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8 novembre – “Non posso più credere alla rivoluzione, ma non posso non stare dalla parte dei giovani che si battono per essa.” parte 1

8 novembre – “Non posso più credere alla rivoluzione, ma non posso non stare dalla parte dei giovani che si battono per essa.” parte 1

Un preambolo (apparentemente) fuorviante La nostra vita, quella delle persone semplici che non avranno gli “onori” della memoria storica, quella riservata a donne e uomini che sono riuscite/i a segnare fondamentali tappe nelle varie sezioni (Scrittura, Politica, Storia, Scienze), tali da dover avere una collocazione privilegiata, potrebbe essere del tutto inutile. A meno che non si abbia avuto una funzione di tipo perlomeno “accessoria” nella ristretta cerchia dei rapporti umani.

Le masse Milioni e milioni di persone lasceranno la loro esistenza più o meno nell’anonimato. Una parte di queste presumerà di poter avere un ruolo, una funzione per il cambiamento. Ne saranno convinti attraverso l’opera di pochi promotori, di certo più scaltri e avveduti, che parleranno di “rivoluzione” puntando sui bisogni primari delle masse e sulla ricerca di un minimo livello di dignità da parte loro. Saranno “masse” manovrate ad uso di pochi, come è accaduto – e accade – nelle operazioni belliche. Ben che vada, qualcuno di loro verrà ricordato per qualche gesto di eroismo. Ma non è solo la guerra e le grandi potenze ad utilizzare le masse. In misura minore, è comunque quel che accade nelle nostre pacifiche comunità locali, dove gli “emergenti” e gli “emersi” hanno bisogno di avere manodopera inintelligente, disponibile a poco prezzo per la diffusione di un pensiero critico che crei consenso.

Questo non accade soltanto in una “parte” politica, e non accade solo in “Politica”. Funziona allo stesso modo nel mondo del lavoro, in senso generale; di più nelle strutture industriali, pubbliche o private; meno significativi sono i condizionamenti perversi negli ambienti artigianali.

La Rivoluzione è un falso mito da proporre Si rileva ancor più in quei movimenti estremistici velleitari la volontà da parte dei leader di far credere che sia possibile cambiare radicalmente le posizioni sociali; è un falso mito addirittura il presupporre che vi sia la possibilità di un cambiamento parziale, seppure lento e progressivo. Ogni popolo ha costituito una forma antropologica che non potrà essere posta in discussione in tempi umanamente percepibili. E’ dunque del tutto fuorviante parlare di “Rivoluzione” anche da parte di coloro che si ostinano a contrapporsi orgogliosamente a qualsiasi forma di compromesso, finendo a mantenersi “integri” ma all’interno di recinti ben distinti.

Nei giorni scorsi, trattando di un “triste” anniversario, mi è capitato di leggere alcune frasi che mi hanno colpito. Pasolini commentando per “Le Monde” la sua opera “Trasumanar e organizzar” aveva detto “Non posso più credere alla rivoluzione, ma non posso non stare dalla parte dei giovani che si battono per essa. È già un’illusione scrivere poesia, eppure continuo a scriverne, pure se la poesia non è più per me quel meraviglioso mito classico che la esaltato la mia adolescenza…Non credo più nella dialettica e nella contraddizione, ma alle pure opposizioni…Tuttavia sono sempre più affascinato da quell’alleanza esemplare che si compie nei grandi santi, come san Paolo, tra vita attiva e vita contemplativa”.

Ecco, Pier Paolo Pasolini lo diceva nel 1971, più di cinquanta anni fa, e aveva poco meno di cinquanta anni; ma aveva vissuto in un tempo nel quale, sia lui che moltissimi dei suoi contemporanei avevano percorso tappe inimmaginabili solo mezzo secolo prima. Per comprendere meglio, quel che, con grande difficoltà sto cercando di esprimere, vale la pena ascoltare la voce di quel “grande” a proposito dello “sviluppo” e del “progresso”. I tempi non sono cambiati: non sono di certo cambiati in meglio.

…1….

6 novembre – IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI – parte 16

IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI – Parte 16

Una mia nota: Voglio ancora una volta ricordare che vado riportando il dibattito che si svolse il 27 aprile del 2006 così come riportato dai trascrittori che sbobinarono le registrazioni. Ecco quindi perché a volte ci sono degli errori o comunque delle incertezze.

In qualche modo Pasolini in ogni sua opera chiama in causa il lettore o lo spettatore chiedendo a questo lettore o a questo spettatore di portare lui a compimento l’opera che Pasolini in un certo senso gli consegna incompiuta, dove compimento significa due cose: compimento estetico ora dirò in che senso e compimento pratico. Cioè mettere in pratica questa opera.

In che senso compimento estetico? Perché spero che l’altro senso sia più chiaro. Compimento estetico nel senso che soprattutto l’ultimo Pasolini, diciamo il Pasolini dalla metà degli anni sessanta in poi, quindi il Pasolini di “Alì dagli occhi azzurri” poesie in forma di rosa, da lì in avanti, tende realmente a consegnare i testi non finiti al pubblico, dove non finiti significa costitutivamente non finiti. “Alì dagli occhi azzurri” è presentato da Pasolini stesso come un libro nel quale viene stipato del materiale eterogeneo di racconti che partono come racconti da farsi e finiscono come racconti non (parola non comprensibile).

“Petrolio” è tutto costruito in questo modo. “La divina mimesis” è un testo che addirittura Pasolini licenzia delle stampe fingendolo, e poi di fatto lo è, non compiuto. Un testo addirittura ritrovato. Ed è un testo ritrovato Perché “La divina mimesis” risale addirittura a prima della metà degli anni sessanta, vecchio progetto che si intitolava (parola non comprensibile).

Dunque, dicevo non finito anche addirittura in senso estetico per cui al pubblico spetta la voglia di mettersi quasi idealmente accanto l’autore e nella propria testa portare a compimento un’opera che in qualche modo compiuta non è. Però, appunto Perché descrivevo prima il rapporto tra Pasolini e i suoi lettori e i suoi spettatori come un rapporto politico, tutto ciò che Pasolini vuole evitare è un rapporto conflittuale con questo pubblico. E così torno alla ragione per cui ho qualche riserva sempre a parlare di classicismo a proposito di Pasolini. Se Pasolini vuole essere usato, e più o meno è quello che noi stiamo continuando a fare da trent’anni, e non ha nessuna preoccupazione di consegnare opere in questo senso irrisolte, è chiaro che il rapporto con i propri lettori è quasi costitutivamente un rapporto conflittuale, Perché essere usati non significa soltanto essere assecondati, molto spesso può significare e significa essere violentemente contestati. Cosa che Pasolini sa e che, come dire, prevede nel momento in cui costruisce e poi consegna la propria opera. Insomma il tipo di lettore ideale di Pasolini è un lettore che si cimenta in un corpo a corpo davvero conflittuale, davvero drammatico. Quindi un lettore che non abbocca passivamente a tutto ciò che Pasolini vuole fare da un lato e che però è disposto a scommettere sulla veridicità dei testi di Pasolini cioè a concepirli e a viverli come depositi non solo di bellezza, quella è secondaria, ma di verità. Questo è il concetto.

5 novembre – Pasolini – otto canzoni scritte per lui e…da lui

Nel ricordo di Pier Paolo Pasolini, oggi pubblico alcune canzoni dedicate a lui e….in qualche caso, scritte da lui.


I ragazzi giù nel campo
Non si curano del tempo
Ma si buttano dentro i fiumi
Per pescare la croce premio
I ragazzi giù nel campo
Dan la caccia ad un pazzo
Poi lo strozzano con le mani
E lo bruciano in riva al mare.
Vieni figlia della Luna
Della stella mattutina
Che regala a questi ragazzi
Le carezze del gran cielo!
I ragazzi giù nel campo
Dan la caccia ai borghesi
Tagliano a pezzi
A pezzi le teste
Dei nemici e dei fedeli
I ragazzi giù nel campo
Colgono rami e rosmarino
E camuffano buche e pozzi
Per acciuffare le ragazze
I ragazzi giù nel campo
Dan la caccia ad un ricco
Gli fan togliere i denti d’oro
E li portano al mercato.
Vieni figlia della Luna
Della stella mattutina
Che regala a questi ragazzi
Le carezze del gran cielo!
I ragazzi giù nel campo
Non possegono memoria
Perciò vendono gli antenati
Poi son presi da tristezza.

