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IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 35 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 34 vedi 3 novembre

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 35 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 34 vedi 3 novembre

Parla voce non identificata:

<< Il cattivo poliziotto non è stato così cattivo, però in effetti Panella ha detto, riguardo alle sceneggiature, qualcosa di radicalmente diverso da quello che ho detto: cioè ha rivendicato il carattere dell’esternazione. Allora io proverei adesso a dire un dubbio anche su questa discendenza di Pasolini da un’idea di opera aperta…(parole non comprensibili – VOCE FUORI MICROFONO)…che sono state fatte e partirei da un dato non teorico, ma biografico. Cercando nell’epistolario di Pasolini delle prove di una (parola non comprensibile) ho trovato una bellissima lettera di Livio Garzanti. Pasolini era a Merano insieme a Giorgio Bassani che scrivevano una sceneggiatura e soffrivano le pene dell’inferno Perché lì dovevano consegnare e poi (parola non comprensibile)…E Garzanti: caro Pasolini, lei finirà male se continua ad occuparsi…Cioè lo rimprovera e si sa che Garzanti odiava il cinema, abbiamo varie testimonianze di questo tipo e gli dice insomma lei mi sta sfuggendo di mano, uno degli autori della mia scuderia mi sta sfuggendo di mano. Ed io credo che qui ci sia una parte di vero che potremmo interpretare alla luce dell’idea della “Disperata (vitalità)”, un bellissimo poemetto di Pasolini incompiuto anche questo, quello ricordate in cui lui si immagina di essere una sorta di Jean Paul Belmondo come nel film (parole non comprensibili – VOCE FUORI MICROFONO)….Questo lo metterei in rapporto ad una cosa secondo me importantissima, fondamentale che Pasolini dice, credo per spiegare la sua crisi di poeta e anche di scrittore. Per fare poesia ci vuole un sacco di silenzio e la vita che Pasolini conduce a partire da un certo momento non gli dà più né tempo né silenzio. Ed io credo che certe sceneggiature Pasolini le abbia pubblicate in tempo reale Perché aveva dei contratti con gli editori che doveva rispettare, non aveva scritto questo romanzo per Garzanti e gli rifila “Teorema”. Devo dire rispetto alla qualità, qui abbasso non è un livello teorico, ma io credo che leggendo l’epistolario notate questa cosa l’epistolario di Pasolini è così ricco nel primo volume, quando comincia a fare diventa di una banalità. Lui che scriveva delle lettere importanti è un uomo a cui comincia a mancare il tempo. Sicuramente il tempo per fare la poesia.

Per cui, siccome ha detto molte cose sono grato di quello che ha detto, però una cosa che ha detto di far discendere l’ultima poesia di Pasolini da Ezra Pound, se non ho capito male, io ho dei grossissimi dubbi. Lui è costretto e ci soffre a dare delle cose incompiute. Lui che aveva lavorato sui suoi endecasillabi come aveva lavorato fino a “Poesia in forma di rosa”. “Poesia in forma di rosa” tra l’altro lo ricordo benissimo perché quando è uscito io stavo facendo il servizio militare ed ero scandalizzato che nessuno aveva…ancora prima di “Trasumanar” è cominciato proprio con “Poesia a forma di Rosa” a crearsi questo silenzio intorno a Pasolini, ha cominciato a non recensire più le sue cose.

Due racconti di novembre… 1975- un mio “amarcord”

EPIFANIE – Pasolini e Bach a Bergamo alta” di Giuseppe Maddaluno

Una camera spartana; era quello che aveva trovato a due passi dal Centro storico di Bergamo bassa, in via Pignolo. La proprietaria, una signora sui sessanta, aveva richiesto l’ anticipo dell’affitto settimanale; non si fidava dei meridionali. Troppe fregature aveva avuto e non le bastava che Fulvio le fosse presentato da un pigionale d’annata, anche lui era meridionale! Una stanza spoglia con pochi mobili e nessuna possibilità nemmeno di utilizzare la cucina; per fortuna Fulvio conosceva molto bene uno dei suoi amici terroni che lavorava alle Ferrovie dello Stato e che, ancora celibe, utilizzava a pranzo ed a cena la Mensa del Dopolavoro Ferroviario. Così, introdotto come amico fraterno, Fulvio ne poteva utilizzare i servizi pagando come “esterno” un prezzo molto conveniente. A Bergamo c’era anche un altro suo amico, Fausto, che abitava in via Novelli. Lo aveva conosciuto durante il servizio militare, Fausto. Era un ragazzo molto attento alle trasformazioni sociali ed era politicamente impegnato senza appartenenza ad alcun Partito; un “cane sciolto” attento alle attività dei “centri sociali”. Gli telefonò ed andò anche a trovarlo una domenica mattina; lavorava in una fabbrica nell’hinterland milanese e tornava a casa solo il fine settimana. Sembrò sfuggente, un po’ vago e superficiale nei rapporti che mostrava, in contrasto con la serenità dei giorni della “naia”, freddino! Era la fine di ottobre del 1975; il cielo era limpido e si respirava una buona aria. Bergamo non era inquinata come Milano e le giornate, mattina e pomeriggio, erano libere per Fulvio, che aveva ricevuto una supplenza ad un corso serale all’Istituto Tecnico e Commerciale “Vittorio Emanuele II”. Il lavoro era impegnativo ed occorreva prepararsi in modo adeguato: gli “studenti”, tutti adulti, erano desiderosi di apprendere e spesso, essendo coetanei o più anziani, sapevano molto di più dei loro docenti; se non altro, possedevano loro competenze specifiche di cui non celavano le conoscenze. Di giorno, Fulvio studiava, prevalentemente la mattina e poi andava ad esplorare la città; al pomeriggio frequentava il cineclub “Giovanni XXIII” sul viale omonimo. Oppure andava in giro per le scuole del territorio per capire se vi fosse bisogno di lui al termine della supplenza; di solito, ci andava di mattina. E quel giorno nel quale si recò a Pontida, una Scuola Media, sceso dal treno lesse sulla locandina de “l’Unità” che era morto Pier Paolo Pasolini. Si precipitò ad acquistarla e divorò le pagine con rapidità. Che grande, bella persona era Pier Paolo Pasolini; odiato dalla Destra e rinnegato dalla Sinistra aveva messo a nudo le contraddizioni della società del suo tempo, rivelandone la metastasi in atto nella “mutazione antropologica”. Che grande perdita per il nostro Paese; la sua lucidità analitica aveva accompagnato alcuni dei giovani di allora nella conquista della consapevolezza che fosse necessario un profondo radicale cambiamento. Misteriosa quella sua avventura nella notte allo Scalo di Ostia, quel mattino occupò per intero la mente ed il cuore di Fulvio. Era il 3 novembre 1975; Pasolini era stato ucciso in circostanze di difficile lettura nella notte fra il 1° novembre, giorno dei Santi, ed il 2 novembre, Giorno dei Morti. Ed i commenti erano perfidi, irridenti la sua omosessualità che dava fastidio ai fascisti maschilisti ed ai perbenisti di Centro e di Sinistra. Fulvio, continuando a leggere le pagine del suo giornale preferito, fece ritorno a Bergamo subito dopo essere stato informato che una supplenza ci sarebbe stata dalla settimana seguente ed aver lasciato il suo recapito domiciliare provvisorio. Quel pomeriggio al cineclub proiettavano “I tulipani di Harleem” un film di Franco Brusati, regista di culto in quegli anni. Vi si recò e si innamorò, di Carole André (la Lady Marianna di “Sandokan” televisivo, per intenderci).
Con gli studenti quella sera poi avviò a trattare la difficile fase delle “Guerre di successione”; alcuni però vollero sapere di Pier Paolo Pasolini e così fu che si avviò una discussione fra chi lo etichettava come un immorale frocio e chi lo riconosceva come poeta assoluto. Fulvio parlò della sua spietata lucida analisi della società condotta su quotidiani come “Il Corriere della Sera” e “Il Tempo” e sul settimanale “Il Mondo” e su riviste vicine al Partito Comunista come “Vie Nuove” e “Rinascita”. Ne sottolineò gli aspetti analitici e critici ed in particolare toccò il tema del “genocidio culturale” e della metamorfosi antropologica in atto. Parlò del suo cinema ed in modo attento alle prime prove, “Accattone” e “Mamma Roma”, che senza alcun dubbio erano collegabili ai romanzi più famosi come “Una vita violenta” e “Ragazzi di vita”. Accadeva così, nel corso serale: erano gli studenti, quelli più attenti (qualcuno sonnecchiava), a proporre la linea della serata. E Fulvio si adattava.
Era un novembre climaticamente accettabile e Fulvio ne aveva utilizzati alcuni fine settimana, quando le scuole erano chiuse, per visitare altre parti di Bergamo. Bergamo alta (la città antica medievale romanica) è un piccolo gioiello inatteso per chi viaggia soltanto nella “bassa”, dove si sono invece sviluppate le caratteristiche moderne economiche ed industriali. Vi si accede attraverso un servizio di funicolare (a piedi è molto più faticoso arrivarci) e la percezione storica del mondo bergamasco cambia totalmente. Quel 4 novembre di festa Fulvio prese la Funicolare e attraverso stradine strette giunse nella splendida Piazza Vecchia, un vero e proprio capolavoro nel suo insieme. Vi fu girato “Il cavaliere del sogno” film dedicato alla vita di un grande bergamasco, Donizetti. Vi si trovano tutti insieme il Palazzo del Podestà, il Palazzo della Ragione e la Torre medievale del Comune. Andando avanti si trovano poi la Cappella Colleoni che celebra altro illustre figlio bergamasco, il Duomo romanico e la Basilica di Santa Maria Maggiore. Fulvio notò affisse delle locandine in alcuni dei locali che annunciavano per la sera del 4 novembre un grande Concerto all’interno del Duomo. Un’ orchestra tedesca con un Coro internazionale avrebbe proposto la “Passione secondo Matteo” di Bach. Non poteva mancare. Fulvio risalì di nuovo a Bergamo alta quella sera; non aveva mai sentito la “Passione” per intero ma ne aveva ascoltato brani proprio nei film di Pasolini e gli sembrò un “segno” straordinario quella concomitanza di eventi. Il Duomo alle sei e mezza di quel pomeriggio era gremito all’inverosimile; vi erano delle transenne che limitavano il passaggio fra il pubblico “comune” e le autorità cui era stata riservata la parte più ravvicinata all’orchestra su comode poltrone. Su una di queste vi era anche il Vescovo, figura possente per altezza e larghezza. Fulvio non si scoraggiò e superando il varco si posizionò in forma asiatica intrecciando le gambe. Non vi era alcun servizio d’ordine e l’esempio fu seguito da altri giovani, incoraggiando anche qualche meno giovane a fare la stessa scelta.
Alle sette in punto di quel pomeriggio gli orchestrali, circa 25 elementi, fecero il loro ingresso davanti al pubblico, sistemarono i loro spartiti sui leggii ed avviarono la loro azione per provare gli accordi. Dopo circa cinque minuti entrò il Coro formato da circa 20 elementi maschili e femminili e poi entrarono e si posero a sedere davanti ai lati dell’Orchestra tre donne e tre uomini (2 soprani, 1 contralto, 1 tenore e due bassi). Subito dopo, accompagnato dagli applausi del pubblico, fece il suo ingresso il Direttore e dopo due inchini al pubblico ed agli orchestrali che furono invitati ad alzarsi, salì sul suo podio e dopo aver impartito alcune indicazioni avviò il Concerto. L’avvio, musicale e corale, è immediatamente solenne e Fulvio, colpito da un brivido di emozione e di piacere, venne trasportato su una “nuvola” lieve ed eterea; voci angeliche pietose accompagnano l’Uomo con la sua Croce verso il suo estremo sacrificio. A tanta ieraticità non resse la stanchezza del Vescovo che scrollava la testa sonnacchioso. Al Corale ampio n.10 (“Son io che dovrei espiare Legato mani e piedi Dannato all’inferno Gli insulti e le catene E i tuoi patimenti Tutto ha meritato l’anima mia”) l’Alto prelato crollò in un sonno profondo ed in esso permase cullato dal Corale n.15 e da quello più tranquillo del n.17. A nulla servì il Tenore ed il Coro dell’Aria n.20 né la Corale n.20 che mantennero invece Fulvio ad un’altezza costante sulla sua “nuvola”, dalla quale fu costretto a scendere dopo il Corale conclusivo della prima parte, causa breve intervallo. Anche il Vescovo si scosse, disturbato da un addetto che gli chiese se aveva bisogno di bere qualcosa. Il concerto riprese e nulla cambiò: il vescovo riprese anch’egli il suo sonnellino e Fulvio il suo viaggio estatico. Non aveva mai sentito nulla di simile nei suoi giovani anni; il mondo gli sembrò più accettabile e comprese anche quanto la morte di Pasolini avesse proiettato quel grande nell’eternità, accomunandola a quella del Cristo. Quella sera uscì dal Duomo sorretto da due angeli che lo mantenevano al di sopra di tutte le altre persone accompagnato dalle note della “Passione” e dai suoi cantori.
fine

