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LE STORIE 20 – per la parte 19 vedi 12 marzo

Proseguendo nella pubblicazione di alcuni documenti, quella che segue è la “Dichiarazione” (la scesa in campo) di disponibilità da parte di Massimo Carlesi a candidarsi a Sindaco di Prato per la legislatura 2009/2014

1.3. I COMPITI DELL’AMMINISTRAZIONE COMUNALE PER LA SCUOLA

Come abbiamo già rilevato in precedenza, l’impatto della Legge Gelmini finirebbe per acutizzare, anziché risolvere, alcune criticità nel compito dell’Amministrazione Comunale a mantenere il livello dei servizi di sua competenza, con un conseguente impatto negativo nella vita dei bambini e delle loro famiglie.

1.3.1. I servizi alla scuola

Nella nostra città, infatti, i servizi alla scuola (mensa, trasporto, pre-post scuola) hanno ormai raggiunto un alto livello di qualità, incontrando la soddisfazione della maggioranza delle famiglie che ne usufruiscono.

Ad esempio, per il servizio mensa sono state operate delle scelte significative volte a riorganizzare e migliorare la qualità dei pasti forniti, come l’introduzione di “menù biologici”. In questo senso, si potrebbe verificare anche la possibilità nelle scuole di coltivare un piccolo orto, grazie al coinvolgimento di pensionati volontari, i cui prodotti potrebbero essere consumati alla mensa scolastica.

Anche per l’edilizia scolastica, nel suo complesso, si segnala una situazione generale di buona conservazione; tuttavia occorre un’azione di sistematica di verifica per valutare e pianificare gli interventi strutturali necessari (ad es.  la “Pier Cironi” ha bisogno di particolari attenzioni). Vi è ormai l’estrema necessità di creare o completare l’edilizia scolastica all’interno delle nuove aree di insediamento abitativo che si sono sviluppate nelle zone periferiche. Sicuramente andrebbe maggiormente potenziato l’utilizzo dei locali anche al di fuori dell’orario scolastico, da destinare ad attività di animazione socio-culturale, indirizzati anche a giovani e adulti.

Tutto questo potrebbe cambiare in modo radicale nel caso ci trovassimo di fronte a dei forti tagli dei trasferimenti statali che costringerebbero l’AC a riversare gran parte del costo di tali servizi sulla cittadinanza (direttamente o indirettamente).

1.3.2. Le alternative al Tempo Pieno

Innanzitutto, è giusto sottolineare che il Tempo Pieno risponde da anni a due ordini di bisogni: quello dei bambini di vivere quotidianamente all’interno di un contesto significativo sia da un punto di vista educativo che relazionale; quello dei genitori di delegare ad un’agenzia educativa affidabile la custodia e l’educazione dei propri figli durante il tempo trascorso al lavoro, che, data la situazione, richiede sempre maggior quote della giornata ad entrambi i genitori per far fronte alle necessità di “sopravvivenza”. Vi è dunque motivo di temere per la sua cancellazione o drastica riduzione a mero “trattenimento” pomeridiano nei locali della scuola.

Lo Schema di Regolamento pubblicato nel dicembre 2008 ammette le varie possibilità di scelta, per le famiglie, tra 24, 27, 30 e 40 ore di frequenza, ma non transige sulla necessità di far sparire la compresenza degli insegnanti, che finora ha permesso di gestire tante problematiche come le difficoltà di apprendimento o comportamentali, le difficoltà linguistiche degli stranieri, l’insufficiente copertura oraria dei docenti di sostegno e persino la copertura del servizio in caso di assenza improvvisa, dato che le supplenze risultano sempre più difficilmente attivabili. Così anche se il tempo passato all’interno della scuola dai bambini non dovrebbe subire riduzioni, ciò che diminuirà sarà invece la qualità dell’offerta educativa in esso realizzata.

Perciò, anche se nella scuola primaria la scelta del tempo corto (24 ore) e del maestro unico sembra sia una prerogativa della famiglia e non un’imposizione dall’alto, permangono forti dubbi sulla possibilità, da parte della scuola, di continuare ad offrire il servizio del Tempo Pieno così come ad oggi lo abbiamo conosciuto ed a chiunque ne faccia richiesta.

da “Helgoland” una lezione di vita per costruire un futuro di pace – parte prima

da “Helgoland” una lezione di vita per costruire un futuro di pace

Nei giorni scorsi ho accennato a questo saggio di Carlo Rovelli, mentre scorazzavo con la mente e le parole intorno a tematiche molto drammatiche, di cui ho sostanzialmente taciuto negli scorsi mesi: le vicende della guerra russo-ucraina si sono dipanate quasi interamente nel tempo in cui io ho avviato una singolar tenzone con la malattia…e pur avendo formato un mio personale giudizio (quasi certamente esso ha preso forma molto lentamente, costringendo le mie passioni a silenziose e solitarie riflessioni), ho tardato ad esporlo, rinunciando per più di due mesi ad utilizzare questo spazio.

Nondimeno ho letto molto ed il saggio di Carlo Rovelli, complice Alberto Crespi, mi ha rafforzato nei ragionamenti che andavo facendo tra me e me o poco più. Carlo Rovelli è un fisico, ed è un filosofo della scienza; Alberto Crespi è uno dei più grandi esperti della Storia del Cinema. Mi ha incuriosito il frequente richiamo bibliografico e le numerose citazioni, apposte ai punti più rilevanti (apertura e chiusura dell’ultimo suo saggio, “Short Cuts. Il Cinema in 12 storie”) derivanti dal testo di Carlo Rovelli, “Helgoland”. Quest’ultimo, solo in apparenza, tratta di argomenti di fisica quantistica lontani, dal mondo di cui parla Crespi.

In realtà la trattazione scientifica scorre per proprio conto ed è materia per chi è già esperto di quelle plaghe scientifiche: la storia narrata è affascinante e conferma l’assoluta distanza stratosferica tra i comuni mortali e i grandi possessori di scienza. Ma in quel saggio vi sono anche pagine che dovrebbero indurre a profonde riflessioni i nostri uomini politici, soprattutto quelli che ritengono di essere in possesso di qualità culturali superiori; senza andare a scomodare le solite affermazioni sulla Storia bisogna che vi sia la consapevolezza che “essa” ha un valore nel suo dipanarsi ma poi deve essere sempre sottoposta ad una verifica critica, che tenga conto delle variabili collegate ad una visione che sappia riconoscerle per adeguare le future scelte.

“Ogni visione è parziale” scrive Rovelli a pag.195 “Non esiste un modo di vedere la realtà che non dipenda da una prospettiva. Non c’è un punto di vista assoluto, universale. I punti di vista tuttavia comunicano, i saperi sono in dialogo fra loro e con la realtà, nel dialogo si modificano, si arricchiscono, convergono, la nostra comprensione della realtà si approfondisce.” E ancora, sempre in quella pagina: “Di relazioni è fatto il nostro io, le nostre società, la nostra vita culturale, spirituale e politica.”