Oggi è Domenica, domani si muore

Oggi è Domenica,
domani si muore,
oggi mi vesto
di seta e d’amore.

Oggi è Domenica,
pei prati con freschi piedi
saltano i fanciulli
leggeri negli scarpetti.

Cantando al mio specchio,
cantando mi pettino.
Ride nel mio occhio
il Diavolo peccatore.

Suonate, mie campane,
cacciatelo indietro!
“Suoniamo, ma tu cosa guardi
cantando nei tuoi prati?”

Guardo il sole
di morte estati,
guardo la pioggia,
le foglie, i grilli.

Guardo il mio corpo
di quando ero fanciullo,
le tristi Domeniche,
il vivere perduto.

“Oggi ti vestono
la seta e l’amore,
oggi è Domenica,
domani si muore”.

Irata

Consorzio Suonatori Indipendenti

Incombere umorale degli affetti del sangue
Incombere umorale delle idee delle istanze
Insolente promessa sciocca, vacua, solenne
Di bastare a sé Non tornerò mai dov’ero già
Non tornerò mai a prima, mai
Non tornerò mai a prima, mai
Non tornerò mai dov’ero già Incombere umorale delle idee delle istanze
Incombere umorale degli affetti del sangue
Potessi dirti quello che nemmeno posso scriverti
Esiterei nel farlo Oggi è domenica, domani si muore
Oggi mi vesto di seta e candore
Oggi è domenica, domani si muore
Oggi mi vesto di rosso e d’amore Non tornerò mai dov’ero già
Non tornerò mai a prima, mai
Non tornerò mai a prima, mai
Non tornerò mai dov’ero già Oggi è domenica, domani si muore
Oggi mi vesto di seta e candore
Oggi è domenica, domani si muore
Oggi mi vesto di rosso e d’amore Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito
Per un’irata sensazione di peggioramento
Per un’irata sensazione di peggioramento
Di cui non so parlare né so fare domande
Di cui non so parlare né so fare domande Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito
Per un’irata sensazione di peggioramento
Per un’irata sensazione di peggioramento
Di cui non so parlare né so fare domande
Di cui non so parlare né so fare domande Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito
Per un’irata sensazione di peggioramento
Per un’irata sensazione di peggioramento
Di cui non so parlare né so fare domande
Di cui non so parlare né so fare domande Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito
Per un’irata sensazione di peggioramento
Per un’irata sensazione di peggioramento
Di cui non so parlare né so fare domande
Di cui non so parlare né so fare domande Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito
Per un’irata sensazione di peggioramento
Per un’irata sensazione di peggioramento
Di cui non so parlare né so fare domande
Di cui non so parlare né so fare domande Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito
Per un’irata sensazione di peggioramento

Una storia sbagliata

Fabrizio De André È una storia da dimenticare
È una storia da non raccontare
È una storia un po’ complicata
È una storia sbagliata
Cominciò con la luna sul posto
E finì con un fiume di inchiostro
È una storia un poco scontata
È una storia sbagliata Storia diversa per gente normale
Storia comune per gente speciale
Cos’altro vi serve da queste vite?
Ora che il cielo al centro le ha colpite
Ora che il cielo ai bordi le ha scolpite È una storia di periferia
È una storia da una botta e via
È una storia sconclusionata
Una storia sbagliata
Una spiaggia ai piedi del letto
Stazione Termini ai piedi del cuore
Una notte un po’ concitata
Una notte sbagliata Notte diversa per gente normale
Notte comune per gente speciale
Cos’altro ti serve da queste vite?
Ora che il cielo al centro le ha colpite
Ora che il cielo ai bordi le ha scolpite È una storia vestita di nero
È una storia da basso impero
È una storia mica male insabbiata
È una storia sbagliata
È una storia da carabinieri
È una storia per parrucchieri
È una storia un po’ sputtanata
O è una storia sbagliata Storia diversa per gente normale
Storia comune per gente speciale
Cos’altro ti serve da queste vite?
Ora che il cielo al centro le ha colpite
Ora che il cielo ai bordi le ha scolpite Per il segno che ci è rimasto
Non ripeterci quanto ti spiace
Non ci chiedere più com’è andata
Tanto lo sai che è una storia sbagliata
Tanto lo sai che è una storia sbagliata

A Pa’

Francesco De Gregori

Non mi ricordo se c’era luna
E né che occhi aveva il ragazzo
Ma mi ricordo quel sapore in gola
E l’odore del mare come uno schiaffo A Pà
A Pà E c’era Roma così lontana
E c’era Roma così vicina
E c’era quella luce che ti chiama
Come una stella mattutina A pà A pà Tutto passa, il resto va E voglio vivere come i gigli nei campi
E come gli uccelli nel cielo campare
E voglio vivere come i gigli nei campi
E sopra i gigli nei campi volare

L’alba dei tram

Remo AnzovinoMauro Ermanno Giovanardi Case e periferia
Fumo che non va via
Copre ogni voglia che ho
Di rialzarmi e andar giù Facce in attesa di un tram
Lunghe
Quanto la notte che ormai
Non c’è più Son donne appese a finestre
Le ombre che guardano in su
L’alba è qui già da un po’ Ma dove sei tu?
Là dove si sta
Li-, liberi di non aver paura
Di dir la verità
Di vivere la vita E tra queste strade bianche
Un uomo, con parole stanche
Ammira, come fosse d’oro
Quest’alba che sa di nuovo Là dove si sta
Li-, liberi di non aver paura
Di vivere la vita
Come si fa? Li. -liberi di non aver paura
Di dir la verità
Di far la verità Per vivere la vita Di dir la verità
Per vivere la vita

Bimba col pugno chiuso e lo sfondo della statua
Saluti alla tua mamma e saluti alla mia sposa
Mi aspetta la montagna e mi aspettano le veglie
Mi aspetta la mitraglia e mi aspettano le stelle

Nuovo Pignone, compagni uniti contro le catene

Hai visto la giulia bianca e hai visto a’ Pierpaolo
Quell’angelo del cazzo col bacio del diavolo
Che gira per Roma e gira per Roma
Sbagliando l’accento e sbagliando persona

Guarda bambina, c’è il mare mosso
Bandiera rossa, bandiera rossa, bandiera rossa

E per gli esseri umani col nome nel marmo
Io canto alla luna, alla luna

Guarda bambina, c’è il mare mosso
Bandiera rossa, bandiera rossa, bandiera rossa

Per gli esseri umani col cranio nel fango
Io canto alla luna, alla luna

Il centro di passaggio per le stelle più lontane
Il punto dell’appoggio per le tenebre più strane

Ci siamo tutti, ci siamo tutti, ci siamo tutti
Ai funerali di Togliatti
Ci siamo tutti, ci siamo tutti, ci siamo tutti
Ai funerali di Togliatti
Nuovo Pignone, compagni uniti vinceremo insieme

Piazza di San Giovanni, piazza di San Giovanni
Con le salsicce e coi cantanti
Piazza di San Giovanni, piazza di San Giovanni
C’è la tombola compagni

Guarda bambina, c’è il mare mosso
Bandiera rossa, bandiera rossa, bandiera rossa

La ruota gommata schiaccia e torce il corpo del poeta ucciso
Ruota gommata schiaccia e torce il corpo di Pierpaolo irriso
Danno il “Vangelo” in bianco e nero
In una sala parrocchiale di periferia