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 34 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 33 vedi 12 settembre

PIN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 34 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 33 vedi 12 settembre

Poi, ancora rapidamente, cosa si diceva? Ah sì, il riferimento ai grandi romanzi della modernità novecentesca, Joyce e compagnia cantante. Certamente Pasolini fa quel tipo di operazione lì, la fa 50, 60, 40 anni dopo però anche qui non credo che Pasolini inventi nulla tant’è vero che una delle ragioni per cui Petrolio probabilmente è il suo capolavoro, ma è soprattutto un testo che ci serve anche a noi paradossalmente per indicare una (parola non comprensibile) temporale è proprio questo. Cioè con Petrolio in qualche modo Pasolini porta a compimento ulteriore o cerca di realizzare tutta una tendenza, anche romanzesca, che è tipicamente novecentesca, che era avanguardista prima, neo avanguardista poi o sperimentalizza dal versante di Pasolini in poi, Volponi ecc, ecc. Quindi Pasolini in questo ha una (parola non comprensibile) che è evidente, che è chiara, che era la guardia, che sono gli sperimentatori degli anni ’50 e ’60. Dopo di che Petrolio porta o avrebbe dovuto portare ad estremo compimento questo modo di fare arte, ma già indica che questo modo di fare arte non è più spendibile Perché Petrolio ha comunque una quota romanzesca che non c’è ad esempio nei (parola non comprensibile)…altro testo…(parola non comprensibile). Per cui, Petrolio è insieme proviamo a dirla, e chiudo, in maniera con una formula per ragioni di brevità, un romanzo con il quale idealmente è come se Pasolini dicesse la tradizione antiromanzesca, moderna e novecentesca, la tendo più che posso con una corda che tendo finché poi l’elastico salta infatti Petrolio, persino l’ultimo Calvino, d’Arrigo e Volponi in Corporale sono davvero gli autori che portano ad estremo compimento questa possibilità anche romanzesca, dopo di che il ventennio successivo nella narrativa italiana sarà quello che vedrà le sorti di autori che vanno in tutt’altra direzione: vogliono il prodotto artigianale definito e il romanzo ben fatto. Dimostrazione ulteriore che negli anni ’70 finisce almeno in Italia una possibilità anche romanzesca moderna soprattutto Perché è finito il clima culturale e politico che era insito in quella scelta. Pasolini crede all’opera aperta come dicevo prima, ma anche gli avanguardisti in modo diverso credono all’opera aperta Perché questo ha ancora una attenzione politica. Dagli anni ’80 e ’90 non sarà più vero e quindi fare opera in qualche modo spuria e non finita non avrebbe potuto più significare fare opera politicamente inammissibile nella (parola non comprensibile). >>

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 33 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 32 vedi 30 AGOSTO

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 33 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 32 vedi 30 AGOSTO

Parte 33 – Parla voce non identificata:

<< Dunque, le cose sarebbero tante cerco di andare per suggestioni rapide. Allora comincio da quella che mi pare decisiva: Gadda. Sicuramente Gadda è un modello di scrittura per Pasolini e soprattutto per il primo Pasolini. L’espressionismo pasoliniano, parlo proprio di livello dello stile è una sorta di commistione tra Gadda e (parola non comprensibile) ed in particolare il gaddismo significa come dire sta dal lato della stratificazione dello stile. Per cui Pasolini che scrive sempre avendo l’idea che lo stile e la realtà a sua volta siano strati di senso e di forme, questa cosa gli viene sicuramente da Gadda.

Però segue un po’ meno il ragionamento quando si mette a confronto Petrolio o quale altro testo di Pasolini che sia con la commissione del (parola non comprensibile). Con la (parola non comprensibile) l’avrei capito, con il Pasticciaccio un po’ meno Perché lì parliamo di due copioni diversi. Cioè il Pasticciaccio è un’opera perfettamente compiuta, stilisticamente definita che non ha nessuna, come dire, zona d’ombra formale o stilistica e in cui va beh non è un giallo non si capisce chi è l’assassino. Ma stiamo parlando di una cosa diversa però, anche i romanzi, i gialli di Sciascia in teoria sono senza colpevole, ma qui parliamo di un tipo di compiutezza diversa. Poi è vero, certo, che anche Gadda in qualche modo si riconnetta ad una tradizione che banalmente potrei definire di ampio romanzo molto novecentesca, molto moderna e Pasolini la stessa cosa fa, però non parlerei di una affiliazione dell’idea, di opera aperta nel senso che dicevo prima da Pasolini a Gadda. Gadda agisce su altri versanti.

Quindi qui vado rapidamente provo a dire altre due cose. Carla Benedetti e Zigaina. Su Zigaina non mi convince affatto la tesi finale della morte di Pasolini come la spiega Zigaina e questo scritto che non mi convince rimando per forza di cose.

Su Carla Benedetti, sì è vero, è chiaro che ci sono suggestioni da Carla Benedetti, però attenzione io cerco di fare una cosa che lei sceglie

di non fare. Cioè per lei gli ultimi 15 anni di Pasolini sono anni in cui l’autore in qualche modo rinuncia completamente a quella che definivo prima una cifra manieristica per darci solo opere più (parola non comprensibile). No, secondo me non sta così. Pasolini fino in ultimo, anche nell’opera più recalcitrante ad essere opera che ci sia, ha una quota fortissima di manierismo Perché in qualche modo l’equilibrio miracoloso tra gestualità e manierismo anche nell’opera meno formalmente risolta di Pasolini rimane. Quindi, l’idea di una forma progetto come la chiama Carla Benedetti che sia sempre soltanto quello a me non convince. Pasolini è tanto manierista quanto autore gestuale. Quindi per il resto è vero che ci sono (parola non comprensibile) dai suoi libri, però con questa…Semmai, in fondo non ho fatto altro, che mettere a frutto le cose che da tempo Walter Sini sta dicendo.

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 32 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 31 vedi 23 AGOSTO

Parte 32
prosegue e si conclude l’intervento del prof. Giuseppe Panella

Tutte le sue sceneggiature sono state pubblicate e molte, quasi tutte in vita a dimostrare l’importanza che per lui aveva la sceneggiatura come testo letterario. Se non l’avesse avuto e l’avesse pubblicate solo per motivi venali e può essere anche un motivo quello di pubblicare un libro che poi magari veniva venduto sull’onda della emozionalità e dell’interesse pubblico del momento, questi testi non sarebbero stati arricchiti da così tanto materiale aggiuntivo. E’ come se Pasolini avesse previsto la tecnica con la quale vengono costruiti oggi i DVD dei film tutti i materiali con i backstage, un le interviste. Se voi vedete la sceneggiatura di “Accattone”, ma anche di altri film, vedete che ci sono pagine di diario, riflessioni, viene ricostruito il film il modo in cui è stato fatto, quali sono le prospettive, voglio dire fa proprio un lavoro di spiegazione, di arricchimento e di integrazione della sceneggiatura per cui in effetti verrebbe fatto di pensare che queste sceneggiature per lui hanno un valore letterario forte. D’altronde, la stessa pubblicazione intorno al romanzo con Teorema, che è film e romanzo nello stesso tempo e sceneggiatura del romanzo nello stesso tempo, sembrerebbe far pensare ad un ritorno, ad una dimensione narrativa che però nello stesso tempo si integra con il linguaggio cinematografico e contemporaneamente con il linguaggio della poesia. Teorema, dico per chi non l’avesse letto, è composto da pezzi in prosa, da testi che diciamo ricordano le sceneggiature come scriveva Pasolini, ma anche con larghi squarci di poesia. Allora, per ritornare e fare appunto delle domande, per iniziare un percorso di discussione, io credo appunto che in Pasolini ci sia sicuramente questa idea del non finito o comunque di qualcosa che va integrato, di un confronto-scontro con il lettore al quale viene richiesto di partecipare. Però è anche vero che questo non è forse l’unica dimensione, l’unica cifra significativa di Pasolini, ma è qualcosa che Pasolini scopre nell’ultimo periodo cioè dopo l’abbandono della letteratura come strumento di lotta legata alle esigenze della dimensione politica, della grande discussione. Insomma non si capisce, a mio avviso, “Una vita violenta” se non si tiene presente la discussione sul contemporaneo e sul Metello di Pratolini, insomma il dibattito sulla letteratura neorealistica. Quindi da un lato c’è una modalità di operazione narrativa da parte di Pasolini che trova un muro, cioè si scontra contro la difficoltà di una totalizzazione dell’opera letteraria; dall’altro c’è la scoperta, non tanto la scoperta quanto l’utilizzazione del cinema come continuazione della dimensione narrativa, lo scrivere appunto con un’altra lingua, ma continuare lo stesso progetto, lo stesso processo.

E’ inevitabile poi che utilizzando gli strumenti, l’arma propria del cinema, Pasolini integri questa sua scoperta anche dal versante narrativo e dal versante poetico. Per cui il cinema va a costituire un linguaggio, una sorta di lingua speciale che si fa però progetto globale all’interno dell’opera di Pasolini. Cioè il cinema serve per compensare, per superare l’impasse del romanzo visto l’insuccesso diciamo così da un punto di vista letterario di “Una vita violenta”; dall’altro è il cinema che poi viene utilizzato, viene riverberato sulle altre forme espressive e quindi diventa uno strumento, una sorta di strumento principe per scrivere ancora poesia, per scrivere ancora narrativa, per arrivare ad un livello di determinazione della scrittura stessa che vada oltre il grado zero della scrittura, per citare il Barth a cui si alludeva, che sicuramente è uno dei punti di riferimento forti di Pasolini, ma come sempre in Pasolini anche come punto di riferimento critico, cioè c’è una adesione, ma anche una critica. Lo stesso direi insieme a Bazen un altro grande punto di riferimento dal punto di vista cinematografico di analisi della lingua del cinema è Godard, che Pasolini pubblica in quella stessa collana insieme a Bazen. Grazie. >>

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 31 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 30 vedi 22 luglio

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 31 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 30 vedi 22 luglio

Nota: si tratta di una trascrizione della sbobinatura redatta da tecnici non sempre funzionali ai lavori del Convegno

Parte 31 prosegue l’intervento del prof. Giuseppe Panella

Non vorrei appunto, un sospetto, che anche in Pasolini giocasse questa suggestione che d’altronde viene rievocato proprio nell’introduzione, se non erro, cito così sulla base dei ricordi, proprio Gadh viene considerato uno dei grandi maestri di Pasolini insieme a (parola non comprensibile), c’è addirittura una fotografia. Quindi c’è da un lato appunto il problema del gaddismo di Pasolini che poi è il problema del gaddismo di Arbassino, di Testori ecc, ecc, coloro i quali sono gli scrittori che non a caso si sono formati in quella palestra straordinaria che è Paragone, una rivista di Longhi, cioè della moglie di Longhi cioè di Anna (parola non comprensibile) che aveva della scrittura una concezione radicalmente opposta rispetto a quella di Pasolini, ma che comunque considera Pasolini uno suo discepolo, un suo allievo.