In realtà Carlo Rovelli parla del lavoro dello scienziato, che non può fermarsi al dato oggettivo di un unico soggetto in un determinato momento ma ha bisogno di approfondire e comunicare inter relazionandosi con altri scienziati.

“Tutto quanto siamo stati capaci di fare nei secoli lo abbiamo fatto in una rete di scambi. Per questo la politica di collaborazione è più sensata ed efficace della politica di competizione”.

….1…..

…mentre vagavo nel Limbo…

…il dibattito spesso sgangherato intorno ai temi della “guerra”…..

…..una Sinistra disarticolata che ha messo in evidenza la sua profonda incapacità di riflettere di ragionare di far operare il dubbio, puntando troppo spesso solo e soltanto sulle proprie “inossidabili” certezze….per non smentirsi!

E’ una costante, purtroppo. Ma se non si ragiona e ci si ostina solo ed esclusivamente a difendere le proprie certezze non si può essere in grado di modificare alcunché. Se ci si arrocca non si può affermare che si ragioni; anzi, quel modo di fare è la conferma che non si potrà mai arrivare ad un cambiamento.

Siamo a ridosso del centesimo giorno di guerra. Ma con la mente occorre andare indietro nel tempo per poter poi riconoscere che non è stato fatto nulla affinché la tragedia non si realizzasse progressivamente con la distruzione di interi territori, la diaspora di intere popolazioni, la morte di centinaia di migliaia di persone, non solo militari (in tanti, spesso inconsapevoli della sorte cui stavano andando incontro), lo spreco immenso di risorse alimentari, intellettuali, civili, storiche.

Non si può tornare indietro senza dover riconoscere gli errori commessi dai principali “attori” della contesa. Ed è molto curioso che in questa vicenda uno dei protagonisti, l’Europa, abbia di fatto avallato, con una discussione oziosamente appiattita sulle indicazioni esterne ad essa, il parere di una struttura militare come la Nato e di un paese estraneo ad essa, come gli Stati Uniti. Ci si è voluto riferire essenzialmente a scelte preordinate esclusivamente di tipo guerresco militare senza voler entrare nel merito delle “possibili” ragioni della Russia (non di Putin, ma dell’intera Federazione russa). Non si è dato spazio alla diplomazia in modo concreto, continuando semplicemente a blaterare intorno alle differenti concezioni della vita civile.

Quel che scrivo oggi, forse non sarà stigmatizzato come pro o contro qualcuno, anche perché sto parlando di tutti. Sarà difficile fare passi indietro dopo più di tre mesi di guerra, di fronte a risultati ancora non ben chiari. Se avessi scritto la stessa cosa “mentre ero nel Limbo….” sarei stato accusato di “filoputinismo”. So bene che la maggiore responsabilità è del Presidente russo, che ha attaccato e invaso lo spazio ucraino. Ma subito dopo, nel corso dei giorni, delle settimane e dei mesi (ormai più di tre) la risposta è stata solo di tipo militare: i “tavoli” di trattativa sono sempre stati vanificati da affermazioni e scelte che negavano nella maniera più assoluta alcuna prospettiva di “pacificazione”.

….1….oltre ai 100 giorni…fino a quando?

Attenti alla guerra – arma di distrazione di massa – il prosieguo di una introduzione ai temi attuali

Attenti alla guerra – arma di distrazione di massa – il prosieguo di una introduzione ai temi attuali

Attenti alla guerra – arma di distrazione di massa – il prosieguo di una introduzione ai temi attuali

Il 28 febbraio scrivevo un post sottolineando la debolezza degli Stati europei, della Nato e degli USA, ma non mancavo di cominciare ad esporre le mie perplessità intorno alla inadeguatezza e alla sempre più scarsa credibilità di un fronte pacifista, che finisce per avere connotati ideologici improduttivi. Non basteranno questa volta raduni oceanici a far girare la ruota della Storia; così come in altre occasioni “storiche” non è la bandiera della Pace che può fornire una giusta risposta ai problemi dell’Ucraina e del suo popolo. Piuttosto sarebbe opportuno chiedersi davvero cosa significhi l’invio di armi ai resistenti; solo un atto pietoso simbolico, dopo il quale occorrerà uno sforzo maggiore da parte delle potenze internazionali, UE e Cina comprese, nel perseguire una linea di trattative credibili, che possano concedere a tutti i concorrenti elementi di soddisfazione. Se questo non accade, e ci si limita a mettere in campo personalità in declino come Macron, significa praticamente che finiscono per prevalere posizioni molto personali dei grandi protagonisti, non solo Putin ma anche Biden, che giocano una battaglia poco nobile sulla testa di inermi cittadini e combattenti diversamente armati.

Molto spesso siamo condizionati da punti di vista veicolati dal Potere nostrano, per cui – sì davvero – Putin appare il demonio e Biden l’angelo del Bene. Non è così, a parte quelle che sono le caratteristiche personali di facciata, per cui Putin rappresenta il “machismo” e Biden il “buon padre di famiglia”. Poi è del tutto evidente che chi utilizza le armi (ma gli USA hanno brillato in tal senso) non può avere consensi tra la stragrande maggioranza della gente comune; ma quest’ultima parte della società conta davvero molto poco e prevalgono ristrettissime oligarchie sia tra gli uni (la Russia, per noi i “cattivi”) che tra gli altri (USA, Nato e UE, per noi i “buoni”).

Partendo dalla consapevolezza che non è così netta la distinzione tra buoni e cattivi, bisognerà anche ragionare intorno ad un dilemma che dovrebbe essere motivo di turbamento da parte di coloro che, risvegliandosi dal letargo, ergono il vessillo della Pace, a tutti i costi. Una delle condizioni migliori per loro sarebbe che, toccato da un effetto miracoloso, il despota russo ritorni anche solo parzialmente sui suoi passi e si disponga ad un accordo, facendo fermare e retrocedere l’esercito. Ma questa soluzione appare oggi improbabile utopia. L’altra possibilità potrebbe essere che una parte del gruppo di oligarchi politici e militari che circonda Putin lo convinca a desistere, a farsi da parte in modo pacifico con un suon “buen retiro” una sorta di prepensionamento (ma, visto il lungo tempo di permanenza al Potere, sarebbe cosa buona e giusta) come è accaduto per alcuni suoi predecessori, a partire da Gorbaciov, e di converso si avvii una fase nuova di trattative, che potrebbero essere anche più vantaggiose per la stessa Russia (estromesso Putin, ciò non sarebbe impossibile). Una terza ipotesi tuttavia potrebbe essere elemento di “turbamento” per le menti pacifiste. Ed è il principale dilemma di cui accennavo poco qui sopra: può un pacifista accettare che sia una soluzione l’eliminazione fisica violenta del “despota”?

Questa non è un’ipotesi peregrina, visto il cumulo di odio che si è addensato sulla testa di Putin.