Guarda bambina, c’è il mare mosso
Bandiera rossa, bandiera rossa, bandiera rossa

Chissà se esiste nulla che Abbia più gran tedio di sé Di una piovosa domenica italiana. Se poi è già sera, ed è novembre Con il crepuscolo che scende Su questa guazza metropolitana, Più ancor rimpiango le veglie attorno ai fogolàr… All’oste l’ho dovuto dire: “Sei ancora in tempo per fuggire”, E lui temeva che fosse per la cena! Di Vecchia Italia onesta scorza, Anch’egli ignora la sua forza E quel suo affetto mi dà una dolce pena. Ma il vino suo denso sa sempre scaldarmi il cuore… Testimoniare verità: Null’altro resta ormai da dire, Vorrei il coraggio di una fede, O emanciparmi da viltà, Dalla paura di morire Come sa solo far chi crede. Ma sotto un disperato cielo Ciò che mi spinge adesso a uscire Sà ancora d’empietà, e spero Avrò nuove cristianità Dal clandestino mio Dies Irae, Perché anche lì vi è Pietà e Amore… Mi è caro il gergo popolare, Il puerile senso dell’onore, La sua allegrezza, la tragica incuranza. Vi è ancora un senso, una passione, Vi sopravvive una nazione Con residuale, sfrontata appartenenza. Non so per quanto, ma meglio di voi, di me… Forse a guardare troppo in là Mi ritrovai gli occhi feriti, E un balsamo vorrei, o un figlio. O un’innocenza che berrei Come tra giovani banditi Belli e cari agli Dei. E prego Mi si traghetti oltre la notte Lungo i canali delle vie, Fino alla quiete che Concede lo stolto tempo che gli Dei Li ha trasformati in malattie, Febbri dei giorni miei… Hai già cenato? Perché mi dai del Lei? Che famo, annamo?”

Certo hai vissuto una vita di ombre e di luce, alla scialba cultura del tempo facevi paura, ma tu, uomo sensibile e lucido amavi parlare e provocare reazioni alla gente comune. Al lido di ostia quel giorno c’era un bambino, che giocava a pallone incurante della situazione, e curiosi, esperti, fotografi, gente morbosa, a casa tua madre era in ansia che ti aspettava. Cinquantanni in quell’agile corpo dal fare bambino, una pietra preziosa cresciuta in un borgo piovoso, di un poeta, di un uomo, di un sogno, della verità, che ne sarà, che ne sarà che ne sarà. Cosa hai visto nell’ultimo istante della tua vita, la pellicola di una stagione per sempre finita, il chiacchiericcio di gente borghese che avrebbe archiviato in un comodo affare di sesso quel tuo segreto. C’è stata gente che poi ha vissuto una vita normale, dopo la notte in cui ti hanno fatto scoppiare il cuore, forse il mandante qualcuno lo sa e non cerca pietà, della verità che ne sarà…