Quindi da un lato c’è questa domanda appunto sulla possibile volontà di Pasolini di fare un’opera come quella di Gadh che ha ad esempio nel Pasticciaccio anch’essa volontà, velleità e propensione verso una scrittura di denuncia civile, nel senso appunto il Pasticciaccio come poi Eros e Priapo, come altre opere di Gadh avranno come bersaglio un bersaglio ben individuato nel Fascismo. Dall’altro in questa idea dell’opera, che si autocontraddice, cioè che appunto pone in sé stesso gli elementi del dubbio, del far deflagrare le contraddizioni dall’interno, credo però tipica di tutta la grande scrittura del Novecento. Cioè nel senso di un’opera che dovrebbe essere l’opera definitiva, finale, il grande romanzo finale, il grande testo definitivo della letteratura che però in realtà all’interno contiene i germi del suo superamento e della sua non essere tappa finale. Se qualcuno ha presente (parola non comprensibile) di Jois o “L’uomo senza qualità” di Musit sono grandi opere narrative, che vorrebbero essere il romanzo finale, per Musit era esplicito questo, ma proprio Perché è il romanzo finale questo romanzo non finisce, lascia aperta la possibilità ad una conclusione.

Io credo sicuramente Pasolini aveva per Petrolio, ma anche per altre opere, in testa una idea del genere di romanzo, anche se io diciamo meditando sul Pasolini che ancora crede nelle possibilità del romanzo come strumento di lotta ed anche di analisi delle contraddizioni politico-sociali, cioè in senso quasi lucaksiano , Pasolini ci aveva provato a scrivere il romanzo compiuto, il manufatto esteticamente realizzato, il romanzo che doveva essere contemporaneamente la prova di stile di scrittura, ma anche di impegno sociale. Se si pensa ad “Una vita violenta”, che è probabilmente un fallimento anche per Pasolini, però Pasolini ci prova e quindi è probabile questa volontà di scrittura non finita degli abbozzi di “(parola non comprensibile) gli occhi azzurri” che però contiene anche le sceneggiature, la sceneggiatura di “Una giornata balorda” quindi da un lato ha questo carattere di materiale abbozzato che non finisce; dall’altro però propone dei testi compiuti e qui apro brevemente una parentesi prima di concludere: Pasolini ha pubblicato praticamente tutte le proprie sceneggiature tranne quella di Salò.

UN POST LUNGO PER RECUPERARE UNA DOCUMENTAZIONE SU UN PROGETTO COMPLESSO DI EDUCAZIONE DEGLI ADULTI REALIZZATO A PRATO NEGLI ANNI OTTANTA

UN POST LUNGO PER RECUPERARE UNA DOCUMENTAZIONE SU UN PROGETTO COMPLESSO DI EDUCAZIONE DEGLI ADULTI REALIZZATO A PRATO NEGLI ANNI OTTANTA

UN POST lungo per recuperare una documentazione su un Progetto complesso di Educazione degli Adulti realizzato a Prato negli anni Ottanta

Nei prossimi giorni proseguirò con blocchi ridotti di circa 500 lettere a recuperare tutto il mio intervento il cui titolo era “Nuove tecnologie…verso il 2000”

Su questo Blog in un mio post del 31 ottobre u.s. http://www.maddaluno.eu/?p=10467 proseguendo a parlare di alcune iniziative svolte a Feltre nel 1982 annunciavo come operatore del Circolo di Cultura Cinematografica “La Grande Bouffe”

“……..nostre iniziative future, ad esempio quella che interesserà particolarmente il mondo della scuola e l’uso corretto didattico dei mezzi audiovisivi, che in dettaglio presenteremo al Provveditore agli Studi di Belluno, all’ IRRSAE, al Consiglio Scolastico Distrettuale n.4, ai Direttori Didattici ed ai Presidi. La necessità di un approfondimento di studio su questi temi è tanta ed è comprovata da una parte dall’importanza che hanno assunto, e vanno assumendo sempre di più, i mezzi audiovisivi, dall’altra dall’imperizia della maggior parte degli operatori scolastici nell’essere in grado di adoperare correttamente tutta la più o meno complessa serie di attrezzature che, pur acquisite dai singoli Istituti, giacciono molto spesso inutilizzate negli sgabuzzini e nei sottoscala delle varie scuole.“
E poi con una nota a piè di pagina scrivevo

“nda: Nei mesi successivi mia moglie ebbe il trasferimento a Prato ed io la seguii con un’assegnazione provvisoria a Empoli. E tra Prato ed Empoli iniziarono altre storie.”

Ecco, dunque alcune delle altre storie.

A Prato nel 1988 seguendo quelli che erano i miei specifici intreressi, all’interno dei quali sviluppavo competenze, ho potuto portare il mio contributo ad un Seminario internazionale promosso dal Comune di Prato, dall’Università degli Studi di Firenze, dall’Istituto di Pedagogia con il patrocinio della Comunità Economica Europea, del Ministero della pubblica Istruzione, dalla Direzione generale degli scambi culturali, dall’Associazione Intercomunale Area Pratese. Il seminario si svolse dal 18 al 22 maggio.
Durante il periodo “feltrino” ero stato protagonista della “stagione” delle 150 ore e contemporaneamente avevo costruito progetti e iniziative culturali cinematografiche sempre tenendo presente la funzione didattica dei mezzi audiovisivi. A Prato avevo partecipato da protagonista alla fondazione del Terminale e proseguivo la mia attività nel mondo degli audiovisivi utilizzati come strumenti culturali. Prato, attraverso la grande attenzione civile e sociale, tesa al recupero delle conoscenze disperse in tempi nei quali il lavoro portava via dal mondo dell’istruzione molti giovani prima che avessero concluso il ciclo di studi, aveva avviato, già da alcuni anni, percorsi di rialfabetizzazione rivolti agli adulti, grazie alla sensibilità di una classe dirigente politica ed amministrativa di altissimo livello (Liliana Rossi, Anna Fondi, Ivana Marcocci, Eliana Monarca, Massimo Bellandi sono solo alcuni dei nomi di amministratori, quasi tutti da me incontrati in quegli anni). La collaborazione con l’Università, in particolar modo con Francesco Maria De Santis, Paolo Federighi e Paolo Orefice era stata preziosissima ed aveva prodotto grandi risultati ed aspettative.
Anche per fermare lo “stato delle cose” e stimolare il processo si svolse dunque il Seminario “Strategie per uno sviluppo generale dell’educazione degli adulti. Verso un 2000 educativo” al quale ebbi la fortuna e l’onore di partecipare con un mio specifico intervento dal titolo “Nuove tecnologie…verso il 2000” all’nterno della Sezione che si occupava di “Nuove tecnologie audiovisive e sviluppo dell’educazione degli adulti”.
Nel prossimo post riporterò alcune parti della Presentazione curata dal prof. Paolo Federighi e dell’Introduzione del prof. Filippo Maria De Santis.

….1……

Come annunciavo nel post del 7 novembre nell’impostare un discorso intorno alla necessità di strutturare un nuovo Progetto di Educazione degli Adulti farò riferimento agli Atti del Seminario “Strategie per uno sviluppo generale dell’educazione degli adulti. Verso un 2000 educativo” svoltosi a Prato nel maggio del 1988. Pubblicherò poi il mio intervento e vi farò seguire un’idea sui bisogni consapevoli e/o inconsapevoli dei cittadini, sia quelli che da generazioni vivono questi territori sia quelli che invece vi sono da pochi anni, sia appartenenti alla nazionalità italiana sia a quelle non italiane, ma che comunque abbiano bisogno di approfondire la conoscenza della lingua e delle storie, offrendo innanzitutto in cambio le loro specifiche conoscenze mettendole insieme nello stesso comune crogiolo inter-multiculturale.

Dalla presentazione del prof. Federighi:

“…..A partire dal 1986, a Prato si è dato vita ad un controllato processo di costruzione di un sistema urbano di educazione degli adulti che, oggi, ha oramai superato il primo quinquennio di attuazioni. La ricerca, impostata da De Sanctis assieme ai suoi collaboratori ed a Massimo Bellandi e Doriano Cirri, prospetta obiettivi e tappe di attuazione che giungono fino all’anno 2000. Oggi, a sei anni dal suo inizio, dopo aver percorso le prime fasi del suo processo di attuazione alcune risposte alle principali questioni fondanti la ricerca sono state date.
Realizzando attività educative organizzate per oltre mille cittadini ogni anno – per la maggior parte nel campo dell’educazione formale – sono state messe a fuoco le ragioni che finora hanno impedito o non hanno lasciato emergere le aspirazioni dei cittadini verso uno sviluppo intellettuale generale.
A partire dal ruolo di programmazione e di diretto rapporto con i problemi della gente, di gestione di servizi comuni ai diversi agenti educativi locali, si è definito, sia sul piano teorico che pratico, il ruolo di un Comune rispetto alle aspirazioni educative dei propri abitanti. Si è precisato come sia possibile dare inizio ad un processo formativo nel campo dell’educazione degli adulti a partire dal Comune. Ciò sia nella prospettiva di una ripartizione di competenze con le amministrazioni pubbliche sovraordinate, che nella possibile loro latitanza. Nello stesso tempo, praticando il superamento della contrapposizione tra accentramento e decentramento, tendendo a far assumere a ciascuno le proprie competenze – dai consigli di circoscrizione agli organismi nazionali ed internazionali – si è riusciti a raggiungere obiettivi sociali più avanzati……Il seminario – progettato e organizzato con Filippo M. De Sanctis, Doriano Cirri e Manuela Borchi – fu dedicato, come ricorda De Sanctis nell’Introduzione qui pubblicata, a Nabila Breir, educatrice degli adulti, che con noi aveva cooperato per la creazione dell’Associazione Mediterranea di Educazione degli Adulti, uccisa a Beirut.”

In relazione a questa dedica riporto il paragrafo conclusivo dell’Introduzione del prof. De Sanctis qui sopra richiamata. Il suo titolo assume un profondo ed inequivocabile significato: non c’è Cultura senza la Pace. E la Pace ha inizio e completamento all’interno delle Conoscenze e delle Culture.

E’ il paragrafo cinque, quello conclusivo dal titolo “A dedication for peace“

In the name of the Mediterranean Adult Education Association, I wish to ask participants to dedicate this seminar to the name of Nabila Breir. Nabila was an Arabian colleague who on the 18th of December, 1986, in Beirut, on his way to work, was barbarously assassinated. I met Nabila in Paris during the last assembly of UNESCO. On that occasion he worked towards establishing on behalf of the Association relations between Arabs and Israelis. Together we thought that neither yesterday’s or today’s conflicts should prevent us from working towards peace for tomorrow. The International Council for Adult Education has created a prize dedicated to the memory pf Nabila Breir. We invite you to join us in this enterprise.

una documentazione su un Progetto complesso di Educazione degli Adulti realizzato a Prato negli anni Ottanta -parte 3 (vedi post del 12 gennaio u.s.)