Il 28 febbraio scrivevo un post sottolineando la debolezza degli Stati europei, della Nato e degli USA, ma non mancavo di cominciare ad esporre le mie perplessità intorno alla inadeguatezza e alla sempre più scarsa credibilità di un fronte pacifista, che finisce per avere connotati ideologici improduttivi. Non basteranno questa volta raduni oceanici a far girare la ruota della Storia; così come in altre occasioni “storiche” non è la bandiera della Pace che può fornire una giusta risposta ai problemi dell’Ucraina e del suo popolo. Piuttosto sarebbe opportuno chiedersi davvero cosa significhi l’invio di armi ai resistenti; solo un atto pietoso simbolico, dopo il quale occorrerà uno sforzo maggiore da parte delle potenze internazionali, UE e Cina comprese, nel perseguire una linea di trattative credibili, che possano concedere a tutti i concorrenti elementi di soddisfazione. Se questo non accade, e ci si limita a mettere in campo personalità in declino come Macron, significa praticamente che finiscono per prevalere posizioni molto personali dei grandi protagonisti, non solo Putin ma anche Biden, che giocano una battaglia poco nobile sulla testa di inermi cittadini e combattenti diversamente armati.

Molto spesso siamo condizionati da punti di vista veicolati dal Potere nostrano, per cui – sì davvero – Putin appare il demonio e Biden l’angelo del Bene. Non è così, a parte quelle che sono le caratteristiche personali di facciata, per cui Putin rappresenta il “machismo” e Biden il “buon padre di famiglia”. Poi è del tutto evidente che chi utilizza le armi (ma gli USA hanno brillato in tal senso) non può avere consensi tra la stragrande maggioranza della gente comune; ma quest’ultima parte della società conta davvero molto poco e prevalgono ristrettissime oligarchie sia tra gli uni (la Russia, per noi i “cattivi”) che tra gli altri (USA, Nato e UE, per noi i “buoni”).

Partendo dalla consapevolezza che non è così netta la distinzione tra buoni e cattivi, bisognerà anche ragionare intorno ad un dilemma che dovrebbe essere motivo di turbamento da parte di coloro che, risvegliandosi dal letargo, ergono il vessillo della Pace, a tutti i costi. Una delle condizioni migliori per loro sarebbe che, toccato da un effetto miracoloso, il despota russo ritorni anche solo parzialmente sui suoi passi e si disponga ad un accordo, facendo fermare e retrocedere l’esercito. Ma questa soluzione appare oggi improbabile utopia. L’altra possibilità potrebbe essere che una parte del gruppo di oligarchi politici e militari che circonda Putin lo convinca a desistere, a farsi da parte in modo pacifico con un suon “buen retiro” una sorta di prepensionamento (ma, visto il lungo tempo di permanenza al Potere, sarebbe cosa buona e giusta) come è accaduto per alcuni suoi predecessori, a partire da Gorbaciov, e di converso si avvii una fase nuova di trattative, che potrebbero essere anche più vantaggiose per la stessa Russia (estromesso Putin, ciò non sarebbe impossibile). Una terza ipotesi tuttavia potrebbe essere elemento di “turbamento” per le menti pacifiste. Ed è il principale dilemma di cui accennavo poco qui sopra: può un pacifista accettare che sia una soluzione l’eliminazione fisica violenta del “despota”?

Questa non è un’ipotesi peregrina, visto il cumulo di odio che si è addensato sulla testa di Putin.

I REGALI DI NATALE – parte 6

I REGALI DI NATALE – parte 6.

E’ una consuetudine passeggiare lungo il viale che ai miei tempi (e per molti ancora oggi è così) era noto come via Napoli. Ci si veniva anche d’estate per fare il bagno, in alternativa a Arco Felice, Lucrino, Baia, Bacoli e Miliscola. Ora il Lungomare è stato intitolato a Sandro Pertini. Da qualche anno c’è stato un prolungamento esterno che sembra voler circumnavigare il promontorio del Rione Terra. Non sempre i giardini che nell’intenzione iniziale dell’amministrazione dovevano essere ridenti, lo sono rimasti. A volte li si trova abbandonati e trascurati, in altre occasioni nei nostri sporadici ritorni li abbiamo ritrovati accoglienti. Dopo i ruderi postmoderni del vecchio ristorante (quello originale era in legno con palafitte ed era balzato agli onori nazionali come “location” per qualche film; i residui di ora sono soltanto gli effetti di un tentativo di illecito non riuscito) c’è un porticciolo turistico popolare con barchette che alternano l’uso dei remi a quello del motore. Ricordo di esserci passato e di esserc

mi inoltrato in un ameno rustico boschetto fatto crescere per ripararsi dal sole qualche anno addietro quando nostra figlia fece una serie di foto ad ambienti e pescatori con la sua Rolleiflex.

2487,0,1,0,356,256,333,2,2,186,50,0,0,100,0,1972,1968,2177,370784

Procediamo fino in fondo là dove poi una struttura in muratura intervallata da una serie di recinzioni metalliche limita il passaggio; ma è molto rilassante fermarsi lì e ascoltare in silenzio lo sciabordio delle onde che si infrangono sulle scogliere e le penetrano. E’ uno dei riti di riappropriazione della nostra terra, noi che siamo esuli volontari mai tuttavia pentiti di essere appartenuti a questi luoghi. Per noi è uno dei “regali” che ci facciamo ogni volta che ritorniamo qui.

2487,0,1,0,365,256,328,2,2,201,51,0,0,100,0,1973,1968,2177,25726

Dopo il rito dell’ascolto, aiutato da una presenza discreta di altri che forse come noi rivivono le medesime sensazioni, facciamo ritorno e risaliamo per delle scalette che conducono verso la Chiesa di San Vincenzo (noi la conosciamo così anche se, andando su Google Maps troviamo innanzitutto “Chiesa di Gesù e Maria” e solo tra parentesi “Ss Rosario e San Vincenzo Ferrer). Negli anni “giovani” c’era un parroco molto attivo tra i giovani; ma purtroppo ci ha lasciato molto presto. Notiamo un certo movimento e leggiamo che nei sotterranei è stato installato un presepe; ci dicono che è un presepe stanziale messo su nel corso degli anni, ma ovviamente aperto solo nel periodo natalizio: a noi non era mai capitato evidentemente di passare da quelle parti nelle nostre fuggevoli presenze festive e quindi non ne sapevamo alcunché. Decidiamo di visitarlo e scendiamo in uno stretto cunicolo dall’interno della Canonica. Questi spazi li conosciamo perché d’estate una volta siamo stati coinvolti da una sorta di sagrestano senior che decise di illustrarci parti storiche e leggendarie della città di Pozzuoli e di tutta l’area flegrea, portandoci sulla terrazza che dà proprio sul golfo. Ma in quell’occasione nulla ci disse della presenza del presepe.

Prima di entrare notiamo che c’è un banchino gestito da due signore anziane con una sorta di raccoglitore libero di offerte. Parlano tra loro; noi con un cenno procediamo disponibili al ritorno a fermarci per offrire un nostro contributo.