reloaded “LA SFIDA” un ricordo del novembre 1966

tempesta


reloaded “LA SFIDA” un ricordo del novembre 1966

La sfida
Quante partite nello scalo merci delle ferrovie avevano giocato; al pomeriggio prima di mettersi a studiare si ritrovavano nel piazzale all’ingresso della Stazione della Metropolitana di Pozzuoli; si contavano e quando il numero lo permetteva si andava a giocare. Intanto con il pallone di cuoio quello regolamentare si palleggiava sulla strada. Allora le auto circolanti non erano molte e quando arrivavano si chiedeva agli automobilisti di parcheggiare più in là. La porta, virtuale, era nel muraglione della villa signorile che affacciava sulla piazza: si sistemavano degli oggetti reperiti casualmente (a volte erano i nostri giubbini arravugliati, altre volte dei mattoni di tufo) per delimitare lo spazio orizzontale della “porta”; per l’altezza si andava “ad occhio” ma, ad ogni modo, quando il numero dei convenuti era consistente si spostavano all’interno dello Scalo.
A volte, considerando questa pratica un allenamento, affittavano un campo di calcio con il contributo di tutti e si sfidavano fra di loro oppure sfidavano altri gruppi come il loro, mettendo in palio “pizza e birra”.
Era la fine di un mese di ottobre ancora caldo; molti già discutevano su come il clima fosse cambiato. Era il 1966.
Alberto spesso si recava nell’isola; di solito vi trascorreva la bella stagione ma anche qualche fine settimana. Là poteva respirare aria buona, godere della libertà dai vincoli, a volte apprensivi, della famiglia. Aveva un gruppo di amici con i quali condivideva alcune passioni, teatro e musica. Aveva costruito anche qualche timida relazione, ma niente di importante e di fisso, con una ragazza del luogo, amicizia e nulla di più per accordo reciproco. Seguiva – da tifoso – una delle squadre di calcio locali, dove giocavano altri amici ed amici dei suoi amici. Ed una sera, una domenica di metà settembre, raccontò loro del gruppo di amici della Metropolitana, elogiandone le qualità tecniche, quasi a sottolineare la loro possibile superiorità: quasi! Ma agli “isolani” sembrò certa la provocazione di Alberto nei loro confronti. Ed il guanto della sfida fu gettato.
A quei tempi nel gruppo della Stazione tutti erano studenti, molti al Liceo Classico, una parte all’Istituto Tecnico e, tranne un paio di loro che erano già all’Università, frequentavano l’ultima o la penultima classe del corso di studi superiori. L’occasione buona sarebbe stata quella delle vacanze dei Santi e dei Morti che, con il 4 novembre, Festa dedicata all’Armistizio di Villa Giusti che nel 1918 concluse la prima guerra mondiale, e con la concessione di un “ponte” il sabato 5 componeva un utile filotto. E così si strinse un patto fra Alberto e gli “isolani” per una sfida ufficiale nel primo pomeriggio del giovedì 3 novembre.
La banchina, quella mattina, era sgombra; la notte il vento era stato così forte da aver provocato la caduta di alcuni cartelloni pubblicitari lungo il viale di accesso al porto…ma il cielo era sgombro di nubi, quella mattina. Non faceva molto freddo. Il mare nel porto di Pozzuoli, protetto dal lungo molo caligoliano alla fine del quale vi era un faro abitabile, piccolo ma ugualmente maestoso, appariva calmo. Alberto con i suoi amici si avviarono, dopo aver acquistato i biglietti di imbarco ed aver controllato anche gli orari per il ritorno, verso quella che ancora allora chiamavano la “Cumana”, in ricordo del fatto che già dall’Ottocento e poi fino a metà Novecento il collegamento fra Procida e la terraferma si svolgeva prevalentemente da Torregaveta, “terminal” della Ferrovia per l’appunto detta “Cumana”. Dopo il controllo dei biglietti, salirono a bordo. Al di là del personale non vi erano molti altri passeggeri.
Alle 9.45, in perfetto orario, la nave si staccò dalla banchina. Il viaggio durava all’incirca 45 minuti; dopo essere uscita dal porto di Pozzuoli girava a sinistra e proseguiva mantenendo sulla destra la riva di Baia e di Bacoli fino a doppiare il Capo Miseno dove, virando a destra e mantenendosi a distanza dalla costa di Miliscola e del Monte di Procida, avrebbe puntato verso l’Isola di Procida.
Un percorso semplice semplice, ma quel giorno non fu così.
Non appena usciti dal porto, superato il Faro, ci si accorse che il mare non era più così tranquillo come sembrava. La nave, una delle più grandi fra quelle che circolavano su quella linea, cominciò a beccheggiare di fronte ad onde larghe ed enormi che la colpivano lateralmente. Il capitano decise di spostare la prua in direzione delle onde per poterle affrontare; il rollio commisto al beccheggio creava una combinazione maligna che in un primo tempo, ricordando alcune delle attrazioni dei Luna Park, appariva piacevole ai giovani passeggeri che scherzavano fra loro mimando gli ubriachi lasciandosi andare da una parte all’altra del ponte godendosela e ridacchiando. La nave si allargò dal Capo Miseno e si inserì verso il canale di Procida affrontando onde altissime che la portavano nella parte più bassa del ventre impedendo ai passeggeri di vedere la terra e poi la sollevavano sulle loro creste per farle ridiscendere vertiginosamente.
I giovani amici di Alberto cominciarono a spaventarsi e più di uno di loro dovette liberarsi della colazione; lo stesso Alberto era confuso e fortemente preoccupato per i suoi compagni, e qualcuno si spinse anche ad offenderlo. Il mare si calmò soltanto all’ingresso del porticciolo di Procida protetto dalla scogliera. Il gruppo, un po’ malconcio, raccattò le sue borse, dove erano state riposte le tute, le magliette ed i pantaloncini della squadra, e si preparò a scendere dalla scaletta che era stata calata sulla banchina di Procida. Si era di fronte all’imponente palazzo Merlato del ‘600 e ad una serie di abitazioni dal vario colore mediterraneo, ma la traversata aveva messo ciascuno di cattivo umore e poi tutti erano arrivati a Procida in tempi migliori. Alberto aveva lanciato già lo sguardo dall’alto della nave per cercare qualcuno dei suoi “isolani” e non ne aveva visto alcuno. Si era fermato in uno dei bar della Marina Grande ed aveva, utilizzando un gettone, telefonato a casa di Valerio, l’allenatore della squadra locale. Rispose sorprendendosi del fatto che loro fossero arrivati; chi vive circondato dal mare conosce i suoi segreti e le previsioni non erano positive: il mare andava ancor più ad agitarsi ed il rischio dell’interruzione del servizio marittimo nelle ore successive era molto elevato. Ma, visto che c’erano, disse che poiché avevano confermato il loro allenamento pomeridiano, non ci sarebbe stato alcun problema per la “sfida”, a patto però che si evitasse il gioco duro.
Si fermarono tutti a Marina Grande rifocillandosi con tè caldo al Bar del Porto; e poi si avviarono verso il piccolo autobus che era arrivato, essendo stato avvisato da Valerio. Il biglietto lo si faceva direttamente a bordo e l’autista sapeva anche dove lasciarli scendere poco prima di giungere al capolinea che era la Marina Chiaiolella. Riconobbe Alberto ed anche lui, l’autista, che si chiamava Gennaro, lo rimproverò di non aver consultato le previsioni marittime; sarebbe bastata una telefonata alla Capitaneria del Porto, anche quella di Pozzuoli. Alberto allargò le braccia per giustificarsi così come poteva e chiese a Gennaro di indicargli una trattoria alla buona per il pranzo. Erano soltanto le 11; potevano mangiare un primo ed un po’ di frutta prima di andare a giocare. L’appuntamento per la “sfida” era alle 14.30 per avviare alle 15.00 e chiudere entro le 17.00 per poter poi ripartire per Pozzuoli alle 18.00.
Decisero dunque di arrivare giù alla Chiaiolella e di fermarsi in una delle trattorie dove di solito facevano da mangiare agli operai edili che venivano dalla terraferma. In quei giorni non erano arrivati non solo per il maltempo ma soprattutto per le ricorrenze, per cui i gestori furono ben contenti di avere una dozzina di clienti inattesi e si prodigarono per accontentarli. Alberto li conosceva ma non bene come quelli della Corricella e di Marina Grande; si presentò e presentò i suoi amici spiegando il motivo per il quale si trovavano quel giorno a Procida.
Insieme ascoltarono alla radio le previsioni meteo e seppero che in gran parte dell’Italia del Centro Nord aveva continuato a piovere mentre al Sud non erano previste perturbazioni pericolose: si rasserenarono convinti anche del fatto che, pur se il vento continuava ad essere intenso, non facesse freddo ed il cielo era pressoché sgombro di nubi. Tanto che, alla fine del pranzo, dopo il caffè si spostarono verso la spiaggia e si sedettero sulla sabbia al sole che era abbastanza caldo.
Fino alle 14 vi rimasero; poi a piedi si avviarono salendo verso il Campo sportivo. Lungo la strada Giovanni, il capitano della squadra, impartì alcune indicazioni sui ruoli da ricoprire: Luciano avrebbe fatto il portiere, come al solito; Alfredo e Gino avrebbero supportato la linea di difesa mentre al centro di questa vi sarebbe stato lui stesso; nel centrocampo avrebbero operato Mattia e Peppino; la linea di attacco con capacità e potenzialità di rientro sarebbe stata composta da Alberto, Nicola, Fulvio come centravanti, Saverio e Renato. Di certo non avrebbero avuto alcuna possibilità di sostituzioni; ma nelle “amichevoli” spesso accadeva così. Alberto faceva da segretario a tutta la compagnia e prese appunti diligentemente.
Arrivarono con qualche decina di minuti di anticipo rispetto alla squadra locale; così si spogliarono, indossarono magliette – con i numeri canonici – e pantaloncini e poi cominciarono a fare riscaldamento. C’era intanto un pubblico occasionale sorpreso di vedere tante facce nuove. Arrivarono i “locali” per la sfida mentre Alberto e gli altri stavano provando dei palleggiamenti. Valerio fece le presentazioni di Alberto e quest’ultimo presentò i suoi amici. Alle 15, forse poco dopo le 15, scelto come arbitro un ragazzo che si era proposto, cominciarono a giocare; decisero di fare due tempi di 35 minuti con un breve intervallo di 10, in modo da poter finire per le 16.30 e ripartire, anche perché Valerio paventava il rischio che sul far della sera il mare sarebbe diventato più agitato e non vi sarebbe stata possibilità alcuna di partire; il vaporetto che li aveva portati la mattina ritornava da Ischia e sarebbe partito alle 17.30 ed era il mezzo più sicuro rispetto alle altre imbarcazioni meno solide.
La partita si mantenne su un piano di gioco aperto ma molto corretto così come era stato previsto dai patti; e nessuno si lamentò del risultato che fu un pareggio per 2 a 2. Finita, si rivestirono tutti, bevvero del tè caldo che era stato portato dai “locali” all’interno di thermos e non appena ritornò il pulmino si salutarono e, così come erano arrivati la mattina, ridiscesero alla Marina Grande.
Il mare era abbastanza tranquillo nel porto, anche se con l’approssimarsi del tramonto il vento aveva ripreso a tirare ed a dire il vero non era freddo. Il gruppo di Alberto, tutti soddisfatti per l’esperienza vissuta, arrivò a Marina Grande con il piccolo autobus. Scesero e si avviarono alla biglietteria, ma la trovarono chiusa e videro anche un cartello affisso: “SERVIZIO SOSPESO per mare forza 9”. In effetti, il mare non appariva poi così tempestoso, ma uno degli ormeggiatori che Alberto conosceva disse che il moto ondoso era molto forte nella parte più aperta alle correnti aeree ed in particolare fra Ischia e Procida e nel canale di Procida; e , quel che era peggio, le previsioni non annunciavano miglioramenti nelle ore successive, anzi! Cosa fare, a quel punto? Alberto sapeva anche che in qualche occasione era stata ripresa la rotta per Acquamorta, al Monte di Procida; ne accennò al gestore del bar, Geppino, che conosceva da tempo ma quello gli rispose che, in simili condizioni, nessuno lo avrebbe potuto condurre dall’altra parte: la sera stava sopraggiungendo e non vi erano le condizioni per poter con certezza far ritorno e poi la Capitaneria non lo avrebbe consentito.
Alberto chiamò Valerio che, per fortuna, visto il maltempo, era ritornato a casa e lo informò. “Se qualcuno ci dicesse che di certo domattina si parte potremmo anche adattarci in un magazzino del porto o chiedere ospitalità in uno dei locali della Marina; ma ho la sensazione che non vi siano certezze in tal senso.” Alberto pensò anche di portare una parte dei suoi amici dai suoi parenti, ma Valerio lo rassicurò: “In occasioni come queste, voi siete stati nostri ospiti, tocca a noi ricercare una soluzione. Chiamo il Sindaco per capire quel che si può fare! Aspettatemi”. Alberto ringraziò ed avvertendo su di sé la responsabilità di averli condotti in quella “sfida”, informò il gruppo, che intanto come aveva fatto al mattino si stava rifocillando al caldo in una stanza interna del Bar con te e pastine varie.
Valerio arrivò dopo meno di un’ora; con lui c’era il vice Sindaco che assicurò tutti che l’isola avrebbe provveduto ad ospitarli in una struttura alberghiera (avevano pensato anche all’Ospedale, ma veniva utilizzato solo per il Pronto Soccorso e non aveva spazi organizzati) fin quando il servizio di navigazione non fosse ripreso. Alberto aveva telefonato alle zie e si fece escludere dal computo; disse che però li avrebbe accompagnati per accertarsi della sistemazione. In quei giorni, per la concomitanza delle festività e del maltempo, gli alberghi erano pressochè vuoti. Era consuetudine ad ogni buon conto avere il massimo rispetto per gli “ospiti”, ancor più in occasioni come quelle; e non capitava certamente spesso.
Valerio, il Vice Sindaco ed un altro amico fino ad allora sconosciuto li accompagnarono, utilizzando tre auto, ai due Alberghi che si trovavano fra Solchiaro e la Chiaiolella, il “Savoia” ed il “Riviera”. Furono accolti con estrema cortesia nella tradizione ospitale dell’isola. Alberto ringraziò gli amici di Procida, si accomiatò dai suoi amici assicurando loro che, presto, la mattina dopo sarebbe ritornato, suggerendo loro di essere pronti perché se il mare si fosse calmato ed il servizio ripreso sarebbero partiti. La notte il vento riprese vigore e la mattina, limpida perché sgombra di nubi annunciò tuttavia che nulla era cambiato e che il mare, lo si vedeva dall’alto della casa delle zie di Alberto, lo si vedeva altrettanto dall’alto delle terrazze dei due alberghi, era ancora più tempestoso. Alberto raggiunse presto gli amici e con loro, sapendo di dover rimanere ancora qualche ora, forse un giorno, si sperava un solo giorno, si incamminò sulla via “Panoramica” e da quella poterono osservare la maestosità delle onde marine che si scagliavano possenti contro la scogliera sollevando una schiuma corposa; ed il vento intenso rendeva il cammino faticoso lungo la strada. Alberto e pochi altri, rassicurati e protetti dalla dolcezza e dall’ospitalità dell’isola, ricordarono i versi di Lucrezio nel secondo libro del “De rerum natura”