Il 3 ottobre dello scorso anno (1987), si è svolto a Prato un Convegno sulle nuove tecnologie in rapporto ai processi didattico-educativi, ma senza tener in alcun conto il settore dell’educazione degli adulti. Pur tuttavia sono anch’io (organizzatore di quel Convegno) dell’opinione che quest’ultimo settore non possa essere scisso dalla problematica didattica complessiva e che la creazione di uno scambio permanente delle reciproche esperienze possa servire anche ai settori primari e secondari dell’istruzione, addirittura in misura maggiore che allo stesso ristretto settore dell’educazione degli adulti; per questo ritengo che i presupposti e gli esiti di quel Convegno possano essere utilissimi per una riflessione che riguardi l’educazione nel suo complesso, anche per quel concerne più da vicino le problematiche educative connesse alle arti e allo spettacolo.
L’apprendimento e l’uso delle nuove tecnologie avviene ancora oggi all’interno di due canali che in nessun modo però dovrebbero essere separati: la fruizione “attiva” e la produzione diretta. Il primo è rivolto a tutte le sfere ed i settori educativi e riguarda la visione di materiali già prodotti: questo non può essere considerato, come ancora troppo spesso accade, un facile e comodo dolce diversivo rispetto alla lezione orale e, se non vuole proprio essere un’integrazione ad essa, deve essere sempre sostenuta (la fruizione attiva) da una scheda programmatica non solo contenutistica ma anche tecnica. E’ a questo tipo di lavoro cui mi riferisco quando parlo di una nuova professionalità dell’insegnante (vedi introduzione nel post del 12 gennaio 2020). In questo primo canale possono essere utilmente comprese anche la registrazione in video delle lezioni cattedratiche o meno che i docenti di norma debbono svolgere; questo aspetto prelude al secondo canale, che va riferito alla possibilità di utilizzare praticamente le conoscenze tecniche e teoriche sulla realizzazione di prodotti audiovisivi: se l’intervento primario sarà svolto in modo coinvolgente e seguito con attenzione gli allievi potranno cimentarsi nella scrittura e nella messa in opera di uno o più audiovisivi, la cui valenza sarà chiaramente di tipo educativo. Non si pensa affatto di far diventare gli studenti tutti operatori e tecnici cinetelevisivi, ma l’obiettivo rimane quello educativo riferito alla conoscenza approfondita delle nuove tecnologie e del loro uso più appropriato per narrare in modo diverso i propri mondi. E’ evidente che un progetto “particolare” riservato all’apprendimento delle nuove tecnologie trova qualche difficoltà e resistenza ad essere inserito nella scuola, dove esistono programmi, in qualche caso “ferrei” a favore dei quali soprattutto le vecchie guardie tra i docenti oppongono nella loro difesa strenua resistenza; ma parlando di “educazione degli adulti” mi torna facile prospettare per questo settore la realizzazione di un Laboratorio dell’Immagine, costruito tenendo conto del palinsesto di quello creato per gli allievi della scuola media superiore ed orientato, come quello, a misura dei fruitori “adulti”. L’esperienza di cui parlo è ancora in corso e risente delle problematiche di cui sopra, anche se la risposta a tale proposta è stata, e continua ad essere, molto elevata sia da parte dei docenti che degli studenti che vi hanno aderito. Questo va detto allo scopo di evitare sia i facili ottimismi sia l’altrettanto generico pessimismo: proprio in qualità di coordinatore di quel laboratorio l’idea di un suo sviluppo rivolto agli adulti mi stimola molto, mi interessa.

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una documentazione su un Progetto complesso di Educazione degli Adulti realizzato a Prato negli anni Ottanta -parte 4 (vedi post del 12 e 15 gennaio u.s)

Sono a ricordarvi che il documento, contenuto nel volume “Strategie per uno sviluppo generale dell’educazione degli adulti – Verso un 2000 educativo” è stato pubblicato nel 1990 per conto del Comune di Prato ed è riferito ad un seminario che si svolse in quella città dal 18 al 22 maggio 1988. E’ molto importante rammentarlo perché si comprendono alcuni tratti del mio intervento: siamo in un periodo nel quale utilizzavamo cineproiettori con pellicole 16mm e videocassette VHS. Per produrre si utilizzavano le U-matic e Betamax. Il computer aveva un uso pressochè esclusivamente amministrativo: serviva ai docenti per sostituire la macchina da scrivere.

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Oggi (1988), fra le altre opportunità, abbiamo anche un nuovo organismo che raccoglie operatori ed esperti del settore videocinematografico indipendente: si tratta dell’Associazione Film Video Makers, la cui presenza a Prato potrebbe essere importante all’interno della costruzione e realizzazione di un progetto di attività didattico-educativa che possa coinvolgere la più ampia gamma di presenze sociali: infatti ritengo che il ruolo delle Associazioni nell’ambito ricreativo culturale sia determinante se è qualificato il loro intervento, se esso è pienamente rispondente da una parte di una competenza accertata di settore, dall’altra a una effettiva – non importa se minima – richiesta di base. Troppo spesso si è verificato diversamente che interventi, anche dispendiosi, non fossero tutelati da questa doppia garanzia: e questo non dovrebbe assolutamente accadere! Altrettanto frequentemente non ci si è preoccupati di costruire interventi che andassero al di là della mera sussistenza provvisoria, allestiti più per ottenere contributi che per vero e proprio interesse con il risultato che, prima di nascere, erano già morti. Sono queste le linee d’intervento culturale che dovrebbero divenire fondamentali per tutti gli Enti pubblici. Il Comune di Prato, così come tanti altri Comuni, appare come uno dei sostenitori di questa linea di intervento culturale, anche se obiettivamente non è sempre facile tenervi fede, con una serie di iniziative che cercano di lasciare il segno e che, anche se non producono ricchezza economica, producono un arricchimento culturale. Fra queste vanno incluse quelle relative all’educazione degli adulti, il cui meccanismo assicura la piena rispondenza fra progetto e realizzazione pratica di esso.
Ritornando alle nuove tecnologie, relativamente alla loro introduzione ed uso all’interno dell’ordinamento scolastico, si deve affermare che siamo ancora all’anno “zero”. Intorno a noi si parla di telematica, di trasmissioni televisive senza frontiere, di strumentazioni e progetti sofisticatissimi, ma la cultura su cui si formano i nostri allievi, giovani o adulti, è ancora fortemente collegata al “libro di testo”: c’è dunque una “forbice” sempre più divaricata fra la società reale ed il sistema educativo ufficiale. Si aggiunga che nella scuola vige una situazione di forte incertezza, di elevata ambiguità e che le resistenze al “nuovo” sono molto spesso ammantate con alibi rivoluzionari “anti-istituzionali” chiaramente mistificatori. Mi spiego meglio: nella scuola è sempre più frequente l’uso “ludico” degli audiovisivi, pur essendo esso inserito all’interno di una programmazione didattica dei docenti; gli allievi vengono lasciati alla mercé del mezzo, oserei dire “parcheggiati” di fronte al monitor o al telone senza alcuna preparazione né a monte né a valle e solo in alcuni casi la “propedeucità” si basa su forme esclusivamente contenutistiche, anche perché – vale la pena sottolinearlo – i docenti sono complessivamente impreparati a percorrere strade di lettura più appropriata ed approfondita sul piano tecnico-formale. Non è che i docenti siano convinti che quel tipo di approccio vada bene, è semplicemente che si adagiano, scaricando poi la loro inevitabile frustrazione sull’istituzione, sulle problematiche dell’aggiornamento, sui regolamenti interni degli istituti, su tutto quello che giuridicamente sovrintende al funzionamento della scuola.

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una documentazione su un Progetto complesso di Educazione degli Adulti realizzato a Prato negli anni Ottanta -parte 5 (vedi post del 12, 15 e 17 gennaio u.s)

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Detto ciò, sembra quasi che io voglia far cambiare il titolo di questo Seminario, trasformandolo in “Verso un 2000…diseducativo”: credo invece che é proprio il rischio di avviarsi seriamente, almeno per quel che concerne il nostro Paese, verso una situazione sempre più difficile, verso un mondo di analfabeti di ritorno, verso una realtà scolastica sempre più lontana da quella tecnologica, ancora troppo elitaria, a sollecitare nel Comune di Prato, nella CEE e nell’Università degli Studi di Firenze, la necessità di una verifica con questo dibattito, con questo Seminario.
Il tema principale su cui si discute è l’educazione degli adulti, ma mi sia permessa una riflessione che non deve essere considerata una digressione: la mia esperienza di educatore dei giovani nella scuola media superiore mi fa consapevole delle forti carenze esistenti nell’ordinamento scolastico – soprattutto nei “curricola” e nei “programmi” – che definirò “normale”; questa consapevolezza deve essere utilizzata per evitare nel limite delle umane possibilità gli stessi errori nell’elaborazione di progetti che riguardano l’educazione degli adulti, far riflettere ancora una volta di più sulla situazione generale della cultura e dell’apprendimento, porre a fuoco proprio le ambiguità, le contraddizioni, l’arretratezza del sistema educativo e far diventare quindi l’educazione degli adulti la palestra per il rinnovamento generale dello stesso (il sistema educativo).
In effetti oggi nella scuola “normale” avvertiamo sempre maggiore la difficoltà di costruire un mondo a misura dei nostri giovani; questi sono destinati inevitabilmente – in questo tipo di ordinamento – a confrontarsi con la realtà concreta soltanto quando sono fuori dalla scuola e spesso ne sono estromessi drammaticamente o vi si immettono con difficoltà enormi, superando gli ostacoli a proprie spese, materiali e morali.
Rinnovare la scuola risulta essere un paradosso politico irrisolto oramai da alcuni decenni: i ragazzi studiano su programmi suggeriti in epoche lontane che si spera superate e dimenticate. Rinnovare la scuola in generale, adeguarla alle nuove tecnologie, formare il personale significa dare il via ad investimenti che solo apparentemente sono improduttivi: il guaio è che in Italia non esiste una seria programmazione che leghi il settore dell’istruzione a tutti gli altri e che, ad un settore pubblico sempre più in disfacimento, dilaniato da questioni sociali ed economiche, si contrappone un settore privato che da solo, in autonomia, costruisce i propri quadri, li prepara, li stimola, li incentiva.
In questa realtà così deprimente l’educazione riservata agli adulti organizzata dagli Enti Locali, pur non essendo la panacea di tutti i mali sopra descritti, risulta essere una sana boccata d’ossigeno, anche se investe (andando molto al di là di esse) solo alcune discipline scolastiche curricolari, anche se è orientata ad una preparazione con obiettivi ridotti ma non per questo meno importanti ed interessanti.