…6…

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 25 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI

Il prossimo 5 marzo sarà il centenario dalla nascita del grande intellettuale italiano. Qui continua la trascrizione “difficoltosa” (lo sbobinamento non è mai stato verificato) del Convegno del 2006 Questa è la PARTE 25

PARTE 25

Ma nello stesso tempo però c’era anche qualche cosa che coinvolgeva molto fortemente. Con il tempo e soprattutto quando è uscito “Petrolio, che io considero un romanzo molto importante, anche se come sapete è nient’altro che un progetto di romanzo, beh lì allora lo spostamento di me come lettore, come fruitore è stato piuttosto dall’altro lato della contraddizione, cioè dal lato della accettazione. Ora con il tempo io credo che bisogna tenere presente ambedue questi poli accettazione e rifiuto. Questo significa non consegnare Pasolini ad una classicità alquanto, come dire, sciocca, alquanto conciliatoria in senso troppo placido, proprio mantenendo questa dimensione che è di distacco e di avvicinamento.

Noi non possiamo accettare alcune delle tesi di Pasolini e lo dico francamente. Non sono accettabili Perché non è immaginabile la difesa ad esempio della famiglia tradizionale, della maternità di tipo tradizionale nei confronti della questione dell’aborto. Voi sapete che aveva preso una posizione così chiaramente contro l’aborto che è qualcosa di non accettabile. Era sicuramente anche una provocazione che lui faceva, però questo non vuol dire che una tesi come quella si accettabile. L’idea di una omosessualità che è tutta all’interno di una dimensione maschile, diciamo un recupero ma attraverso alcune mediazioni della dimensione di una omosessualità greca in cui c’è un rapporto come dire da discepolo, da docente a discepolo nei confronti dell’amasio o appunto del giovane. Una diciamo lettura dell’omosessualità estremamente riduttiva e poi a lui veniva anche diciamo da una tradizione letteraria. Anche qui c’è una tradizione letteraria pensiamo a Jeed che ha una posizione sull’omosessualità molto simile. Beh, anche questo non è accettabile, soprattutto oggi noi vediamo che è una visione estremamente estetizzante della omosessualità, tra l’altro anche con una dimensione sadomasochistica esplicita. Quindi ci sono delle cose che non sono accettabili e che ci devono mettere in una situazione di rifiuto.

Al tempo stesso però poi, proprio elementi di questo tipo, condotti così o ricondotti con forza all’interno di un’opera aperta nel senso in cui Tricomi ha parlato di opera aperta, cioè non nel senso della neo avanguardia, ma nel senso di una letteratura che cerca una sua strada quale che sia la verità. Beh, allora questo diventa un elemento di contraddizione che può essere produttivo di qualche cosa proprio Perché ci mette in uno stato di contraddizione. Quindi, ad esempio, le tesi sul consumismo che vengono ormai citate in maniera diciamo quasi quotidiana come qualche cosa che Pasolini aveva già visto e che ci ha come dire consegnato con una profezia che si è realizzata, anche lì una tesi

come quella estremamente interessante nel momento in cui veniva svolta, veniva tirata fuori, cioè negli anni settanta in Italia soprattutto, anche quella va presa con un atteggiamento che è io direi di un sì e anche di un mah Perché non si è verificata nel mondo una omologazione generale delle culture, quelle culture che Pasolini andava riscoprendo e che cercava come qualche cosa che ancora manifestavano una resistenza alla omologazione delle culture, ma che in breve sarebbero sparite proprio quelle culture, quelle culture del terzo mondo ecc, hanno manifestato poi come abbiamo visto un qualcosa di più di una capacità di resistenza. Si sono reinventati una tradizione al punto che oggi noi non possiamo parlare di una omologazione delle culture sul pianeta, un discorso diverso andrebbe fatto per l’Italia, però anche lì ci sarebbe da diversificare l’analisi che faceva.

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 24 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 24 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI

continua la trascrizione “difficoltosa” (lo si comprende dal testo riportato proprio in questo blocco) del Convegno del 2006 Questa è la PARTE 24

* PROIEZIONE DI UN DOCUMENTARIO

FINE LATO B PRIMA CASSETTA

SECONDA CASSETTA INIZIO LATO A

Parla voce non identificata:

<< Io vorrei, in questo intervento molto breve, dire qualcosa sul discorso che ha fatto Tricomi e poi rivolgere una domanda, una semplice domanda a Costa che non nasconde inibizione, ma è proprio una domanda. Per quanto riguarda la relazione di Tricomi che si rifà a due libri che ha pubblicato in questi ultimi tempi su Pasolini, io devo dirvi innanzitutto che trovo la tesi, che lui ha presentato qui, che appunto ha discusso ancor meglio in questi volumi, assolutamente convincente. A me sembra che si possa dire che tutto quello che Tricomi fa, ma lo fa con una grande dovizia di documentazione sia in sostanza svolgere dispiegare quello che era un giudizio critico di Franco Cortini su Pasolini, che Pasolini accettava peraltro, e cioè la possibilità di leggere Pasolini, l’opera di Pasolini secondo la figura retorica della sineciosi o dell’ossimoro. L’ossimoro sapete è una figura retorica in cui due contrari sono unificati all’interno di una stessa formula, come per esempio quando si dice un morto vivente. Questo è un ossimoro e un po’ tutto Pasolini è un ossimoro. Io credo che questo lo si veda bene proprio attraverso la tesi di Tricomi del sadomasochismo, no? Questo rapporto che Pasolini ha con la tradizione letteraria, con il potere, con la sessualità anche che è un rapporto di contraddizione perenne in cui non si arriva mai ad una sintesi, quindi ad una conciliazione degli opposti, ma al contrario si ha una configurazione in cui gli opposti sono presenti e si scontrano continuamente. Quindi non una soluzione del conflitto, ma un conflitto esibito in maniera costante. Allora questa cosa, questa dimensione per esempio della accettazione rifiuto di una tradizione letteraria, questo è secondo me visibilissimo se vediamo ad esempio la svolta che appunto conduce Pasolini dalle prime prove che si possono in qualche modo, sia pure con una certa approssimazione, considerare neorealistiche o almeno realistiche fino poi alla diciamo sperimentazione piuttosto forsennata degli anni ’70, questo si vede per esempio in un libro come “Petrolio”, beh questa dimensione di accettazione e rifiuto di una tradizione letterariami sembra una cosa che viene esibita continuamente.

Ma l’idea che io ho e che è in qualche modo una sorta corollario della tesi di Tricomi è che il lettore stesso debba mettersi in una condizione di ossimoro quando si avvicina ad un’opera come quella di Pasolini. Cioè la dimensione dell’accettazione e del rifiuto devono convincere, altrimenti non si coglie veramente il punto. Devo dire anche che questa cosa può procurare, come dire, degli sbalzi di umore nella lettura di Pasolini. Io li ho sentiti molto, molto fortemente anche Perché così per età anagrafica faccio parte proprio di quella generazione di giovani nevrotici, pallidi, forse anche brutti che lui aveva così fortemente criticato. Quindi la dimensione del rifiuto era sicuramente prevalente quando ero un ragazzo e anche veniva fuori in maniera molto forte quando vedevo un suo film ecc.