“Suàve , marì magnò turbàntibus àequora vèntis
è terrà magnum àlteriùs spectàre labòrem;
nòn quia vèxarì quemquàmst iucùnda volùptas ,
sèd quibùs ìpse malìs careàs quia cèrnere suàve est.”

“bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano.
Non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,
ma la distanza da una simile sorte”

e fecero ritorno, dopo aver acquistato alcuni prodotti per l’igiene intima in un “Coloniali” in Piazza Olmo, uno di quei negozi che emanano profumi di pulito e vendono di tutto, ai loro Alberghi. Era il 4 novembre, venerdì e nel Nord ed il Centro d’Italia, si stava consumando la tragedia delle alluvioni. Trento, Venezia, Udine, Brescia, Padova subirono enormi danni; Firenze fu sommersa dall’Arno. Un patrimonio immenso di Arte, Cultura e Civiltà rischiò di essere perduto. Alberto ed i suoi amici si incollarono alle radioline che riportavano i notiziari del “dramma”. Compresero di essere davvero fortunati. La mattina dopo riuscirono a far ritorno. Il mare non era ancora tranquillo ma il servizio era ripreso.

Joshua Madalon

Firenze 66

3 novembre – reloaded EPIFANIE – Pasolini e Bach a Bergamo alta” di Giuseppe Maddaluno