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Il Seminario si svolse dal 18 al 22 maggio 1988 nei locali della Biblioteca Roncioniana di Prato

una documentazione su un Progetto complesso di Educazione degli Adulti realizzato a Prato negli anni Ottanta -parte 6 ed ultima (vedi post del 12, 15, 17 e 19 gennaio u.s)

L’ uso delle nuove tecnologie deve penetrare, a mio parere, integralmente dentro i progetti di “educazione degli adulti”: il largo uso che nella società si va facendo (a proposito ed a sproposito, in positivo e in negativo) della cultura dei mezzi di comunicazione di massa deve essere correttamente riportato all’ interno della programmazione educativa riservata agli adulti. Questo soprattutto allo scopo di rendere più agile ed usufruibile l’ apprendimento: ad esempio vanno considerati i turni di lavoro ed i ritmi della vita moderna che non sempre permettono di seguire i corsi con assiduità e che risultano sovente essere il motivo predominante di rinuncia da parte degli adulti occupati. Questa flessibilità può essere ottenuta con le nuove tecnologie, sia attraverso l’ uso di materiale già preparato ed usufruibile direttamente, sia attraverso le riprese in video delle lezioni così dette cattedratiche, ma anche con la costruzione di lezioni preregistrate o la progettazione di interventi specifici sull’immagine che preveda di passare attraverso tutte le fasi per la realizzazione di filmati di vario genere. Tutto questo permetterebbe agevolmente ai frequentatori dei corsi di poter usufruire degli interventi culturali nel settore da loro scelto anche ventiquattro ore su ventiquattro: è chiaro che occorre strutturare diversamente tutti i corsi e che si rende necessario un periodo di sperimentazione che preluda alla costruzione anche di una Banca Comunale (o Intercomunale) degli audiovisivi culturali, didattici e di servizio, la quale deve essere a disposizione degli utenti, la caratteristica dei quali dovrà essere meglio delineata, per il prestito o l’ utilizzazione in loco del materiale audiovisivo. Risulta altresì importante, soprattutto per gli adulti, il poter disporre di tecnologie avanzate e di materiale meno dispersivo possibile, come spesso accade con i libri di testo, il poter scegliere sempre e comunque su ampi, molteplici e diversi percorsi per l’ ampliamento e l’affinamento della propria cultura.
Per un intervento di tale portata sono disponibile sia personalmente sia a nome dell’Associazione che rappresento a rimboccarmi le maniche, ad operare praticamente. Alcuni sono abili teorizzatori ma preferiscono non cimentarsi, attendendo gli errori dei più coraggiosi molto spesso per denigrarli, per mortificarli: scusate se considero me stesso ed i miei amici dei coraggiosi ma di certo ci vogliono caparbietà ed ostinazione per ottenere gli obiettivi che ci si prefigge.
Oggi occorre anche che chi possiede i mezzi economici, chi controlla i processi produttivi a tutti i livelli, chi detiene e gestisce il potere politico, chi istituzionalmente possiede le tecnologie vecchie e nuove e si va ponendo quale interlocutore privilegiato per le nuovissime, a partire da chi ha organizzato questo Seminario, chi vi partecipa non negando di certo belle frasi di apprezzamento, asserzioni convinte e pareri positivamente concordi con l’ampliamento di questo settore dell’ educazione, siano tutti poi coerentemente disposti a mettere in pratica tutto quel che di positivo sarà qui emerso. Diversamente queste giornate, questi incontri, questi discorsi rimarrebbero un vuoto esercizio retorico, così come ce ne sono stati tanti altri, si aggiungerebbero, questi, agli altri dispendi inutili di risorse pubbliche: ed anche questo nostro sincero desiderio di impegno sarebbe reso vano ed in ultima analisi risulterebbe fortemente frustrante, con il risultato che un progetto che tende al futuro finirebbe con il provocare un forte arretramento o un blocco dei processi tecnologici applicati al settore educativo e didattico, ed in particolare a quello degli adulti.

Joshua Madalon

FUOCHI – UN PERCORSO NELLA MEMORIA 

FUOCHI – UN PERCORSO NELLA MEMORIA

Prima di arrivare al sentiero che conduce verso Punta Serra c’è una strada sterrata abbastanza larga per consentire il passaggio di piccoli veicoli agricoli ad uso dei parulani della zona; è una strada solitamente molto polverosa d’estate che sbuca su un costone roccioso tufaceo dal quale vi è una delle più belle vedute dell’isola d’Ischia. E’ alto un settanta metri sulla spiaggia di Ciraccio che poi continua, interrotta parzialmente da una propaggine prospiciente, che quando ero ragazzo ricordo che si attraversava da un’ampia cavità interna (oggi credo sia parzialmente crollata e che abbia lasciato una sorta di faraglione), verso la spiaggia della Chiaiolella. Sullo sfondo poi l’Isola di Vivara collegata da un ponte in ferro e muratura. Da ragazzo a volte anche insieme ai cugini, in un primo tempo accompagnati dai nostri genitori e successivamente da soli ed in buona compagnia, scendevamo dalla costa attraverso sentieri comodi prodotti dai pescatori del luogo che da lì raggiungevano la spiaggia per salpare con le loro imbarcazioni, custodite in rimessaggi scavati nel tufo. Alcuni di questi ricoveri oggi sono stati bloccati da crolli delle pareti rocciose, così come i sentieri non sono più agili e percorribili senza rischiare di caracollare e sfracellarsi.
Ma il luogo è sede di ricordi indelebili di grandi amicizie: arrivati sul bordo del costone c’è un sentiero aperto prima di girare a destra per inoltrarsi verso Punta Serra e c’è una sorta di palcoscenico naturale che consente a chi si siede di avere anche le spalle coperte da un blocco per cui ci si sta davvero comodi ad apprezzare il panorama del mare di giorno e di notte. E noi andavamo spesso là, così come credo abbiano fatto i nostri parenti più anziani quando erano giovani e quando non erano condizionati da eventi drammatici come quello delle guerre. Era un luogo classico per gli innamorati: si poteva stare da soli come coppie ma anche in compagnia e potevano nascere storie come quelle di grandi amici miei. Ho sempre immaginato che anche mia madre e mio padre ci fossero stati! D’estate era d’obbligo in alcune serate andarci: il 10 agosto soprattutto in un cielo limpido e senza luna ci si stendeva e si attendevano gli scrosci di stelle cadenti per formulare i nostri desideri, mentre le luci dell’isola di Ischia, Ischia Porto e Casamicciola, si riflettevano sul mare ad un tiro di schioppo a poche miglia di distanza. Quella notte c’era tanta gente, era una tradizione andare da quella parte, anche perché già negli anni Sessanta del XX secolo, era meno presente quello che abbiamo poi imparato a conoscere come “inquinamento luminoso”. Di là c’erano le città, di qua il mare e l’Isola d’ Ischia che, pur essendo già un luogo molto frequentato dal turismo di qualità, era pur sempre un’isola. Procida era poi la più piccola, la più umile e modesta, anche se la più popolosa per densità; ma ancora agli inizi degli anni Sessanta alcune frazioni non erano state raggiunte dall’elettricità.

Sistemavamo i plaids sull’erba e sulla non troppo alta dorsale di terriccio e ci si appoggiava a mo’ di poltrona che “allora” con i nostri venti anni non ci sarebbe mai potuto apparire scomoda. Laddove la compagnia era dolce ci si accostava delicatamente e ci si teneva per mano, fingendo di non trovare motivo alcuno di attrazione con gli occhi rivolti al di là del mare ed il cuore e la mente che correvano l’uno incontro all’altra. Su quel costone ci si andava di notte, durante la settimana quando gli impegni mondani nei locali dove ci si scatenava ballando ci permettevano di organizzarci più liberamente ed in modo più o meno segreto ed appartato. Più o meno perché eravamo un gruppo ridotto e non praticavamo grandi compagnie: i locali dove si ballava erano quasi sempre aperti a tutti, avevi solo l’obbligo della consumazione e quello di essere cortese e generoso con le ragazze; non somigliavano affatto ai night degli anni successivi, quasi sempre si affacciavano su panoramiche terrazze, come l’”Eldorado” e lì poi ci suonava un gruppo di amici, i “Sailors”, con i quali mi incontravo quando preparavano i loro pezzi e ricordo che provai anche con scarso successo ad inserirmi come “vocalist”.
In quel periodo le vacanze duravano molto più a lungo; si ritornava a scuola ai primi di ottobre e settembre era un mese ottimo per prolungare le nostre storie, anche se alcune continuavano, altre si interrompevano; c’erano i forestieri che avendo affittato appartamenti per il mese di agosto lasciavano l’isola ai primi giorni di settembre e, di norma, anche le relazioni costruite in quei contesti finivano con la promessa di rivedersi al più tardi l’anno successivo. Erano gli amori “estivi”; poi si ritornava alla vita normale e si riallacciavano eventualmente le relazioni locali, laddove non fossero state interrotte in modo tempestoso.
Ai primi di settembre poi a Ischia ponte, che è quella parte dell’Isola che sta tra il porto ed il castello Aragonese, si ricorda il santo patrono, San Giovan Giuseppe della Croce e da bambino in qualche occasione ho partecipato direttamente a quei festeggiamenti andandoci con delle barche a motore dei cugini di mia madre; c’è sempre stato un buon rapporto di vicinato con la sorella maggiore tra Procida la più piccola ed Ischia la più grande delle isole campane. E così nell’andare avanti con gli anni e con gli interessi diversi si privilegiava l’aspetto profano rispetto a quello religioso; non è certamente solo quest’ultimo a spingere i fedeli, in quanto si approfittava dell’aria di “festa” anche per la parte ludica e quella eno-gastronomica con prevalenza della prima sulla seconda.
Il clou dei festeggiamenti è lo spettacolo pirotecnico che si è sempre caratterizzato per la sua straordinaria ricchezza di colori e per la partecipazione di grandi maestri di quell’arte.
Dal costone quei fuochi erano un degno finale di stagione per tutti noi.

Sull’isola, la più minuta ed umile delle Campane, molti sono i luoghi di culto, a partire da quella dedicata a San Michele Arcangelo. A me cara fu quella della Ss. Annunziata- Madonna della Libera vicina all’abitazione di una delle mie zie dove negli anni Sessanta arrivò uno di quei preti giovanili che utilizzavano l’oratorio sullo stile di Giovanni Bosco ed apparivano trasgressivi agli occhi dei bigotti ortodossi. La sua era una modalità coinvolgente ed aveva costruito un gruppo di giovani che preparava eventi amatoriali che riuscivano ad intrattenere i parrocchiani nei pomeriggi del fine settimana, quando anche io li trascorrevo in quei luoghi. Tra i tanti luoghi di culto ricordo la Chiesa di S.Antonio Abate (“Sant’Antuono” per distinguerlo da quella di S.Antonio da Padova non molto distante) dove le mie zie signorine già attempate mi portavano in alcune sere a seguire le loro giaculatorie nel periodo delle Quarantore o in particolari periodi per la recita del Rosario. Non erano frequenti e la mia attenzione era già allora di tipo antroposociologico ed osservavo con una certa attenzione la prossemica teatrale delle fedeli. Sin da bambino seguivo con grande partecipazione alcuni dei momenti parareligiosi, potrei dire popolari, che contornavano le ricorrenze: uno di questi era “’o fucarazzo”, cioè i fuochi di Sant’Antonio che non hanno nulla da spartire con la patologia dolorosa omonima.

Era (e dico “era” perchè non so se ancora oggi viene praticata questa usanza) un grande falò che veniva approntato nei giorni precedenti al 17 gennaio, giorno dedicato alla figura di Sant’Antonio Abate protettore degli animali (nella funzione religiosa del 17 gennaio i fedeli portano con sè i loro piccoli, medi ed a volte anche grandi, come cavalli e muli, animali per farli benedire). La tradizione del falò sembra collegarsi al ruolo che quel Santo avrebbe nel salvare gli uomini dalle fiamme dell’Inferno. Eppure dal punto di vista climatico quel giorno in ogni caso segna un punto centrale nel passaggio tra la parte più fredda dell’anno a quella più mite (siamo a metà inverno) e ci si prepara alle varie fasi dell’agricoltura dopo il riposo postautunnale. Davanti al fuoco c’è festa, allegria soprattutto per i giovani è un momento magico di ritrovo e di complicità; anche per me lo è stato come lo fu per le popolazioni primitive, i nostri antichissimi progenitori che con il fuoco impararono a costruire il loro futuro, allontanando i pericoli, rielaborando i cibi in modo più adatto alle loro esigenze e creando la comunità. Intorno al fuoco ci si riuniva anche nella intimità delle case non ancora dotate di forma alcuna di riscaldamento che non fosse fornito dai bracieri e la sera si narravano le storie, quelle personali fatte di ricordi elaborati e quelle tradizionali, sotto forma di favole che venivano tramandate da madre a madre. Intorno al fuoco.