….24….

“buttare il bambino con l’acqua sporca”

Ho aperto un percorso qualche giorno fa per ragionare su una delle malattie del mondo politico “bipartisan” con sfumature diverse e avverse. Sembra quasi che ci si diverta a distruggere senza proporre alternative valide. Non fosse così vorrei essere smentito. Sin da quando ero nella Scuola in servizio attivo il tema dell’Alternanza Scuola Lavoro è stato uno dei temi più dibattuti al quale il corpo docente impegnato specificamente in quel percorso ha presto grande attenzione e sforzo critico. Se mancano tali presupposti, ovvero se le iniziative vengono progettate senza un impegno specifico con le agenzie formative con le Istituzioni con gli organismi sindacali con il mondo della produzione industriale e produttivo, con gli Enti culturali di certo i risultati di una simile esperienza non serviranno a nulla: ma da quel che io ricordo questa attenzione esisteva e di volta in volta l’esperienza portava a dei correttivi, necessari sempre per rendere migliori gli esiti. Indubbiamente, esistevano anche gli incidenti di percorso, per quel che concerne la mia esperienza non assimilabili a quelli drammatici recenti, ma collegati ad ambienti non consoni all’espletamento funzionale dei Progetti (l’inserimento “coinvolgente” in struttura lavorativa): a volte lo studente veniva abbandonato a se stesso, quasi come un impiccio, o in altre occasioni gli veniva commissionato un lavoro non rispondente a quello specifico. Di fronte a queste denunce che venivano poi anche verificate con una sorta di blitz dei responsabili dell’Istituto, si procedeva a cancellare dalla lista la struttura ospitante per l’anno successivo.

L’altro tema trattato con passione dagli attuali studenti riguarda la struttura dell’Esame di Stato 2022. Anche su questo ho delle perplessità e ne tratterò nei prossimi giorni.

la necessità di percorsi post ideologici -Alternanza Scuola Lavoro e Esami di Maturità 2022 – blocco 1 e 2 con Intro e Premessa

Premessa – Tratterò alcuni degli aspetti della nostra “contemporaneità” nel convincimento che vadano declinati fuori dalle ideologie mature o perlomeno utilizzando nuovi strumenti interpretativi.

Non posso non ammettere di essere stato sostenitore di ideologie già formulate, come tanti altri della mia generazione e tanti di quelle che hanno precedute le “nostre”. Nonostante ciò non posso non riconoscere che le ideologie già formulate debbano essere considerate non un punto di arrivo ma una base per procedere verso elaborazioni cui ciascuno nella misura delle elaborazioni personali possa aggiungere qualche elemento in più per interpretarle e procedere verso nuove formulazioni. Quando si è giovani è quasi del tutto normale che le ideologie cui ci si affida siano considerate come approdi cui aggrappare la gomena del proprio personale vascello. I giovani hanno bisogno di certezze e quando ritengono di essersene appropriate le declinano le applicano le professano a ogni piè sospinto, trasformandole in poco più che slogan tassativi esclusivi da rispettare rigorosamente .

Sarebbe normale, soprattutto per chi possiede solide capacità intellettive, formate in modo culturalmente scientifico, per un giovane ormai cresciuto e divenuto adulto, provare a sciogliere le gomene e prendere il largo verso orizzonti rinnovati arricchiti dalle proprie esperienze di vita e consolidati dall’applicazione sempre corretta delle proprie acquisizioni ideologiche. In teoria ciò dovrebbe apparire ed essere naturale; ma nella pratica molto spesso accade che ci si sieda sul trono delle ideologie e ci si senta comodi, contenti solo della semplice mera applicazione dei fondamentali senza avvertire il bisogno di un riallineamento, di una interpretazione più consona alle trasformazioni sopravvenute.

Ancor più seria diventa la questione, allorquando a non crescere intellettivamente e non essere in grado di superare la fase dell’infantilismo ideologico sono gli attuali educatori e i “maitre à penser” che si propongono di formare allievi non sulla base critica ma sull’assertività assoluta intorno a categorie ideologiche cristallizzate utili per ogni luogo e ogni tempo, a prescindere dalle condizioni che si sono man mano formate e diversificate.

Ho esperienza diretta, in linea individuale e non solo, rispetto a questa forma di presunzione intellettuale; voglio ribadire che è molto comodo (lo è stato per l’appunto anche per me) farsi forte delle acquisizioni di base rinunciando a elaborazioni nuove più adatte, e non ne sono stato immune. Pur tuttavia da alcuni anni, in una tardiva maturazione, di fronte alle vicende sociali economiche politiche e culturali alle quali ho avuto modo di partecipare in modo quasi sempre diretto e coinvolgente, ho avviato a costruire una revisione lenta ma progressiva, fatta di aggiustamenti interpretativi, collegabili a ragionamenti personali, e per questo motivo suscettibili di errori, rispetto alle basi ideologiche da me possedute.

Nello stesso momento in cui rifletto su quel che per me è stato un limite, superato da una presa di coscienza personale su ciò che mi ha condizionato, non posso rinunciare a comprendere che chiunque abbia proseguito a riferirsi in modo categorico ed esclusivo ai principi ideologici in modo genuino e richiamandosi ad una coerenza di fondo merita tutto il nostro rispetto.

Questo mio percorso è del tutto evidente nella elaborazione di gran parte dei miei post, alcuni dei quali riferiti a decenni trascorsi.

Alternanza Scuola Lavoro e Esami di Maturità 2022 – la necessità di percorsi post ideologici – p.2

Sin dall’alba del mondo, allorquando l’umanità ha avuto bisogno di regole, sia da rispettare sia da trasgredire, coloro che detengono il Potere hanno fatto camminare i loro proclami sulle gambe dei loro seguaci più fedeli. Ma quasi sempre al momento in cui si sta per raggiungere qualche obiettivo scendono a compromessi con altre forze di Potere e lo mettono n tasca a coloro di cui si sono serviti.                                                             Sin dalle vicende iniziali narrate dalle Sacre Scritture questo rapporto tra servi sciocchi e potentati si evidenzia in modo lampante; pensate alle tavole della Legge, nelle quali vi sono le prescrizioni morali cui attenersi non solo in quanto comunità religiosa ma anche civile: sono state applicate solo per creare condizionamenti negli animi deboli.                                                                                                                                Abbandoniamo per un momento questo “territorio” chiaramente digressivo per non ingenerare confusione: l’intendimento è quello di riaffermare che l’attuazione dei diritti si scontra con un disquilibrio sociale economico che non può essere sanato semplicemente con un’affermazione di principio. Bisogna che i rapporti di forza siano condotti su un terreno neutro nel quale le differenze si annullino non sulla base di benevoli concessioni.