reloaded
EPIFANIE – Pasolini e Bach a Bergamo alta” di Giuseppe Maddaluno

Una camera spartana; era quello che aveva trovato a due passi dal Centro storico di Bergamo bassa, in via Pignolo. La proprietaria, una signora sui sessanta, aveva richiesto l’ anticipo dell’affitto settimanale; non si fidava dei meridionali. Troppe fregature aveva avuto e non le bastava che Fulvio le fosse presentato da un pigionale d’annata, anche lui era meridionale! Una stanza spoglia con pochi mobili e nessuna possibilità nemmeno di utilizzare la cucina; per fortuna Fulvio conosceva molto bene uno dei suoi amici terroni che lavorava alle Ferrovie dello Stato e che, ancora celibe, utilizzava a pranzo ed a cena la Mensa del Dopolavoro Ferroviario. Così, introdotto come amico fraterno, Fulvio ne poteva utilizzare i servizi pagando come “esterno” un prezzo molto conveniente. A Bergamo c’era anche un altro suo amico, Fausto, che abitava in via Novelli. Lo aveva conosciuto durante il servizio militare, Fausto. Era un ragazzo molto attento alle trasformazioni sociali ed era politicamente impegnato senza appartenenza ad alcun Partito; un “cane sciolto” attento alle attività dei “centri sociali”. Gli telefonò ed andò anche a trovarlo una domenica mattina; lavorava in una fabbrica nell’hinterland milanese e tornava a casa solo il fine settimana. Sembrò sfuggente, un po’ vago e superficiale nei rapporti che mostrava, in contrasto con la serenità dei giorni della “naia”, freddino! Era la fine di ottobre del 1975; il cielo era limpido e si respirava una buona aria. Bergamo non era inquinata come Milano e le giornate, mattina e pomeriggio, erano libere per Fulvio, che aveva ricevuto una supplenza ad un corso serale all’Istituto Tecnico e Commerciale “Vittorio Emanuele II”. Il lavoro era impegnativo ed occorreva prepararsi in modo adeguato: gli “studenti”, tutti adulti, erano desiderosi di apprendere e spesso, essendo coetanei o più anziani, sapevano molto di più dei loro docenti; se non altro, possedevano loro competenze specifiche di cui non celavano le conoscenze. Di giorno, Fulvio studiava, prevalentemente la mattina, e poi andava ad esplorare la città; al pomeriggio frequentava il cineclub “Giovanni XXIII” sul viale omonimo. Oppure andava in giro per le scuole del territorio per capire se vi fosse bisogno di lui al termine della supplenza; di solito, ci andava di mattina. E quel giorno nel quale si recò a Pontida, in una Scuola Media, sceso dal treno lesse sulla locandina de “l’Unità” che era morto Pier Paolo Pasolini. Si precipitò ad acquistarla e divorò le pagine con rapidità. Che grande, bella persona era Pier Paolo Pasolini; odiato dalla Destra e rinnegato dalla Sinistra, aveva messo a nudo le contraddizioni della società del suo tempo, rivelandone la metastasi in atto nella “mutazione antropologica”. Che grande perdita per il nostro Paese; la sua lucidità analitica aveva accompagnato alcuni dei giovani di allora nella conquista della consapevolezza che fosse necessario un profondo radicale cambiamento. Misteriosa quella sua avventura nella notte allo Scalo di Ostia, quel mattino occupò per intero la mente ed il cuore di Fulvio. Era il 3 novembre 1975; Pasolini era stato ucciso in circostanze di difficile lettura nella notte fra il 1° novembre, giorno dei Santi, ed il 2 novembre, Giorno dei Morti. Ed i commenti erano perfidi, irridenti la sua omosessualità che dava fastidio ai fascisti maschilisti ed ai perbenisti di Centro e di Sinistra. Fulvio, continuando a leggere le pagine del suo giornale preferito, fece ritorno a Bergamo subito dopo essere stato informato che una supplenza ci sarebbe stata dalla settimana seguente ed aver lasciato il suo recapito domiciliare provvisorio. Quel pomeriggio al cineclub proiettavano “I tulipani di Harleem” un film di Franco Brusati, regista di culto in quegli anni. Vi si recò e si innamorò di Carole André (la Lady Marianna di “Sandokan” televisivo, per intenderci).
Con gli studenti quella sera poi avviò a trattare la difficile fase delle “Guerre di successione”; alcuni però vollero sapere di Pier Paolo Pasolini e così fu che si avviò una discussione fra chi lo etichettava come un immorale frocio e chi lo riconosceva come poeta assoluto. Fulvio parlò della sua spietata lucida analisi della società condotta su quotidiani come “Il Corriere della Sera” e “Il Tempo” e sul settimanale “Il Mondo” e su riviste vicine al Partito Comunista come “Vie Nuove” e “Rinascita”. Ne sottolineò gli aspetti analitici e critici ed in particolare toccò il tema del “genocidio culturale” e della metamorfosi antropologica in atto. Parlò del suo cinema ed in modo attento alle prime prove, “Accattone” e “Mamma Roma”, che senza alcun dubbio erano collegabili ai romanzi più famosi come “Una vita violenta” e “Ragazzi di vita”. Accadeva così, nel corso serale: erano gli studenti, quelli più attenti (qualcuno sonnecchiava), a proporre la linea della serata. E Fulvio si adattava.
Era un novembre climaticamente accettabile e Fulvio ne aveva utilizzati alcuni fine settimana, quando le scuole erano chiuse, per visitare altre parti di Bergamo. Bergamo alta (la città antica medievale romanica) è un piccolo gioiello inatteso per chi viaggia soltanto nella “bassa”, dove si sono invece sviluppate le caratteristiche moderne economiche ed industriali. Vi si accede attraverso un servizio di funicolare (a piedi è molto più faticoso arrivarci) e la percezione storica del mondo bergamasco cambia totalmente. Quel 4 novembre di festa Fulvio prese la Funicolare e attraverso stradine strette giunse nella splendida Piazza Vecchia, un vero e proprio capolavoro nel suo insieme. Vi fu girato “Il cavaliere del sogno” film dedicato alla vita di un grande bergamasco, Donizetti. Vi si trovano tutti insieme il Palazzo del Podestà, il Palazzo della Ragione e la Torre medievale del Comune. Andando avanti si trovano poi la Cappella Colleoni che celebra altro illustre figlio bergamasco, il Duomo romanico e la Basilica di Santa Maria Maggiore. Fulvio notò affisse delle locandine in alcuni dei locali che annunciavano per la sera del 4 novembre un grande Concerto all’interno del Duomo. Un’ orchestra tedesca con un Coro internazionale avrebbe proposto la “Passione secondo Matteo” di Bach. Non poteva mancare. Fulvio risalì di nuovo a Bergamo alta quella sera; non aveva mai sentito la “Passione” per intero ma ne aveva ascoltato brani proprio nei film di Pasolini e gli sembrò un “segno” straordinario quella concomitanza di eventi. Il Duomo alle sei e mezza di quel pomeriggio era gremito all’inverosimile; vi erano delle transenne che limitavano il passaggio fra il pubblico “comune” e le autorità cui era stata riservata la parte più ravvicinata all’orchestra su comode poltrone. Su una di queste vi era anche il Vescovo, figura possente per altezza e larghezza. Fulvio non si scoraggiò e superando il varco si posizionò in forma asiatica intrecciando le gambe. Non vi era alcun servizio d’ordine e l’esempio fu seguito da altri giovani, incoraggiando anche qualche meno giovane a fare la stessa scelta.
Alle sette in punto di quel pomeriggio gli orchestrali, circa 25 elementi, fecero il loro ingresso davanti al pubblico, sistemarono i loro spartiti sui leggii ed avviarono la loro azione per provare gli accordi. Dopo circa cinque minuti entrò il Coro formato da circa 20 elementi maschili e femminili e poi entrarono e si posero a sedere davanti ai lati dell’Orchestra tre donne e tre uomini (2 soprani, 1 contralto, 1 tenore e due bassi). Subito dopo, accompagnato dagli applausi del pubblico, fece il suo ingresso il Direttore e dopo due inchini al pubblico ed agli orchestrali che furono invitati ad alzarsi, salì sul suo podio e dopo aver impartito alcune indicazioni avviò il Concerto. L’avvio, musicale e corale, è immediatamente solenne e Fulvio, colpito da un brivido di emozione e di piacere, venne trasportato su una “nuvola” lieve ed eterea; voci angeliche pietose accompagnano l’Uomo con la sua Croce verso il suo estremo sacrificio. A tanta ieraticità non resse la stanchezza del Vescovo che scrollava la testa sonnacchioso. Al Corale ampio n.10 (“Son io che dovrei espiare Legato mani e piedi Dannato all’inferno Gli insulti e le catene E i tuoi patimenti Tutto ha meritato l’anima mia”) l’Alto prelato crollò in un sonno profondo ed in esso permase cullato dal Corale n.15 e da quello più tranquillo del n.17. A nulla servì il Tenore ed il Coro dell’Aria n.20 né la Corale n.20 che mantennero invece Fulvio ad un’altezza costante sulla sua “nuvola”, dalla quale fu costretto a scendere dopo il Corale conclusivo della prima parte, causa breve intervallo. Anche il Vescovo si scosse, disturbato da un addetto che gli chiese se aveva bisogno di bere qualcosa. Il concerto riprese e nulla cambiò: il vescovo riprese anch’egli il suo sonnellino e Fulvio il suo viaggio estatico. Non aveva mai sentito nulla di simile nei suoi giovani anni; il mondo gli sembrò più accettabile e comprese anche quanto la morte di Pasolini avesse proiettato quel grande nell’eternità, accomunandola a quella del Cristo. Quella sera uscì dal Duomo sorretto da due angeli che lo mantenevano al di sopra di tutte le altre persone accompagnato dalle note della “Passione” e dai suoi cantori.
fine

2 novembre – IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI – parte 15

Una mia nota: Voglio ancora una volta ricordare che vado riportando il dibattito che si svolse il 27 aprile del 2006 così come riportato dai trascrittori che sbobinarono le registrazioni. Ecco quindi perché a volte ci sono degli errori o comunque delle incertezze.

FINE LATO A PRIMA CASSETTA

INIZIO LATO B

Parla il Professor Antonio Tricomi:

<<…sempre possesso di un autore che ha da insegnare qualcosa al pubblico.

Però è anche l’opera, come dire, una operazione di manierismo per la stessa ragione che potete capire da quanto ho detto finora, cioè la letteratura non viene mai rifiutata in toto da Pasolini per cui c’è un recupero di forme altre, di forme dei maestri, Pascoli nel caso del primo Pasolini, Pound nel caso del secondo Pasolini, ho citato quelli che mi sembrano i massimi modelli. Per cui questi modelli vengono recuperati, vengono alterati, vengono resi irriconoscibili, ma questa è una operazione classicamente manierista. Se voi prendete Petrolio, Petrolio per definizione stessa dell’autore è un interminabile centone in cui c’è addirittura la pretesa di riscrivere l’intera tradizione culturale letteraria occidentale. Per cui voi in Petrolio trovate le scritture che so io di Apollonio Rosio, di Dostoevskij e via discorrendo. Appunto c’è una operazione in sé virtuale manieristica.

Recupero e riscrittura dei modelli poi però sempre piegati a finalità altre e resi irriconoscibili. Perché dicevo che questo atteggiamento è un atteggiamento precipuamente politico? Perché l’idea di fare un’opera, questo gesto che vi ho frettolosamente descritto, nasce dalla volontà da parte di Pasolini di avere un rapporto sempre agonistico con il proprio pubblico dove agonistico si intende un rapporto addirittura fattuale. Ora la ragione per cui sono tra quelli che ha qualche riserva a parlare di Pasolini come di un classico e se proprio dovessi definire Pasolini un classico lo definirei un classico della cultura italiana del novecento, più che della letteratura italiana del novecento, sta proprio in questo atteggiamento che ora proprio rapidamente a descrivervi: Pasolini non vuole insegnare al pubblico, come dicevamo prima, congegni estetici. Avrebbe la pretesa di consegnare al pubblico progetti da mettere in pratica, dove progetti significa idee di mondi, idee di civiltà, idee di azioni vere e proprie da compiere e quindi in questo modo la cartina di tornasole di quanto vi sto spiegando è il manifesto per un nuovo teatro Perché lì Pasolini definisce il proprio teatro di parola più o meno nei termini che sto provando a disegnarvi io. Ovvero sa o dice di sapere non poter arrivare con le opere direttamente al (parola non comprensibile) Perché è un autore borghese, Perché l’arte è consesso borghese e per ragioni in fondo ovvie. Allora tematizza la possibilità di adesione di unione addirittura politico-ideale con i gruppi avanzati della borghesia di questo paese, cioè lui dice posso arrivare al popolo solo prima arrivando ad un connubio, ad un abbraccio possibilmente non mortale con quella borghesia avanzata che in qualche modo è la borghesia almeno riformista di questo paese, diciamo il PCI per un lungo periodo, poi neanche il PCI. Ed allora concepisce il proprio teatro borghese come un teatro in cui egli espone delle idee, le espone a questo preciso pubblico Perché spera che quelle parole possano diventare azione per intervento del (parola non comprensibile). Quindi, come vedete, ha una idea addirittura strumentale. L’opera è un qualcosa che chiede di essere messa in pratica, appunto Perché come dire non è un’opera finita, appunto Perché in qualche modo Pasolini pretende e questa è una teoria della letteratura che lui quasi passivamente recupera dall’alto, pretende sempre un pubblico che sia formato da individui che abbiano voglia di farsi co-autore delle opere di Pasolini.