Erano quasi le venti ed avevamo appena finito di cenare, Mary ed io con I bambini. Quella stessa sera eravamo tornati da Napoli dove avevamo avuto impegni di lavoro e di famiglia. I bambini erano rimasti con i nonni al mare e noi a scuola per gli Esami di Stato. Finiti quelli, avevamo programmato di tornare a casa, a Prato per una settimana e saremmo andati poi in vacanza per un altro paio di settimane sulla riviera romagnola.
Il viaggio di ritorno era stato come sempre snervante. I nonni facevano a gara per colmarci di cibarie tradizionali – il pane, la mozzarella, i pomodori buoni, il vino, l’olio – questi due ultimi dopo la nascita del secondo bimbo avevamo evitato per mancanza di spazio di portarli. I primi no, perché a Lavinia il “pane di Pozzuoli” piaceva da matti e per noi la “mozzarella di bufala campana” è ancora oggi il non plus ultra dei prodotti tipici. I pomodori, poi….erano quelli grandi e senza molti semi. Caricare la macchina era uno stress e lo è ancora oggi. E poi dover percorrere 500 chilometri non era poco, se per farne solo dieci ci si impiegava un’ora nel traffico intenso sulla Tangenziale, irta di pericoli che non ti aspettavi con autisti di Formula 1 su Alfette e 500 che zigzagavano a tutto gas, senza controlli e senza alcuna segnalazione. Mary era stanca e si insediò nello studio, lasciando tutte le finestre e le porte-finestre aperte e spalancate perchè passasse un po’ di aria fresca.
Avevo promesso ai bambini di portarli fuori: loro non erano stanchi, si erano svegliati tardi quella mattina e poi avevano dormicchiato per alcune ore durante il viaggio.
Lavinia si preparò più velocemente del solito, mentre per Daniele fu necessario il mio aiuto. Era già buio quando uscimmmo di casa. Io ero già cotto abbastanza ed avrei volentieri fatto a meno, ma ogni promessa, come si dice, è un debito. E così uscimmo. Malvolentieri allo stesso modo risalii in macchina, ne avrei fatto a meno ma non potevamo andare a piedi. Il luogo era un parco di medie dimensioni che durante l’estate veniva utilizzato per feste e fiere varie e quella era l’ultima sera della Festa de l’Unità. Parcheggiammo in uno spiazzo sterrato abbastanza sconnesso e polveroso; ci aiutò a cercare un posto in una marea di auto un ragazzo di colore che mi chiese un contributo. Poi come sempre accadeva c’era la forca dell’ingresso con la distribuzione delle coccarde a quel tempo ancora rosso fuoco, in cambio di un contributo a piacere, minimo 1000 lire però! L’ingresso era comunque quello secondario che portava ad un viale appartato dal resto della Festa, ma fummo tutti sorpresi dalle voci che sentivamo provenire dal pratone al di là delle alte siepi. Lavinia e Daniele saltellavano mentre ancora li tenevo per mano, timorosi di potersi smarrire tra la folla. Le voci indistinte e confuse ci arrivavano mentre i venditori degli stand che erano sistemati lungo il vialone principale invitavano gli astanti e i passanti ad assaggiare i loro prodotti o ad acquistare l’ultimo dei biglietti disponibili per il sorteggio che di lì a poco – dicevano – sarebbe avvenuto con l’utilizzo della ruota. Daniele era attratto dallo zucchero filato mentre Lavinia gradiva le schifezzuole gommose davvero disgustose.

Riprendo un racconto che avevo interrotto lo scorso 9 dicembre (parte 4) che era stato preceduto il 22 novembre dalla parte 3, l’ 8 di quello stesso mese per la parte 2 e per la prima parte il 5 novembre.
Il racconto partendo da eventi occasionali – esposti tuttavia in una parte introduttiva relativa ad una recensione datata 13 settembre 2014 che qui sotto riporto – si spinge poi nelle due parti conclusive (la quinta, questa!) e la sesta, che pubblicherò nei prossimi giorni, a rievocare una Festa de “l’Unità”, una delle tante, ora che sono diventate solo un ricordo!


FUOCHI di Joshua Madalon – Un preambolo (13 SETTEMBRE 2014)

I fuochi d’artificio non si guardano mai da soli; sin da bambini ci hanno abituati a goderli “insieme” agli altri. E ancora adesso che ho figli adulti quando mi capita di sentire scoppiettii mentre lavoro in casa nelle notti sempre più insonni li chiamo a raccolta per goderne gli effetti variopinti e fantasmagorici. Se devo andare con la memoria a dei “fuochi” particolari nella mia mente ce ne è uno che ha rappresentato l’arrivederci per un gruppo di amici che, dopo poco, si è distribuito su territori diversi per lavoro. Di qualcuno di questi ho il profondo rimpianto di non poterlo rivedere. Eravamo ventenni ed a fine Agosto a Procida sul costone del sentiero che porta a “Fore Serra” e che guarda dall’alto Ciraccio, Chiaiolella, Vivara e Ischia attendevamo intorno alla mezzanotte i tradizionali “fuochi” della festa dedicata a San Giovan Giuseppe della Croce. E’ un ricordo per diversi motivi malinconico ma straordinariamente fissato nella mia memoria che ritorna ogni volta che assisto ai “fuochi” anche qui, dove vivo da alcuni anni, a Prato.
Ed è stato così giocoforza riandarci con la mente, avviando la lettura di “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” scritto da Vincenzo Gambardella. L’autore sarà presente a “Libri di mare libri di terra” Festival della Letteratura nei Campi Flegrei che si svolgerà a Pozzuoli, Bacoli e Monte di Procida dal 26 al 28 settembre. Ho già scritto nell’anticipazione che si trattava di un libro complesso e difficile, e mi riferivo in particolare alla qualità della scrittura che si basa su una prosa tecnica elaborata con un gergo popolare che, sin dall’inizio, impone al lettore una revisione profonda nell’approccio consuetudinario ai testi che circolano correntemente. Ma, attenzione, il mio è un giudizio condizionato dall’impressione che ho avuto dopo letture di ottimo livello ma caratterizzate da lessici a me familiari. Niente di tutto questo troverete in “Vinicio Sparafuoco…”! Ma dopo la prima fatica vi assicuro, e lo sottolineo senza ambiguità e condiscendenza supina o piaggeria che dir si voglia, che ci si trova davanti ad un autentico capolavoro letterario.

La storia narrata è quella di un gruppo di amici che si formano intorno al protagonista Vinicio Pierro come fuochisti. Nel libro il gergo particolare di questa professione è spesso utilizzato in modo scientificamente appropriato e potrebbe servire come “manuale per i principianti” (io stesso sono andato a ricercare sul web alcuni termini come “calcasse”). Insieme questa allegra brigata (ma vi saranno momenti tristi e drammatici anche se raccontati con estrema semplicità) partirà dal golfo di Pozzuoli per andare verso il Nord fino all’algida Germania per poi dopo vicende cui non accenno far ritorno in Costiera amalfitana (Minori) dove alcuni sogni trovano il loro positivo approdo. Se ho dato questo giudizio entusiastico lo si deve al lessico ed alla sintassi frizzante, scoppiettante e variopinta come i fuochi d’artificio. La descrizione dei personaggi è precisa e dettagliata a partire da Vinicio, cuore semplice, generoso ed umile all’inverosimile in una realtà come quella con cui siamo abituati a lottare quotidianamente, un “cuore gioioso” come lui stesso dice di sé con toni ingenui, primitivi e colti allo stesso tempo ma di una cultura popolare che è sempre più martoriata e trascurata (leggansi le “lettere” che Vinicio – in più occasioni – e Costanzo Ceravolo detto Magnesio scrivono anche a personaggi importantissimi come il Negus, la Regina d’Inghilterra e papa Wojtyla). Insieme a queste sono pagine di grande letteratura quelle dedicate alla storia di San Gioacchino e Sant’Anna, il cui culto è praticato a Bacoli, la terra flegrea da cui partono i nostri personaggi ed altre che non mancheranno di coinvolgervi e di trasmettervi piacere, se coglierete il mio consiglio di leggere “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” di Vincenzo Gambardella edizioni “ad est dell’equatore” collana liquid.

FUOCHI – parte 5

Salutai rapidamente alcune compagne che erano sedute davanti alla tenda della Direzione, e che mi avevano invitato a stare con loro per discutere delle questioni politiche di inizio estate, che erano quasi sempre legate ad aspetti marginali, e anche per questo motivo feci segno che ci saremmo visti dopo, un dopo generico, e che ero impegnato con i pargoli, che non avrebbero troppo a lungo tollerato le mie distrazioni. Infatti già prima del mio fugace saluto non degnarono di alcuna attenzione le signore e proseguirono il loro cammino verso uno spiazzo dal quale provenivano musiche e voci, entrambi incomprensibili.
All’improvviso si aprì un varco nella vegetazione e le musiche e le voci divennero ben più vicine ma ugualmente poco chiare, indistinte. Ed insieme a queste in un grande prato illuminato a giorno apparvero centinaia di ragazze e ragazzi dagli occhi a mandorla che si agitavano urlanti verso un palco sul quale si esibiva un complesso formato da giovani ugualmente cinesi ed una ragazza pronunciava parole che il pubblico mostrava di comprendere e di poter condividere cantandole. A conti fatti, dopo la prima sorpresa la melodia era gradevole anche se non ci capivo niente. Lavinia e Daniele, miracoli della giovinezza, non mostrarono alcun disappunto sin dall’ingresso sul prato. Dove si sedettero continuando ad operare sul residuo di zucchero filato e schifezzuole gommose. Feci buon viso a cattivo gioco, ma ho un ottimo spirito di adattamento e mi impegnai, tranquillo per i figlioli che erano ormai bloccati da altre torme assise ed agitate in uno spazio ristretto, ad osservare le fisionomie, le loro smorfie, la loro prossemica del tutto simile a quella delle migliaia di giovani che a mia memoria avevano seguito concerti delle più importanti formazioni pop della mia gioventù. Erano belli di una bellezza che non riesci a cogliere in altri ambienti, quelli scolastici o di lavoro, dove molto spesso hanno un atteggiamento di straordinaria riservatezza. Lì i giovani si agitavano, urlavano, bevevano bibite tassativamente analcoliche e si abbracciavano, si baciavano in modo casto, abbandonando il classico pudore che li contraddistingueva in ambienti ugualmente pubblici ma dove non c’era la musica, che avvicina, accosta, facilita i contatti. Mi venivano in mente concerti degli anni Settanta, i figli dei fiori, la ricerca dell’assoluto, il rincorrere le utopie senza mai riconoscerle tali.
Sul palco intanto si alternavano ragazzi e ragazze gareggiando in una sorta di Karaoke cinese ed allora compresi che l’agitazione esagerata aveva un obiettivo molto pratico di sostegno ai vari concorrenti sia per la qualità sia per una conoscenza diretta da parte dei vari gruppetti di amiche ed amici.
Mi distrasse un attimo l’arrivo di un funzionario del Partito che volle salutarmi ed assicurarsi che nei giorni successivi io fossi a Prato. Volevano programmare alcune iniziative culturali per l’autunno ma pensavano di vedersi quasi a fine luglio. Dissi che non potevo ma che se fosse stato possibile avrei dato la mia collaborazione sin dai primi giorni del mese di settembre, alla ripresa del lavoro scolastico.