Sono partito da due questioni esemplificative; le ho menzionate nel titolo ma non mi sono addentrato su quel terreno.

Nei giorni scorsi, sospinti da un evento drammatico, molti studenti delle scuole medie superiori sono scesi in piazza a formare cortei. Non era solo la voglia di riprendersi la vita, dopo questi lunghi mesi di clausura forzata e di abbandono della socialità, imposta dalla pandemia; era il bisogno estremo di poter esprimere il loro dissenso verso questo tipo di società che – nonostante alcuni proclami ottimistici – sta dimostrando di procedere a tappe forzate verso un predominio delle classi plutocratiche economiche, incuranti della sofferenza sempre più largamente e profondamente diffusa nella stragrande massa di popolazione, non solo quella dei Paesi sottosviluppati, destinati a patire ancora di più rispetto a prima, ma anche in questa nostra società, riconosciuta come industrializzata ed evoluta, sviluppata.

Per combattere questo stato delle cose pericolosamente e incessantemente in rapida evoluzione negativa per tanti di noi non bastano gli slogan delle masse urlanti; occorre costruire strategie di condivisione dal basso, altrimenti finirebbe per prevalere un profondo senso di frustrazione accresciuto dal fatto che molto spesso i Poteri forti finiscono per fagocitare una parte del dissenso inserendoli nei meccanismi di Potere cui avrebbero voluto e dovuto frapporre la volontà loro e dei loro rappresentati. Tali strategie non possono essere condivise a priori con chi gestisce le forme del Potere, e vi partecipa da protagonista. Questo accade quasi sempre, perchè c’è sempre tra chi gestisce le leve del Potere l’ambizione di non cederle; e per poter raggiungere tale obiettivo ha bisogno di sguarnire le file di coloro che protestano in modo più o meno disorganizzato. In diverse occasioni ho potuto assistere a tali manovre di basso profilo ed è bene che ciò sia segnalato; spesso ci si vende per ottenere una collocazione di comodo. Anche per tali motivi la qualità di chi si occupa di Politica o di gestione del Sociale non è sempre di buon livello.

Nel prossimo post mi interesserò di quelle che sono le ragioni delle proteste studentesche di questi giorni.

un recupero per una nuova riproposizione

STORYTELLING (digital) e METANARRAZIONE – proseguendo il lavoro in TRAMEDIQUARTIERE


Scrivevamo l’altro giorno: “Stamattina piove. Le prime gocce tamburellando sulle tettoie mi hanno svegliato: che ore sono? Dieci alle sette; tra qualche minuto anche il telefono sussulterà, vibrerà e poi suonerà. Decido di staccare la “sveglia”, non ne ho più bisogno e non voglio disturbare gli altri che continuano tranquillamente a dormire; mi alzo e vado in cucina a prepararmi il solito caffè. C’è meno luce del solito. Eppure siamo già al 15 di maggio. Con la tazzina di caffè fumante vado davanti all’ampia vetrage del salone attraverso la quale osservo la vasta pianura che va verso il mare, al di là delle colline pistoiesi che nascondono la piana di Montecatini e tutto il resto verso occidente. Le nuvole sono basse e continua a piovere. Ieri mattina a quest’ora la luce era così intensa e sono riuscito a fare una serie di buone riprese ed ottime foto.
Meno male, mi dico e continuo a dirlo mentre accedo al balcone esterno che guarda verso il Montalbano e si affaccia sul giardino e sulla vecchia Pieve. Sul balcone i fiori di cactus che ieri mattina erano aperti e turgidi si sono afflosciati, altri ne stanno nascendo e quando saranno pronti, come sempre faccio, li fotograferò. I colori della natura tendono in prevalenza al grigio, grigio-verdi, e la pioggia copre con il suo cadere a tratti i suoni ed i rumori della vita della gente che va a lavorare: è ancora presto per il “traffico” scolastico che tra poco si materializzerà. E continuo a pensare tra me e me: “Meno male che ieri mattina sono riuscito a fare le foto e le riprese di cui oggi avrò bisogno. Stamattina sarebbero state così cupe!”.
Da martedì insieme a pochi altri seguo un corso intensivo di soli quattro giorni: lavoriamo su “temi e storia” di questo territorio. Siamo a Prato. Quartiere San Paolo, periferia Ovest della città post-industriale. E’ piacevole ed interessante, forse anche utile. Siamo soltanto in sei suddivisi equamente quanto a genere ed età anagrafica. Il primo appuntamento è in una delle scuole della città appena alla periferia del nostro territorio. Mi sono presentato come uno scolaretto per l’appello del primo giorno. Molte le facce a me già note: in definitiva ad occuparci di Cultura ci si conosce. Sento subito che ci divertiremo, insieme. Handicap assoluto è la mia profonda impreparazione linguistica con l’inglese. La docente anche se in possesso di un curriculum internazionale di primissimo livello dal suo canto non capisce un’acca della nostra lingua: e questo mi consola ma non giustifica entrambi. C’è grande attenzione in tutti ma il più indisciplinato è colui che dovrebbe , per età soprattutto e per la professione che ha svolto, essere da esempio, cioè io. Mi distraggo, chiacchiero, insomma disturbo come un giovane allievo disabituato alla disciplina. L’americana mi guarda con severità e con quel solo sguardo impone il silenzio. Ciascuno viene chiamato poi a confessare in una sorta di autoanalisi, della quale non parlerò, le origini del proprio nome e della propria storia familiare. Io scherzo sul significato del mio cognome che richiama atmosfere donchisciottesche e sulle attività “carpentieristiche e marinare” di mio nonno paterno.

L’americana detta poi compiti e tempi. A ciascuno la sua storia. Non ne parlerò per rispettare la consegna del “silenzio” anche se qualche indicazione emergerà dal “racconto”. Discutiamo, scambiandoci idee ed opinioni, poi scriviamo. Amo la sintesi: lo so che voi (che leggete) non lo direste, che non siete d’accordo. Molti dicono che sono un “grafomane”. Ma io, in effetti, scrivo molto ma poi taglio: scorcio e taglio.

E così andiamo avanti fino ad ora di pranzo: non tutti però sono pronti e quindi si ripartirà  più tardi per il confronto finale, dopo pranzo.

La scrittura deve essere sintetica (e dagli con questa “sintesi”!) e sincopata per poter poi più agevolmente trasformarsi in uno story board dove le parole e le immagini si mescolino. Mentre le parole sono lì già pronte sul foglio di carta la docente ci invita a reperire quante più immagini possibili da poter collegare.

Dopo il pranzo infatti ciascuno di noi lavora per costituire il proprio esclusivo “database” da cui attingere poi foto e riprese in video da utilizzare.

Dalla prima scrittura a questo punto si passa ad una rielaborazione ad uso di traccia sonora parlata da ciascuno di noi. Dovremo essere noi a leggerla domattina, mercoledì 13 maggio, registrandola su una traccia audio che poi entrerà a far parte del nostro personale bottino.

