sulla sabbia al sole che era abbastanza caldo.
Fino alle 14 vi rimasero; poi a piedi si avviarono salendo verso il Campo sportivo. Lungo la strada Giovanni, il capitano della squadra, impartì alcune indicazioni sui ruoli da ricoprire: Luciano avrebbe fatto il portiere, come al solito; Alfredo e Gino avrebbero supportato la linea di difesa mentre al centro di questa vi sarebbe stato lui stesso; nel centrocampo avrebbero operato Mattia e Peppino; la linea di attacco con capacità e potenzialità di rientro sarebbe stata composta da Alberto, Nicola, Fulvio come centravanti, Saverio e Renato. Di certo non avrebbero avuto alcuna possibilità di sostituzioni; ma nelle “amichevoli” spesso accadeva così. Alberto faceva da segretario a tutta la compagnia e prese appunti diligentemente.
Arrivarono con qualche decina di minuti di anticipo rispetto alla squadra locale; così si spogliarono, indossarono magliette – con i numeri canonici – e pantaloncini e poi cominciarono a fare riscaldamento. C’era intanto un pubblico occasionale sorpreso di vedere tante facce nuove. Arrivarono i “locali” per la sfida mentre Alberto e gli altri stavano provando dei palleggiamenti. Valerio fece le presentazioni di Alberto e quest’ultimo presentò i suoi amici. Alle 15, forse poco dopo le 15, scelto come arbitro un ragazzo che si era proposto, cominciarono a giocare; decisero di fare due tempi di 35 minuti con un breve intervallo di 10, in modo da poter finire per le 16.30 e ripartire, anche perché Valerio paventava il rischio che sul far della sera il mare sarebbe diventato più agitato e non vi sarebbe stata possibilità alcuna di partire; il vaporetto che li aveva portati la mattina ritornava da Ischia e sarebbe partito alle 17.30 ed era il mezzo più sicuro rispetto alle altre imbarcazioni meno solide.
La partita si mantenne su un piano di gioco aperto ma molto corretto così come era stato previsto dai patti; e nessuno si lamentò del risultato che fu un pareggio per 2 a 2. Finita, si rivestirono tutti, bevvero del tè caldo che era stato portato dai “locali” all’interno di thermos e non appena ritornò il pulmino si salutarono e, così come erano arrivati la mattina, ridiscesero alla Marina Grande.
Il mare era abbastanza tranquillo nel porto, anche se con l’approssimarsi del tramonto il vento aveva ripreso a tirare ed a dire il vero non era freddo. Il gruppo di Alberto, tutti soddisfatti per l’esperienza vissuta, arrivò a Marina Grande con il piccolo autobus. Scesero e si avviarono alla biglietteria, ma la trovarono chiusa e videro anche un cartello affisso: “SERVIZIO SOSPESO per mare forza 9”. In effetti, il mare non appariva poi così tempestoso, ma uno degli ormeggiatori che Alberto conosceva disse che il moto ondoso era molto forte nella parte più aperta alle correnti aeree ed in particolare fra Ischia e Procida e nel canale di Procida; e , quel che era peggio, le previsioni non annunciavano miglioramenti nelle ore successive, anzi! Cosa fare, a quel punto? Alberto sapeva anche che in qualche occasione era stata ripresa la rotta per Acquamorta, al Monte di Procida; ne accennò al gestore del bar, Geppino, che conosceva da tempo ma quello gli rispose che, in simili condizioni, nessuno lo avrebbe potuto condurre dall’altra parte: la sera stava sopraggiungendo e non vi erano le condizioni per poter con certezza far ritorno e poi la Capitaneria non lo avrebbe consentito.
Alberto chiamò Valerio che, per fortuna, visto il maltempo, era ritornato a casa e lo informò. “Se qualcuno ci dicesse che di certo domattina si parte potremmo anche adattarci in un magazzino del porto o chiedere ospitalità in uno dei locali della Marina; ma ho la sensazione che non vi siano certezze in tal senso.” Alberto pensò anche di portare una parte dei suoi amici dai suoi parenti, ma Valerio lo rassicurò: “In occasioni come queste, voi siete stati nostri ospiti, tocca a noi ricercare una soluzione. Chiamo il Sindaco per capire quel che si può fare! Aspettatemi”. Alberto ringraziò ed avvertendo su di sé la responsabilità di averli condotti in quella “sfida”, informò il gruppo, che intanto come aveva fatto al mattino si stava rifocillando al caldo in una stanza interna del Bar con te e pastine varie.
Valerio arrivò dopo meno di un’ora; con lui c’era il vice Sindaco che assicurò tutti che l’isola avrebbe provveduto ad ospitarli in una struttura alberghiera (avevano pensato anche all’Ospedale, ma veniva utilizzato solo per il Pronto Soccorso e non aveva spazi organizzati) fin quando il servizio di navigazione non fosse ripreso. Alberto aveva telefonato alle zie e si fece escludere dal computo; disse che però li avrebbe accompagnati per accertarsi della sistemazione. In quei giorni, per la concomitanza delle festività e del maltempo, gli alberghi erano pressochè vuoti. Era consuetudine ad ogni buon conto avere il massimo rispetto per gli “ospiti”, ancor più in occasioni come quelle; e non capitava certamente spesso.
Valerio, il Vice Sindaco ed un altro amico fino ad allora sconosciuto li accompagnarono, utilizzando tre auto, ai due Alberghi che si trovavano fra Solchiaro e la Chiaiolella, il “Savoia” ed il “Riviera”. Furono accolti con estrema cortesia nella tradizione ospitale dell’isola. Alberto ringraziò gli amici di Procida, si accomiatò dai suoi amici assicurando loro che, presto, la mattina dopo sarebbe ritornato, suggerendo loro di essere pronti perché se il mare si fosse calmato ed il servizio ripreso sarebbero partiti. La notte il vento riprese vigore e la mattina, limpida perché sgombra di nubi annunciò tuttavia che nulla era cambiato e che il mare, lo si vedeva dall’alto della casa delle zie di Alberto, lo si vedeva altrettanto dall’alto delle terrazze dei due alberghi, era ancora più tempestoso. Alberto raggiunse presto gli amici e con loro, sapendo di dover rimanere ancora qualche ora, forse un giorno, si sperava un solo giorno, si incamminò sulla via “Panoramica” e da quella poterono osservare la maestosità delle onde marine che si scagliavano possenti contro la scogliera sollevando una schiuma corposa; ed il vento intenso rendeva il cammino faticoso lungo la strada. Alberto e pochi altri, rassicurati e protetti dalla dolcezza e dall’ospitalità dell’isola, ricordarono i versi di Lucrezio nel secondo libro del “De rerum natura”