…15…

1 Novembre – IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI – parte 14

14

prosegue l’intervento di Antonio Tricomi

Ora, dicevo, nella presentazione di “Trasumanar e organizzar”, Pasolini ad un certo punto parlare dell’autore di quel libro come un autore che oscilla fra accettazione totale e rifiuto totale della letteratura. E’ esattamente l’atteggiamento sadomasochistico che cercavo di descrivervi prima. La gaffe, la forma, il vincolo letterario e le maniere dei maestri sono accettate e disgregate dall’interno. Dovete immaginare in questo senso l’atteggiamento di Pasolini verso l’oggetto e la forma letteraria, come l’atteggiamento di chi guida il congegno estetico, l’oggetto estetico come una prigione provi lentamente a forzare le sbarre della prigione, ma non rade mai al suolo la prigione.

Quando ho definito l’opera di Pasolini come un’opera mancata, Perché io credo che Pasolini non ci abbia dato opere finite e perfette, dovete prendere il giudizio non come un giudizio critico, ma come una definizione intera della cultura. Per opera mancata di Pasolini cioè intendi un’opera che l’autore che non vuole sia finita. Cioè l’opera di un autore Perché proprio Perché oscilla tra accettazione e rifiuto della forma e quindi oscilla di continuo tra tradizionalismo e masochismo verso le norme letterarie, non vuole darci per capirci il capolavoro, l’opera perfettamente finita, l’opera esteticamente finita, invece preferisce darci di nuovo per capirci un’opera a cui è come se mancasse l’ultima verniciatura, come se cioè l’autore in qualche modo si sottraesse all’obbligo che insieme è morale di consegnarla alla propria perfezione. Ancora una volta per l’atteggiamento sadomasochistico verso la letteratura di cui parlavo prima, Perché per Pasolini la letteratura e l’arte sono sempre due cose e mai da sole, ovvero una possibilità di bellezze e di verità e di crescita culturale, ma in quanto secondo lui la cultura e la letteratura sono sempre un contesto borghese, e la cultura e la letteratura sono anche momenti di dominio della classe egemone sulla classe non egemone.

Per cui fare letteratura senza portare i propri testi alla totale perfezione estetica, per Pasolini significa in qualche modo salvare i propri testi dalla possibilità-necessità di essere operazioni di dominio della classe egemone sulla classe non egemone. Quindi il vincolo che trattiene Pasolini qua dalla possibilità di darci il capolavoro, è un vincolo che come vedete è estetico, etico e politico. Ma su questo tornerò praticamente tra due minuti.

Prima dicevo però che in questo senso l’opera di Pasolini va intesa come un’opera mancata, cioè non portata a compimento. Ed ancora il sadomasochismo di cui parlavo prima mi pare possa essere definito come una possibilità di oscillazione tra gesto e maniera dove la gestualità sta dal lato del (parola non comprensibile), il masochismo invece sta dal lato del manierismo. Cosa intendo dire? Ancora una volta se le forme letterarie vanno recuperate, svecchiate e aggredite, la gestualità sarà l’atteggiamento di un autore che appunto Perché non vuole darci opere estetiche finite, tende a ridurre queste opere a proprie performance culturali ed etiche. Cioè in Pasolini c’è sempre una tendenza a fare di un testo, in senso fisico in senso letterario, una sorta di prolungamento del proprio corpo e della propria testa per poter immettere sul mercato delle idee….>>

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31 ottobre – IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI parte 13 con un preambolo “aggiunto” agli interventi del Convegno del 2006

31 ottobre – IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI parte 13 con un preambolo “aggiunto” agli interventi del Convegno del 2006

Il 2 novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini viene barbaramente ucciso all’Idroscalo di Ostia – in questi giorni ci sarà l’anniversario. Ai politici che molto spesso “giudicano” i comportamenti umani non violenti ma semplicemente afferenti alla sfera sessuale chiedo che evitino le consuete ipocrisie – a Pasolini dedicherò maggiore attenzione in questi giorni, pubblicando altre parti di quel Convegno del 2006 programmato per la ricorrenza del trentennale da quell’evento che sconvolse la vita di tanti giovani, come ero io non ancora trentenne. Il 3 novembre ripubblicherò un mio scritto su quei giorni.

continua l’intervento del prof. Antonio Tricomi, classe 1975

….Ora, non mi interessa il giudizio ovviamente di Pasolini su Tasso e Alfieri, ognuno la pensi come vuole, però in qualche modo qui Pasolini da subito segnala e vive sulla propria pelle un problema: ovvero che la tradizione per intenderci alta, la tradizione dell’umanesimo mostra la cosa in qualche modo gli autori che appartengono a quella tradizione lì, al giovane Pasolini annoiano. Non ovviamente tutti gli autori, non tutti allo stesso modo, non per quanto riguarda la loro intera produzione, però c’è un problema di trasmissione del sapere che Pasolini vive in prima persona, ma c’è anche un invecchiamento delle forme letterarie. Per cui Pasolini ventenne si accorge che c’è un problema della tradizione umanistica, umanistica ed in particolare letteraria. Ora tutta intera la sua opera culturale ed opera letteraria altro non sarà, a mio parere, che la risposta a questo specifico problema che dovessi riassumere in una formuletta potrebbe essere più o meno questo: come salvare una tradizione letteraria dallo (parola non comprensibile – VOCE FUORI MICROFONO)…una tradizione letteraria di riflesso alla cultura dell’umanesimo. Perché se ci pensate tutti i vari snodi dell’opera di Pasolini in fondo sono diversi modi di rispondere a questo stesso problema. Poi, ad un paio di questi snodi accennerò.

Allora dicevo si è eredi di una generazione che bisogna smentire, la generazione dei padri a cui bisogna in qualche modo disobbedire, che è erede di una tradizione letteraria invece (parola non comprensibile – VOCE FUORI MICROFONO). Dicevo che la rivista Eredi non nascerà mai, però in qualche modo lo stesso gruppo di Eredi sarà quello che pochi anni dopo darà vita ad Officina, una rivista che in qualche modo impone Pasolini all’attenzione delle critica letteraria e lo impone anche come critico letterario oltre che come poeta. Ed allora da questo atteggiamento di Pasolini verso la tradizione letteraria che è da svecchiare ed aggiornare ai contesti nuovi e a forme linguistiche nuove, io ho credo di poter definire l’atteggiamento di Pasolini e anche la sua cifra stilistica come un atteggiamento in qualche modo sadomasochistico. Rispetto alla tradizione letteraria cioè Pasolini ha una pulsione quasi di rifiuto e di violenza vera e propria: la tradizione letteraria sta invecchiando quindi bisogna in qualche modo aggredirla e quindi il sadismo di Pasolini verso la tradizione letteraria. Però anche l’atteggiamento masochistico di chi dalla tradizione letteraria e dalle forme letterarie completamente non vuole liberarsi mai e cerca anzi di (parola non comprensibile) a sé. Di recuperarle, di riscriverle appunto per tentare il salvataggio di cui parlavo prima.