Si ritorna a casa, però, con un compito da svolgere: cercare una musica da utilizzare, adattandola alle immagini. E’ una delle operazioni che mi coinvolgono a pieno;  il suono musicale deve appartenere alle immagini con il ritmo che acquistano nel mio pensiero; i movimenti delle persone e degli oggetti devono corrispondere nel miglior modo possibile alle note all’interno della loro composizione; devono viaggiare all’unisono come corpi in un amplesso erotico. Ne sono stato sempre convinto: ascoltare musica genera orgasmi mentali.

“La bellezza espressa da un artista non può risvegliarci un’emozione cinetica o una sensazione puramente fisica. Essa risveglia o dovrebbe risvegliare, produce o dovrebbe produrre, una stasi estetica, una pietà o un terrore ideali, una stasi protratta e finalmente dissolta da quello ch’io chiamo il ritmo della bellezza…..Il ritmo….è il primo rapporto estetico formale tra le varie parti di un tutto estetico oppure di un tutto estetico colle sue parti o con una sola oppure di una qualunque delle parti col tutto estetico al quale questa appartiene”

(da “Dedalus” di James Joyce trad.ne di Cesare Pavese, Frassinelli editore pag. 251)

da San Paolo di Prato un recupero dal 2015 NIENTE E’ COME SEMBRA – cronaca di un sopralluogo per TRAMEDIQUARTIERE – una metanarrazione

PER CHI LO AVESSE PERSO O PER CHI E’ PIGRO E NON VUOLE AFFATICARSI A RICERCARE LE TRE PARTI DEL RACCONTO DA ME PUBBLICATO SU QUESTO BLOG eccolo per intero

NIENTE E’ COME SEMBRA – cronaca di un sopralluogo per TRAMEDIQUARTIERE – Prato 19 gennaio 2015 – una metanarrazione

19 – 20 gennaio – “un po’ per celia, un po’ per non morire”


Quella parte della macchina fotografica che inquadra il soggetto – o l’oggetto? – che decidi di riprendere collocandolo in un suo attimo eterno di fissità assoluta non poteva essere chiamato in maniera così distante dalla sua concreta essenza. L’ “obiettivo” è infatti ciò che più lontano non può essere rispetto alla reale “obiettività”. Tutto è fuorché “obiettivo”!
E, pur volendo rappresentare la realtà, la verità, non può che rappresentarne, sulla linea infinita del tempo, una minima minuscola infinitesimale parte di esso.
La dimostrazione pratica di quel che si scrive è data dalla impossibilità di fornire un’unica spiegazione logica “obiettiva” di qualsiasi fotografia.
Ecco, dunque, quel che accade quando ci troviamo, come persone comuni, di fronte agli oggetti che vogliamo fotografare: anche l’attimo che scegliamo e che riusciamo ad ingabbiare, che impropriamente chiamiamo “istantanea”, è inevitabilmente successivo a quello che avremmo voluto fermare. In questo caso l’obiettività ricercata sfugge a noi stessi che la intendevamo invece accogliere come unico ed essenziale punto di vista.

I ragazzi hanno percorso le strade di San Paolo. I ragazzi – ma sono soprattutto ragazze – che seguono il Progetto delle Trame li abbiamo indirizzati ed accompagnati ed hanno così potuto interrogare le varie realtà del quartiere con i loro strumenti, a partire da quelli fisiologici, gli occhi e le menti. Tutto è, dunque, relativo: al momento, alla persona che inquadra ed a ciò che viene inquadrato. Il momento della giornata, delle stagioni e del clima diverso, della luce che cambia. Ed anche le contingenze storiche e sociali di una minima realtà condizionano sia i risultati che le loro interpretazioni in modo emotivo. Diversamente.
Dal Circolo di via Cilea partiamo e chissà perché mi vengono in mente Pirandello ed Imperiali, in particolar modo quella storia “pirandelliana” che quest’ultimo narra ne “La fontana del Comune”. Sarà un presagio? Sarà un presagio!
Un gruppo va verso il “pallaio”, luogo di incontro soprattutto di anziani ( ma i giovani non mancano anche se sono una eccezione)che giocano o solo osservano giocare a bocce e mentre trascorrono il loro tempo al coperto ed al riparo dalle intemperie discorrono sulle malefatte dei Governi e su qualche maldicenza locale.
Accompagno Valeria alla CONADDE mentre Gino e Siria con gli altri, una parte se ne è già andata subito dopo pranzo, va verso l’area Baldassini. C’è un grande giardino attrezzato ed una quinta di archeologia industriale di esaltante bellezza, tanto è che l’urbanista, lo storico ed il costruttore difficilmente condividerebbero un unico pensiero.
Con Valeria corriamo, le chiedo se il mio passo sia troppo rapido per lei: lo faccio anche per marcare il mio segreto desiderio di non essere considerato quel che oggettivamente sono, un anziano troppo spesso rammollito e pantofolaio. Parliamo; in verità parlo soprattutto io per tutto il tempo, chissà che non annoi come fanno con me alcuni. Ma siamo veloci a ritornare dopo pochi minuti. E ci ricongiungiamo al gruppo, dopo aver scartato , solo in parte, l’incontro con uno strano tipo che, chissà perché, aveva sbagliato il tempo di un appuntamento con Saverio, il nostro coordinatore di Circolo Piddì, e mi tampinava. Bye Bye, gli dico, e fatti rivedere un altro giorno. Mi sento un verme, ma non sono in grado di essere migliore se mi si limita.