Ero stanco, ma allo stesso tempo attratto da quella folla straordinariamente ordinata nella sua giovanile prorompente allegria. E i due rampolli si erano sistemati e partecipavano con insolita attenzione allo spettacolo naturale che si andava svolgendo. Poi, all’improvviso tutto sembrò chetarsi. Anche io avevo trovato un lembo di prato libero e mi ero accovacciato accanto a loro. E fu solo un attimo dopo che mi ero sistemato che un “Ooooh!” collettivo accompagnò il primo fuoco che fiorì proprio davanti a noi alle spalle del palco dal quale si erano esibiti i karaokisti. Il botto che seguì di pochi millesimi di secondo non fu così intenso, nessuno se ne accorse soprattutto perché nello stesso tempo una pioggia di luci sembrò riversarsi su tutti. “Sembrò” con quell’effetto speciale stroboscopico che provoca timore negli inesperti, ma non ve ne furono tanti a rendersene conto. Gli stessi pargoli si erano distesi utilizzando come cuscini alcuni sassi ricoperti dalle morbide giacchettine leggere che Mary mi aveva dato prima di uscire, raccomandandomi di non far loro prendere freddo. Mi girai intorno e mi accorsi che ero tra i pochi ad essere rimasto in piedi e così mi feci fare un piccolo spazio, posi a terra la mia giacca e mi distesi con lo sguardo all’in su verticale ma anche obliquo verso la parte alta del palco. E non tardò dopo l’annuncio, l’apertura che dà il segnale di “attenzione”, a riprendere la “tarantella” delle stelle e delle bombe di varia forma, caratteristica e colore che illuminarono il prato dopo che per rendere migliore l’effetto erano state spente molte delle luci che avevano accompagnato le precedenti esibizioni canore.
Si susseguirono bombe a stelle e colpo scuro di colore rosso e verde a quelle “granatine” e “a raggi”, a “cannelli”, a “crociera di sfere” tutte mescolate con grande sapienza tecnica. E di poi nelle variazioni a più “spacchi” con lancio di di “stelle” a colori diversi che si dirigono in varie direzioni e sembrano quasi volerti abbracciare e colpire; ed ancora con “paracadute” ed altre forme geometriche, colorate ed eleganti come le bombe giapponesi di vario calibro. Tutto durò una buona mezzora anche se il tempo sembrò molto più breve e veloce. Il finale fu epico, tambureggiante, come ben si addice a professionisti di primo livello e con gli ultimi boati, quelli sordi, che danno il senso della compiuta operazione pirotecnica, partì un applauso sincero corrispondente alla felicità che era stata diffusa su quel prato.
Tempo dieci minuti, un deserto: o quasi. I bambini erano visibilmente stanchi, Daniele volle essere preso in braccio che non reggeva più dal sonno, forse anche Lavinia se ci fosse stato un posto libero tra le mie braccia ne avrebbe approfittato. Ma erano già occupate e da un peso non indifferente. Ma tant’è: mi avviai al parcheggio lungo il vialone che era ormai semideserto. Avevo anche il viaggio di poco più di cinquecento chilometri sul groppone. Mi fiondai a casa, stanco morto. Mary non dormiva ancora; è sempre così, non viene con noi ma è in pensiero finché non ci vede tornare. Daniele continuò a dormire forse sognando ancora quelle luci incantate, e Lavinia invece con toni bassi le andava descrivendo alla madre. Chissà per quanto tempo ancora avranno ricordato quei “fuochi”; chissà in che modo ne parleranno ai loro amici ed a quanti dopo di noi verranno; chissà se accadrà mai che condivideranno con i loro figli queste esperienze.

…ancora sulla Scuola: un doveroso recupero

Abbiamo vissuto un tempo strano, per alcune parti di esso e per alcuni di noi, un tempo “sospeso”. Si agiva perennemente sotto una cappa minacciosa di un nemico invisibile.

E’ stato anche il tempo delle “mancanze”, materiali e spirituali, quella forma di consapevolezza che “dopo questa esperienza non potevamo più essere gli stessi”, che avremmo dovuto far tesoro di tutto quello che ci stava coinvolgendo, che interrogava severamente il nostro stile di vita, che ci spingeva, attraverso le varie tipologie di solitudine ad interrogarci più a fondo. Abbiamo potuto, laddove ci era permesso da un certo livello di serenità, lavorare al recupero di una memoria che si era andata appiattendo nell’immediato facendoci rimpiangere la realtà, nel suo complesso, “precaria”, di una società sospinta verso il consumismo sfrenato, un edonismo leaderistico a tutti i livelli che aveva condizionato l’economia producendo un divario sempre più forte tra ricchi più ricchi e sempre più numericamente ridotti e poveri più poveri e sempre più in crescita numerica.

Si è finito per correre un rischio, che ancora incombe come una classica spada di Damocle sul nostro futuro, che è stato quello di credere e di far credere, complici la dabbenaggine ipocrita di una gran parte del mondo politico, che il mondo nel quale avevamo vissuto prima dello scoppio della pandemìa fosse paragonabile ad un’ età dell’oro, nella quale tutto funzionava a pennello, il lavoro era strasicuro in tutto e per tutto, le regole in generale venivano rispettate, l’ambiente era curato al fine di evitare i disastri che già si andavano annunciando, le scuole erano luoghi ameni accoglienti e sicuri, dove far crescere i nostri giovani e potersi cimentare con le nuovissime tecnologie ed aprirsi al futuro alla pari con tutti gli altri paesi avanzati.  Ovviamente, nella memoria collettiva, i treni “allora” viaggiavano in orario. Allo stesso tempo “allora” i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta venivano rispettati, le leggi valevano per tutti, indistintamente. Si stava “allora” affinando tutta quella parte legislativa che avrebbe definitivamente aperto le porte al riconoscimento ed alla valorizzazione delle diversità, avrebbe consentito l’accoglienza ed assegnato la cittadinanza a chiunque si fosse sentito parte del nostro Paese.  Il Belpaese dove per l’appunto “allora” i treni arrivavano in orario. E nella Sanità pubblica i livelli assistenziali erano garantiti e diffusi al massimo su tutti i territori.  E nella Scuola i livelli di di dispersione e di abbandono erano scesi ai minimi termini, quasi azzerati; e per abbattere quei livelli si era aperta una vera e propria progettazione per il recupero dell’alfabetizzazione con corsi, diffusi su tutti i territori da Sud a Nord, di Educazione degli Adulti, soprattutto di Alfabetizzazione digitale riservata soprattutto, anche se non solo, agli anziani; e sui territori la partecipazione delle comunità in senso ampio era considerata dalle Istituzioni una ricchezza da incentivare con copiosi investimenti;  e poi “in quel tempo” veniva riconosciuto il merito, valorizzando le competenze e le peculiarità di ciascuno fino ai livelli massimi.

Ecco, con questi presupposti da “Libro dei sogni”, collegati alla drammaticità della realtà con cui si doveva fare i conti (i bollettini dei contagi dei ricoveri e dei decessi; le difficoltà economiche di una parte consistente della società; la precarietà e soprattutto l’incertezza verso il futuro) attendevamo che l’emergenza finisse anche con la collaborazione del mondo politico che incondizionatamente, come nei tempi passati, si era impegnato in una battaglia comune, senza personalismi senza distinzioni ideologiche, per garantire il superamento più rapido possibile delle difficoltà e per riprendere a vivere nella normalità quotidiana la nostra socialità, come avveniva per l’appunto “prima” che la pandemìa ci confinasse nei piccoli ristretti recinti dei trecento metri di raggio.

Era – come tutti sappiamo – un sogno dentro un incubo, un incubo dentro un “sogno”.

Quel che è accaduto davvero lo sappiamo tutti

Ovviamente, ci sono gruppi che hanno mantenuto un loro contatto anche durante la pandemia ma tanti altri si sono invece dispersi in tutto questo tempo, pur mantenendo un profilo di presenza critica individuale o poco più, riducendo drasticamente il numero delle frequentazioni. Questo è stato reso necessario soprattutto per tutti quelli che rischiavano in maniera più seria di contagiarsi e correre rischi letali.

Per altri, anche perché sospinti da necessità impellenti inderogabili come il proprio lavoro, non è stato così ridotta drasticamente la propria socialità, anche se – come ben si comprende – tutti hanno lasciato dietro di sè una scia di mancanze che, ce lo siamo detto in modo particolare riferendoci alle giovanissime e giovani generazioni, sono state insopportabili e foriere di conseguenze non solo sul piano psicologico.

Di certo è stato rallentato per un periodo anche il normale attivismo delle forze politiche, anche se in questo rallentamento – come accade negli equilibri generali della vita comune – a rimetterci maggiormente  sono state le realtà periferiche, del tutto escluse da una pur minima forma di partecipazione. Questa esclusione ha condizionato anche le strutture periferiche dei partiti più forti dal punto di vista del consenso elettorale.

A livelli più ampi tuttavia, accontentandosi della marginalità, in questa lunga attesa di poter riemergere, si è andata man mano diffondendo una mancanza di fiducia verso gli altri. E per certi versi questa permane ancora.

Noi siamo in una realtà periferica; noi apparteniamo a quella parte di società che è stata più ampiamente condizionata dalla pandemia. Quello che è accaduto con la chiusura degli spazi sociali come ad esempio un Circolo come questo ha prodotto danni enormi non solo economici ma anche culturali sociali e tout court politici. Ed è stato quasi naturale per ciascuno di noi avvertire questa sensazione di abbandono. Poi un poco alla volta si avvertono in controtendenza segnali di ripresa.

Quello di cui oggi parliamo è uno di questi.

Quando sono stato contattato, ero proprio per l’appunto già in un luogo diverso dal solito e sono stato sorpreso dalla proposta, che riapriva i miei orizzonti e mi sollecitava a occuparmi di nuovo di quel che mi appassiona. I temi della Cultura e della Scuola sono stati i compagni della mia vita e della mia esperienza assoluta. In qualche modo, non li avevo trascurati del tutto durante la clausura pandemica; avevo continuato quasi quotidianamente a trattarne sul mio Blog, recuperando quel che avevo scritto, detto e soprattutto fatto.

Non appena il documento mi è stato inviato il 30 luglio ho attivato il Circolo, pur sapendo che – per tutto agosto – non avremmo potuto organizzare nulla, per la classica diaspora vacanziera. Pur tuttavia, non avendo partecipato pienamente alla diaspora, il 17 agosto ho cominciato a contattare i punti di riferimento che mi erano stati dati. Abbiamo fatto partire il gruppo su whatsapp il 23 agosto e poi siamo andati avanti e abbiamo condiviso tutta la fase organizzativa, con le difficoltà che appartengono al periodo.

Mettere insieme un evento dopo un periodo di inattività è stato entusiasmante ma anche molto difficile.  Di tanto in tanto ci si sentiva con chi mi aveva contattato, che non ci ha fatto mai mancare il sostegno. Devo (dobbiamo) ringraziarla, così come dobbiamo ringraziare chi ha coordinato e poi realizzato il Documento.

Ho detto e scritto della sua ampiezza, profondità, compiutezza. Dovrà, esso, essere utile soprattutto a chi oggi ha venti anni, come chi con me ha cooperato a realizzare questo incontro, o poco più come qualche altro giovane qui presente. Dovrà essere un monito per tutti quelli che sono stati giovani pieni di entusiasmo e volontà di sovvertire il mondo delle inconcludenze, delle approssimazioni, delle emergenze; quelli che si sono seduti poi comodamente sugli scranni di ministeri e assessorati e stanno ancora lì a guardare quello che non va, come se non fosse anche colpa loro, come se non dipendesse anche da loro il degrado attuale del mondo della Scuola.