“Suàve , marì magnò turbàntibus àequora vèntis
è terrà magnum àlteriùs spectàre labòrem;
nòn quia vèxarì quemquàmst iucùnda volùptas ,
sèd quibùs ìpse malìs careàs quia cèrnere suàve est.”

“bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano.
Non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,
ma la distanza da una simile sorte”

e fecero ritorno, dopo aver acquistato alcuni prodotti per l’igiene intima in un “Coloniali” in Piazza Olmo, uno di quei negozi che emanano profumi di pulito e vendono di tutto, ai loro Alberghi. Era il 4 novembre, venerdì e nel Nord ed il Centro d’Italia, si stava consumando la tragedia delle alluvioni. Trento, Venezia, Udine, Brescia, Padova subirono enormi danni; Firenze fu sommersa dall’Arno. Un patrimonio immenso di Arte, Cultura e Civiltà rischiò di essere perduto. Alberto ed i suoi amici si incollarono alle radioline che riportavano i notiziari del “dramma”. Compresero di essere davvero fortunati. La mattina dopo riuscirono a far ritorno. Il mare non era ancora tranquillo ma il servizio era ripreso.

Joshua Madalon

“Memoria”

Da poche ore si può trovare sul sito del PD una lettera di Enrico Letta rivolta al mondo degli iscritti (I circoli) ed indirettamente ai potenziali sostenitori. C’è fretta camuffata da ponderatezza; ma  c’è una grande urgenza di arrivare al “cambiamento”, dimenticando di averne avuto subito dopo il cambio di guardia con Zingaretti, che aveva denunciato ampiamente questo bisogno. In tal modo si rischia grosso: le truppe camellate stanno preparando già gli armamentari, forti della scarsa memoria collettiva.

“Memoria” che è necessario avere per capire quanto sia stato pretestuoso l’abbandono del “campo largo”, scarsamente coltivato e perfino mal arato. La responsabilità del mancato accordo è da addebitare in primo luogo al Partito Democratico, e poi a Lega e Forza Italia, che hanno subodorato il lauto affare. La “crisi” è stata provocata dal forzoso inserimento in un dispositivo di natura sociale ed economico come il Decreto Aiuti di un articolo che intende approvare la costruzione di un termovalorizzatore a Roma: una diretta provocazione inserita in luogo improprio e senza un accordo, che non avrebbe potuto sortire altro che la levata di scudi del M5S che si è astenuto.

Oltre tutto il M5S è stato sottovalutato per una sorta di presunzione culturale e politica di superiorità. Ciò traspare altresì dal livore con cui una parte del mondo politica e della stampa sostenitrice del Partito Democratico (vedi N. Aspesi che sul “Venerdì di Repubblica”) non manca di offendere Giuseppe Conte, leader del M5S.

E’ evidenziato anche dalle scelte che il PD di Enrico Letta ha fatto in controtendenza, accogliendo – al posto dei “contrari” pentastellati – i rappresentanti di Sinistra Italiana e Verdi che non hanno mai votato i dispositivi della famosa “Agenda Draghi”. Quella scelta è la cartina di tornasole della pretestuosità della motivazione con cui si è escluso sin da subito l’accordo.

Quanto a Calenda e Renzi la loro nota boriosità è infinita e, per fortuna, l’elettorato non li ha premiati.