……Gli altri sono già agli “orti sociali”, una bella realtà, non c’è che dire: e di spazi così, abbandonati e ricettacolo di sterpi, rettili e qualche oggetto di arredamento fuori posto ma ancora degno di essere esposto in qualche “mercatino dell’usato” o in qualche “installazione di arte contemporanea”, ve ne sono altri qui in giro. Spazi che potrebbero essere utilizzati proprio come “orti sociali” destinati ad anziani, a famiglie, a bambini. I giovani del workshop si sbizzarriscono nel chiedere e nell’impostare inquadrature di uomini e natura. E qualcuno vi si perde e smarrisce. E il gruppo lo perde, proseguendo il suo viaggio pomeridiano tra strade, giardini privati, spazi verdi ordinati e spazi grigio-verdi disordinati e polverosi, antiche fabbriche dagli eleganti sontuosi aristocratici contorni architettonici che emanano sensazioni vetuste ma ancora caratterizzate da una certa nobiltà: quante operaie ed operai vi hanno agito? Quali tragedie quante e quali sofferenze e quante e quali festose ricorrenze hanno vissuto? Dentro esse abita la Storia di questa città e ne respira ora solo un lontano sentore colei o colui che vi transita riconoscendone i profondi valori storici che da lì promanano. Ora esse, pur rimanendo ancora erette con grande signorile apparente dignità, rischiano di essere destinate dall’incuria dei contemporanei ad essere abbandonate al degrado. Qualche espressione da “terzo paesaggio” attira le attenzioni dei giovani fotografi ed in particolare una struttura muraria che divideva gli spazi fra San Paolo e quello che era al di là di San Paolo, che poi solo di recente è stato identificato da Bernardo Secchi come “Macrolotto Zero”, mostra ad ogni modo di possedere una sua peculiare storica distinzione. Fra un’area coltivata ed uno spazio dove il disordine regna indisturbato si giunge al grande Giardino di via Colombo, luogo di incontro e raduno dal mattino alla sera della pacifica e disciplinata comunità cinese – con orari scanditi da ordinanza sindacale dopo le vibranti assurde proteste di un cittadino che lamentava la confusione ingenerata dagli strumenti che accompagnano la pratica del Tai-chi. Altre etnie – Prato ne è piena e ne conta più di cento – frequentano questo luogo. Ci sono anche gli italiani, ma provate per credere e venite pure a vedere, i cinesi – ebbene sì – sono la maggioranza. E ce ne sono davvero tanti, cosicché Valeria si appresta a rubare istantanee con le quali intende dimostrare ( e ce lo dirà solo dopo ) che è pur sempre un lunedì pomeriggio e c’è ancora luce e dunque non può essere del tutto vero che i cinesi lavorino soltanto, che lavorino tanto come si dice così spesso. Racconto a chi mi sta vicino l’esperienza di Emma Grosbois, una giovane fotografa che installa provocazioni artistiche e narro del comportamento dei cinesi, la loro compostezza, la ritrosia, la timidezza su cui però poi, quando Emma aveva completato l’installazione e se ne allontanava, prendeva corpo e forza la curiosità. Andiamo oltre e Valeria si diverte a fotografare i panni stesi dentro e fuori i terrazzini delle abitazioni cinesi lungo il nostro percorso. Li ricerca con curiosità: utilizzano gli “stand” industriali non potendo, per limiti regolamentari dei condomini, esporli all’esterno alla maniera delle famiglie mediterranee; ma non tutti in effetti sono rispettosi e Valeria di questo non può che essere contenta: riprenderà questi tessuti colorati che creano una sarabanda cromatica di straordinaria bellezza.

Lungo il tratto – via Puccini via Respighi via Rota, tutti grandi musicisti – che porta verso via Pistoiese, si incrociano etnie orientali islamiche, donne velate e bardate da drappeggi variopinti di gran buongusto. Anche io fotografo qualche scorcio e privilegio la figura umana e la documentazione del lavoro dei nostri giovani. Inquadro infatti la realtà in movimento e per questo temo sempre che vi sia qualcuno che possa non gradire queste mie intromissioni. Ecco infatti che da un auto ferma c’è qualcuno dall’interno, che a me sembra proprio un cinese, che mi apostrofa – lo vedo agitare la mano – e suona per tre volte anche se non in modo imperativo il clacson: faccio finta di nulla, potrei non essere io il destinatario, anche se sembra proprio il contrario, di tale protesta; ma il tizio insiste ed un signore dai tratti occidentali che gli è accanto all’esterno mi fa segno di avvicinarmi. Diamine, che vorrà da me, ora; e temo per la mia incolumità. Ma no! E’ un amico che ha voglia semplicemente di scherzare, dal momento che mi vede in mezzo a tanta bella giovane compagnia. Lo saluto con cordialità, rinfrancato. Una parte della bella compagnia se ne va verso la Stazione di Porta al Serraglio. Rimaniamo in cinque e ci inoltriamo nel cuore di quella che chiamano “Chinatown” un guazzabuglio di corpi e linguaggi in luoghi pittoreschi ma maleodoranti. Procediamo in questi ambienti e ne cogliamo alcuni aspetti conservandoli nei nostri “aggeggi” elettronici: ristoranti, pescherie, ortofrutta, supermercati caotici, sale giochi e per la strada avventori, passanti casuali, garzoni di bottega, signori ben vestiti con valigette e computer accesi ed operanti si mescolano in ambienti degradati. In una di queste strade, leggermente più riservata, accanto ad un’officina meccanica chiaramente italiana ( in questo settore i cinesi non si sono mai inseriti) c’è una chiesa cristiana rivolta ad ospitare parte della comunità cinese (è in un capannone industriale ) e di fronte ad essa si nota un asilo nido anche questo in tutta evidenza – oltre che per le insegne esterne bilinguistiche dalle decorazioni interne – al servizio delle famiglie cinesi, che attualmente sono le più prolifiche.
Si va facendo sera e così si ritorna verso il Circolo. Attraversiamo di nuovo via Pistoiese e per via Umberto Giordano (ritorniamo ai musicisti!) costeggiamo le mura ben mantenute della vecchia fabbrica Forti. Ne ammiriamo alcune parti soprattutto gli spazi antistanti via Colombo che ne evidenziano l’abbandono. La luce sta venendo meno ed è sempre più difficile fotografare; ci limitiamo a documentare ed infatti riprendo alcuni atti del gruppo residuo sulla “rotonda” di via Giordano/ via Colombo con la cornice bassa delle fabbriche abbandonate. E poi in un’istantanea Siria è con Valeria ed in fondo lungo la recinzione Gino leggermente voltato indietro verso un auto della Polizia Municipale “apparentemente” ferma allo Stop.
Diciamoci la verità: quell’auto si era messa in posa per essere fotografata! La foto “istantanea” casuale scattata senza una vera e propria volontà non avrebbe alcun significato. E non avrei potuto scattarne altre per documentare i fatti per non aggravare la situazione del “povero” Gino, malcapitato. L’auto era ferma, proprio, non apparentemente, ferma, ben piantata sullo Stop. Così come fermo era Gino, impietrito e stupito.
Cosa era accaduto? Fa parte della relativizzazione di cui accennavo soprattutto nell’avvio. Ciò che si vede può essere realtà ma anche impressione, suggestione. Questo lo sapevo, ma vaglielo a spiegare ai due solerti vigili urbani.
Lo dico sempre a mia moglie quando la sento imprecare contro quel tizio che ha parcheggiato malissimo ed ha occupato parte del posto nel quale lei dovrebbe parcheggiare. Ma cosa succede al ritorno? La macchina dell’autista che le ha maledetto è andata via ed ora è inevitabile che sia proprio la sua, quella di mia moglie, ad essere parcheggiata “da bestia”. Apparenza ma anche parte di realtà! Anche ai due vigili urbani era parso che il nostro Gino avesse divelto quel reticolato rugginoso ed incerto che si sbriciolava a pezzi solo a toccarlo: il nostro amico a tanti tipi può somigliare ma non di certo all’incredibile Hulk. Oppure sì? È forse un altro esempio di “relativizzazione” della realtà? Siamo di nuovo a chiederci se sia o meno “reale” quel che vediamo, quel che percepiamo. O soltanto ci illudiamo? Forse sì, la vita davvero è un sogno, bello a volte brutto in altre, ma pur sempre un sogno.

G.M.