Allora questo atteggiamento sadomasochistico in qualche modo è Pasolini stesso, e siamo ormai nel ’70-’71, a dichiararlo nell’autorecensione a “Trasumanar e organizzar”. Un altro breve inciso: è vero che Pasolini che tutti noi oggi ricordiamo è essenzialmente quello degli anni ’70, però questo stesso Pasolini, prima di quello che (parola non comprensibile) ha definito un colpo di teatro, guardate che è un autore in qualche modo che comincia ad essere (parola non comprensibile) Perché “Trasumanar e organizzar” non viene recensito da nessun critico letterario. Tenete presente che è il libro di un autore, Pasolini, che non era considerato autore. Cioè “Trasumanar e organizzar” non lo recensisce nessuno. Tant’è vero che Pasolini se lo autorecensirà.

…3….

30 ottobre – PRATO IN COMUNE – prove di ripartenza

30 ottobre – PRATO IN COMUNE – prove di ripartenza

Chi ha potuto farlo, ha partecipato ad un primo incontro convocato attraverso mail per la sera del 27 ottobre. Avevamo molte cose da dirci e naturalmente non siamo riusciti a farlo del tutto. Provo a mettere in ordine alcuni degli aspetti che sono emersi. Se ne dimentico qualcuno, verrete in aiuto. A breve cercheremo di rivederci, forse il 18 novembre.

Siamo stati – chi più chi meno – condizionati dalla tragedia della pandemia in questi ultimi due anni (“poco più poco meno”, e quest’ultima condizione sta a noi ridurla o protrarla, al netto dell’andamento della pandemia, che tarda a lasciare il “campo”). Qualcuno tra noi (spero, oltre a chi scrive, molti altri) ha avvertito l’esigenza di ripartire. Spero non si voglia negare che, anche l’avventura di “Prato in Comune” è stata fortemente voluta, pervicacemente portata avanti, da un piccolo gruppo, di cui faccio parte; lo stesso in fin dei conti che “oggi” sta cercando di riprendere in mano i fili di una storia, che ha preso il via con l’obiettivo di unire quella parte della Sinistra che è oltre i confini del Partito Democratico. “Oltre i confini” ha un sottile significato nella sensazione di essere equiparati – all’interno di un giudizio in qualche modo discriminatorio – agli “stranieri”. Fa parte di questa “sensazione” quel comportamento denunciato da Mirco Rocchi da parte del primo cittadino “pro tempore” di questa città. Nondimeno va preso in considerazione in questa fase che ci si trovi di fronte ad un cambio di orizzonte politico dovuto alla prorompente pericolosa avanzata delle Destre nel Paese, richiamata da Paolo Balestri.

Per questo motivo principalmente abbiamo il dovere di rimettere in moto le nostre energie, cercando di farle crescere attraverso il più ampio confronto con le diverse realtà associative che condividono gli stessi nostri valori e che, separate le une dalle altre, non possono che contare sulle proprie identità, sulle individualità. Anche per noi di “Prato in Comune”, questo,  deve essere un obiettivo prioritario per superare la nostra orgogliosa solitudine. Ciò non può – e non deve – significare una convergenza strutturale verso la maggiore forza politica dalla quale pensiamo essere diversi, ma alla quale intendiamo porre fondamentali interrogativi intorno a tutta una serie di tematiche sulle quali marchiamo molto spesso distanze significative per noi, di Sinistra, incomprensibili: per citarne solo una parteil Lavoro, la Salute, l’Istruzione, le modalità di Partecipazione, gli interventi urbanistici, lo sviluppo del territorio, la Mobilità, i Diritti.

Abbiamo un’ottima piattaforma programmatica da cui riprendere a far Politica.                                                

Ripartiamo dunque da dove eravamo rimasti nel febbraio del 2020: la costituzione di un’Associazione politico culturale i cui aderenti si propongano di partecipare alla costruzione di un Progetto di città per i prossimi anni.

28 ottobre – IN RICORDO DEL POETA PIER PAOLO PASOLINI – parte 12

IN RICORDO DEL POETA PIER PAOLO PASOLINI – parte12

continua l’intervento del prof. Antonio Tricomi, classe 1975 (nel 2006 poco più che trentenne ma già autore di opere importanti su Pasolini ) Dal suo curriculum ritroviamo 1) ANTONIO TRICOMI, Rimasugli di anima sporca, e-book per le edizioni Guaraldi, 2001 (testo di narrativa) 2) ANTONIO TRICOMI, La biblioteca “Petrolio”. Costruzione di un intertesto, e-book per le edizioni Guaraldi, 2001 3) ANTONIO TRICOMI, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005 4) ANTONIO TRICOMI, Pasolini: gesto e maniera, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005 5) ANTONIO TRICOMI, La polvere, Stamperia dell’Arancio, Grottammare 2006 (volume di poesie) 6) ANTONIO TRICOMI, Il brogliaccio lasco dell’umanista. Cinema, cronaca, letteratura, Affinità Elettive, Ancona 2007 7) ANTONIO TRICOMI, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Quodlibet, Macerata 2010 8) ANTONIO TRICOMI, In corso d’opera. Scritti su Pasolini, Transeuropa, Massa 2011 9) ANTONIO TRICOMI, Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, Galaad Edizioni, Giulianova 2014 10) ANTONIO TRICOMI, Fotogrammi dal moderno. Glosse sul cinema e la letteratura, Rosenberg & Sellier, Torino 2015 –

“Perché dico questo? Non con spirito di polemica, ma di semplice constatazione, Perché è giusto qui forse per citare Pasolini il privilegio di anagrafe fa sì che tocca il discorso di questo tipo un nervo scoperto anche la condizione dei miei coetanei, però è giusto appellarsi ai giovani e vedere nei giovani la risorsa di questo paese, però bisogna farlo in un certo modo Perché ai giovani in questo momento viene consegnata una scuola, una università e più in generale un contesto culturale e produttivo ridotto ai minimi termini, per cui i giovani forse oggi più che in passato sono costretti a salvarsi quasi da soli. Questo senza voler poi difendere più di tanto i giovani. Perché questa lunga premessa? Perché così posso partire proprio dal Pasolini giovane. Quando Pasolini ha vent’anni, poco più poco meno, lavora ad un progetto di rivista che poi non vedrà mai la luce che avrebbe dovuto intitolarsi (parola non comprensibile). Ora, tenete presente che il Pasolini ventenne è il Pasolini che in qualche modo guarda cosa succede in Italia e non solo in Italia siamo in epoca di regime fascista e questo lo dico anche per un ulteriore contributo alla smitizzazione di Pasolini: Pasolini ventenne non solo non fa la resistenza, ma almeno inizialmente non ha alcuna velleità di autore civile Perché è piuttosto occupato sul solco dei Rimbaud e dei Verlaine di fare una poesia pura e perfetta quella che poi sarà la sua poesia friulana. Il fratello di Pasolini parte partigiano, il fratello di Pasolini muore partigiano ed è semmai questa morte improvvisa che paradossalmente sancisce la nascita del Pasolini civile. E’ come se la morte di suo fratello in qualche modo desse la sveglia a Pasolini. Lo convincesse o lo spingesse a superare il fratello a sinistra nel senso provare a dimostrare che anche con le parole, anche da autore e anche con le opere si può giovare al proprio paese non meno che imbracciando la rivoltella. Però dicevo il Pasolini ventenne progetta con altri amici una rivista che avrebbe dovuto intitolarsi “Eredi”. Eredi di chi ed eredi Perché? Eredi proprio della generazione dei padri che aveva consegnato l’Italia al Fascismo, quindi eredi di un paese sbandato e di maggiorenni e padri sbandati. Però eredi anche di una tradizione letteraria che Pasolini da subito avverte in una fase di logorio o di disfacimento. C’è una lettera di Pasolini ventenne, giovane studioso universitario, in cui ad un certo punto si legge: “maledico ogni giorno quel cretino esame di italiano che mi costringe a leggere l’opera omnia di Tasso e Alfieri. Opera che se letta poco alla volta bene, ma letta nella sua totalità fa morire di noia”.”,,,,,,,,(continua l’intervento di Antonio Tricomi)

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