Non è formalismo dire che perlomeno le nuove generazioni potrebbero aiutarci ad affrontare il disastro e costruire un futuro diverso; occorre dire “basta” alle enunciazioni nude e crude che non producono effetti per timidezza o convenienza, non saprei se l’una o l’altra oppure l’una a copertura dell’altra. Di certo “da soli non si va da nessuna parte e se i pochi non diventano molti poi prevale lo scoramento l’acquiescenza.”

Ritornando al documento, scendendo sulle questioni trattate, e avviando quella che può essere un’introduzione da parte di Eulalia, bisogna dolorosamente sottolineare che la realtà pratese quanto ai numeri di dispersione ed abbandono scolastico è assai simile a quella di aree che consideriamo degradate. Non meno grave è la situazione dell’edilizia scolastica.

Sul tema dell’insufficienza della potenzialità di un’offerta culturale adeguata ai tempi a causa dell’inadeguatezza delle strutture edilizie esistenti c’è il recentissimo XIX Rapporto di Cittadinanza attiva che, pur occupandosi in particolare degli asili nido, riporta a pag.9 la denuncia relativa alla mancanza di agibilità per oltre un 50% degli edifici in tutto il Paese. Quanto ai dati sulla dispersione e abbandono per quest’area vale la pena consultare per ora il Rapporto 2018 sulla scuola pratese prodotto dalla FIL.

Ho già detto che il Documento Manifesto “La scuola salva il mondo” è un testo importante da cui partire per costruire la Scuola degli anni a venire, proprio riprendendo il cammino dalle macerie che la pandemìa ha messo in evidenza. E allora mi sono posto una domanda che è poi ben chiarita nella parte introduttiva – e cioè come è nata l’esigenza di affrontare questa ampia discussione che ha condotto alla stesura del Documento –  ma ci aggiungo quella che è per me la fase più importante, quella realizzativa. Come, con quale percorso propositivo, Possibile che rimane per ora una piccola parte della Sinistra intende affrontare il necessario confronto con il resto della Sinistra e con tutte le altre forze sociali e culturali che ne condividono i valori.

L’evento di presentazione è stato seguito e partecipato – scriverò poi quel che è accaduto prima (passato prossimo) e quel che accadrà dopo (futuro semplice)

I ringraziamenti in primo luogo a Rosalba Bonacchi responsabile di Possibile Pistoia, che mi ha chiesto, pur sapendo di essere “estraneo”  di occuparmi dell’evento a Prato. Poi a Benedetta Pazzaglia Guddemi che ha sopportato in questo mese e mezzo le mie “lezioni” politiche. Ringrazio Marzio Gruni per il sostegno costante che ha dato, pur in un momento non semplice della sua vita professionale. Ringrazio il Circolo di via Cilea, in primo luogo il Presidente “emerito” Livio Santini e poi il Presidente attuale, Massimiliano Biagini. Ringrazio tutti quelli che hanno risposto al mio invito (l’evento era targato “Possibile” ma ne ero organizzatore unico), intervenendo, a partire dalla Dirigente scolastica ex comprensivo “Mascagni” attualmente al “Dagomari”, Claudia Del Pace; il docente Emanuele Bresci dell’associazione lgbtqia+ di Prato, con cui ho interloquito in diverse occasioni per preparare questo evento; il Dirigente scolastico del professionale “Marconi”, Paolo Cipriani, con il quale mi sono intrattenuto a parlare di formazione permanente dei docenti; il Direttore della Agenzia del lavoro FIL, Michele Del Campo, da sempre mio interlocutore sulle tematiche civili ed in particolare dell’inclusione, della dispersione e dell’abbandono;  Luca Mori ex Presidente di Libertà e Giustizia da sempre attivo nelle campagne referendarie e  nel Coordinamento Difesa della Costituzione; Stefania Colzi, attuale Presidente di Libertà e Giustizia e con l’uno e con l’altra abbiamo da tempo attivato un rapporto di cooperazione per diffondere sui territori la conoscenza delle tematiche costituzionali; Giusy Modica, presidente di New Naif, cooperativa di assistenza sociale non residenziale per anziani e disabili; Mirco Rocchi, docente, artista scenografo e costumista, con cui abbiamo fondato il soggetto civico di Prato in Comune; Simona Rosati, del Programma Città amiche di Unicef.  Attraverso l’impegno di Benedetta ed insieme a lei ringraziamo anche la presenza dei Giovani Democratici Prato con Niccolò Ghelardini e della Consulta Studentesca di Prato nonché La Piazza degli studenti, con il Presidente Niccolò Sanesi.

Ringrazio per la loro presenza Lia Guardascione, Aldo Augurio; Maurizio Artusi, Nicola Verde, Fabio Falchi, Ilenia Innocenti, questi due ultimi membri della delegazione di “Possibile Prato”.

Ringrazio Eulalia Grillo, portavoce nazionale per la scuola di Possibile, che ha coordinato in modo egregio i gruppi di lavoro sulle diverse tematiche relative al mondo della Scuola, che in definitiva rappresenta l’intera società italiana e tutta la complessità di essa. Parlare della Scuola e puntare ad una vera e propria sua ristrutturazione, inserendola pienamente nella modernità, declinata in senso ambientalista e rispettosa delle diversità, accogliente e aperta ai più diversi contributi, significa impegnarsi per un profondo cambiamento di ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Il suo intervento, breve ma significativo, ha contribuito a chiarire le ragioni di questo documento e le prospettive che “POSSIBILE” si propone di percorrere, durante e dopo questi incontri su tutti i territori della nostra penisola.

Ringrazio Benedetta Pazzaglia Guddemi portavoce del partito “POSSIBILE” qui a Prato per il suo contributo organizzativo, particolarmente indirizzato alla partecipazione giovanile, e per il suo intervento che, sulla scia di quanto esposto da Eulalia, si è soffermato sul ruolo che hanno avuto i giovani nella stesura del Documento. Ringrazio anche Claudio Vignoli co-portavoce del Partito per aver coordinato insieme a me i lavori dell’iniziativa.

Come spesso è  accaduto, l’organizzazione di un evento culturale presenta delle incertezze, soprattutto quando per necessità o per scelta molte delle incombenze fanno capo ad uno, ed uno solo. In due o tre o ancor più ci si rincuora a vicenda, ma con il più e il meno qualche passo in avanti si compie ogni giorno. C’è stata anche la pandemìa ed una certa solitudine imposta sia da essa sia dal trovarsi in una zona periferica, assolutamente dimenticata (e San Paolo non è la realtà più periferica della città di Prato: anzi! è a pochi passi dalla frontiera cittadina), trascurata se non che in quelle poche occasioni che servono da passerella per i vari politici, amministratori, assessori, portaborse di vari colori politici. Ad ogni buon conto, l’evento andava organizzato facendo ripartire i precedenti contatti (più o meno quelli che risalivano all’incirca al dicembre 2019) e ricercandone di nuovi, utilizzando i social che in questo anno e mezzo abbondante sono stata l’unica soluzione alla solitudine quasi totale (per fortuna, la famiglia e qualche amico ci hanno lenito le sofferenze che per un “homo socialis” quale io ero stato erano molto forti). Le difficoltà, dunque, non sono state poche; partire tanto prima poi ti poneva dei limiti per la presa in considerazione del tuo invito (ho avviato i motori ai primi di settembre per un evento che si sarebbe tenuto il 10 ottobre) e poi c’era una disabitudine ad avere come interlocutore uno che, a qualcuno e forse a più di uno, poteva anche essere sparito, anche per sempre, tra le vittime di questa pandemìa. Mentre scrivo mi tocco e faccio corna, da buon partenopeo.                                             

Pur tuttavia trovavo necessario anticipare il mio invito, in quanto era collegato alla presentazione di un ricchissimo stimolante documento manifesto prodotto da Possibile, quella piccola realtà politica fondata da Pippo Civati. Un documento composto da 82 pagine, pieno di sollecitazioni a riflettere e ad aggiungere le proprie esperienze. Un documento che per me rappresenta tutto un Programma politico e culturale, “La Scuola salva il Mondo” che riecheggia pagine e pagine di mia scrittura collegate alla Cultura, che non è poi così diversa dalla “Scuola”. Per non aggiungere che sul mio Blog, questo, vi sono ormai centinaia di miei contributi dedicati alla Scuola ed alla Cultura e sono molto critici sia con i Governi di Centrodestra (vedi “Gelmini”) sia con quelli di Centrosinistra (Berlinguer, Giannini, Carrozza, Fedeli, Azzolina etc) che hanno avuto verso la Scuola un atteggiamento di superiorità a volte aristocratico a volte cialtrone e quasi tutti si sono occupati solo di tamponare le emergenze senza davvero procedere ad una Riforma che comprendesse ogni aspetto degno di essere attentamente valutato. Tornando al mio “lavoro” organizzativo mi sono ritrovato davanti a tutta una serie di difficoltà con mail che sembravano essersi perse nei meandri del Palazzo comunale. E’ il segno del valore che danno a chi in modo disinteressato intende impegnarsi ancora. Ed è il segno del loro “valore”.

…mentre vagavo nel Limbo…

…il dibattito spesso sgangherato intorno ai temi della “guerra”…..

…..una Sinistra disarticolata che ha messo in evidenza la sua profonda incapacità di riflettere di ragionare di far operare il dubbio, puntando troppo spesso solo e soltanto sulle proprie “inossidabili” certezze….per non smentirsi!

E’ una costante, purtroppo. Ma se non si ragiona e ci si ostina solo ed esclusivamente a difendere le proprie certezze non si può essere in grado di modificare alcunché. Se ci si arrocca non si può affermare che si ragioni; anzi, quel modo di fare è la conferma che non si potrà mai arrivare ad un cambiamento.

Siamo a ridosso del centesimo giorno di guerra. Ma con la mente occorre andare indietro nel tempo per poter poi riconoscere che non è stato fatto nulla affinché la tragedia non si realizzasse progressivamente con la distruzione di interi territori, la diaspora di intere popolazioni, la morte di centinaia di migliaia di persone, non solo militari (in tanti, spesso inconsapevoli della sorte cui stavano andando incontro), lo spreco immenso di risorse alimentari, intellettuali, civili, storiche.

Non si può tornare indietro senza dover riconoscere gli errori commessi dai principali “attori” della contesa. Ed è molto curioso che in questa vicenda uno dei protagonisti, l’Europa, abbia di fatto avallato, con una discussione oziosamente appiattita sulle indicazioni esterne ad essa, il parere di una struttura militare come la Nato e di un paese estraneo ad essa, come gli Stati Uniti. Ci si è voluto riferire essenzialmente a scelte preordinate esclusivamente di tipo guerresco militare senza voler entrare nel merito delle “possibili” ragioni della Russia (non di Putin, ma dell’intera Federazione russa). Non si è dato spazio alla diplomazia in modo concreto, continuando semplicemente a blaterare intorno alle differenti concezioni della vita civile.

Quel che scrivo oggi, forse non sarà stigmatizzato come pro o contro qualcuno, anche perché sto parlando di tutti. Sarà difficile fare passi indietro dopo più di tre mesi di guerra, di fronte a risultati ancora non ben chiari. Se avessi scritto la stessa cosa “mentre ero nel Limbo….” sarei stato accusato di “filoputinismo”. So bene che la maggiore responsabilità è del Presidente russo, che ha attaccato e invaso lo spazio ucraino. Ma subito dopo, nel corso dei giorni, delle settimane e dei mesi (ormai più di tre) la risposta è stata solo di tipo militare: i “tavoli” di trattativa sono sempre stati vanificati da affermazioni e scelte che negavano nella maniera più assoluta alcuna prospettiva di “pacificazione”.

….1….oltre ai 100 giorni…fino a quando?