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Due racconti di novembre… 1975- un mio “amarcord”

EPIFANIE – Pasolini e Bach a Bergamo alta” di Giuseppe Maddaluno

Una camera spartana; era quello che aveva trovato a due passi dal Centro storico di Bergamo bassa, in via Pignolo. La proprietaria, una signora sui sessanta, aveva richiesto l’ anticipo dell’affitto settimanale; non si fidava dei meridionali. Troppe fregature aveva avuto e non le bastava che Fulvio le fosse presentato da un pigionale d’annata, anche lui era meridionale! Una stanza spoglia con pochi mobili e nessuna possibilità nemmeno di utilizzare la cucina; per fortuna Fulvio conosceva molto bene uno dei suoi amici terroni che lavorava alle Ferrovie dello Stato e che, ancora celibe, utilizzava a pranzo ed a cena la Mensa del Dopolavoro Ferroviario. Così, introdotto come amico fraterno, Fulvio ne poteva utilizzare i servizi pagando come “esterno” un prezzo molto conveniente. A Bergamo c’era anche un altro suo amico, Fausto, che abitava in via Novelli. Lo aveva conosciuto durante il servizio militare, Fausto. Era un ragazzo molto attento alle trasformazioni sociali ed era politicamente impegnato senza appartenenza ad alcun Partito; un “cane sciolto” attento alle attività dei “centri sociali”. Gli telefonò ed andò anche a trovarlo una domenica mattina; lavorava in una fabbrica nell’hinterland milanese e tornava a casa solo il fine settimana. Sembrò sfuggente, un po’ vago e superficiale nei rapporti che mostrava, in contrasto con la serenità dei giorni della “naia”, freddino! Era la fine di ottobre del 1975; il cielo era limpido e si respirava una buona aria. Bergamo non era inquinata come Milano e le giornate, mattina e pomeriggio, erano libere per Fulvio, che aveva ricevuto una supplenza ad un corso serale all’Istituto Tecnico e Commerciale “Vittorio Emanuele II”. Il lavoro era impegnativo ed occorreva prepararsi in modo adeguato: gli “studenti”, tutti adulti, erano desiderosi di apprendere e spesso, essendo coetanei o più anziani, sapevano molto di più dei loro docenti; se non altro, possedevano loro competenze specifiche di cui non celavano le conoscenze. Di giorno, Fulvio studiava, prevalentemente la mattina e poi andava ad esplorare la città; al pomeriggio frequentava il cineclub “Giovanni XXIII” sul viale omonimo. Oppure andava in giro per le scuole del territorio per capire se vi fosse bisogno di lui al termine della supplenza; di solito, ci andava di mattina. E quel giorno nel quale si recò a Pontida, una Scuola Media, sceso dal treno lesse sulla locandina de “l’Unità” che era morto Pier Paolo Pasolini. Si precipitò ad acquistarla e divorò le pagine con rapidità. Che grande, bella persona era Pier Paolo Pasolini; odiato dalla Destra e rinnegato dalla Sinistra aveva messo a nudo le contraddizioni della società del suo tempo, rivelandone la metastasi in atto nella “mutazione antropologica”. Che grande perdita per il nostro Paese; la sua lucidità analitica aveva accompagnato alcuni dei giovani di allora nella conquista della consapevolezza che fosse necessario un profondo radicale cambiamento. Misteriosa quella sua avventura nella notte allo Scalo di Ostia, quel mattino occupò per intero la mente ed il cuore di Fulvio. Era il 3 novembre 1975; Pasolini era stato ucciso in circostanze di difficile lettura nella notte fra il 1° novembre, giorno dei Santi, ed il 2 novembre, Giorno dei Morti. Ed i commenti erano perfidi, irridenti la sua omosessualità che dava fastidio ai fascisti maschilisti ed ai perbenisti di Centro e di Sinistra. Fulvio, continuando a leggere le pagine del suo giornale preferito, fece ritorno a Bergamo subito dopo essere stato informato che una supplenza ci sarebbe stata dalla settimana seguente ed aver lasciato il suo recapito domiciliare provvisorio. Quel pomeriggio al cineclub proiettavano “I tulipani di Harleem” un film di Franco Brusati, regista di culto in quegli anni. Vi si recò e si innamorò, di Carole André (la Lady Marianna di “Sandokan” televisivo, per intenderci).
Con gli studenti quella sera poi avviò a trattare la difficile fase delle “Guerre di successione”; alcuni però vollero sapere di Pier Paolo Pasolini e così fu che si avviò una discussione fra chi lo etichettava come un immorale frocio e chi lo riconosceva come poeta assoluto. Fulvio parlò della sua spietata lucida analisi della società condotta su quotidiani come “Il Corriere della Sera” e “Il Tempo” e sul settimanale “Il Mondo” e su riviste vicine al Partito Comunista come “Vie Nuove” e “Rinascita”. Ne sottolineò gli aspetti analitici e critici ed in particolare toccò il tema del “genocidio culturale” e della metamorfosi antropologica in atto. Parlò del suo cinema ed in modo attento alle prime prove, “Accattone” e “Mamma Roma”, che senza alcun dubbio erano collegabili ai romanzi più famosi come “Una vita violenta” e “Ragazzi di vita”. Accadeva così, nel corso serale: erano gli studenti, quelli più attenti (qualcuno sonnecchiava), a proporre la linea della serata. E Fulvio si adattava.
Era un novembre climaticamente accettabile e Fulvio ne aveva utilizzati alcuni fine settimana, quando le scuole erano chiuse, per visitare altre parti di Bergamo. Bergamo alta (la città antica medievale romanica) è un piccolo gioiello inatteso per chi viaggia soltanto nella “bassa”, dove si sono invece sviluppate le caratteristiche moderne economiche ed industriali. Vi si accede attraverso un servizio di funicolare (a piedi è molto più faticoso arrivarci) e la percezione storica del mondo bergamasco cambia totalmente. Quel 4 novembre di festa Fulvio prese la Funicolare e attraverso stradine strette giunse nella splendida Piazza Vecchia, un vero e proprio capolavoro nel suo insieme. Vi fu girato “Il cavaliere del sogno” film dedicato alla vita di un grande bergamasco, Donizetti. Vi si trovano tutti insieme il Palazzo del Podestà, il Palazzo della Ragione e la Torre medievale del Comune. Andando avanti si trovano poi la Cappella Colleoni che celebra altro illustre figlio bergamasco, il Duomo romanico e la Basilica di Santa Maria Maggiore. Fulvio notò affisse delle locandine in alcuni dei locali che annunciavano per la sera del 4 novembre un grande Concerto all’interno del Duomo. Un’ orchestra tedesca con un Coro internazionale avrebbe proposto la “Passione secondo Matteo” di Bach. Non poteva mancare. Fulvio risalì di nuovo a Bergamo alta quella sera; non aveva mai sentito la “Passione” per intero ma ne aveva ascoltato brani proprio nei film di Pasolini e gli sembrò un “segno” straordinario quella concomitanza di eventi. Il Duomo alle sei e mezza di quel pomeriggio era gremito all’inverosimile; vi erano delle transenne che limitavano il passaggio fra il pubblico “comune” e le autorità cui era stata riservata la parte più ravvicinata all’orchestra su comode poltrone. Su una di queste vi era anche il Vescovo, figura possente per altezza e larghezza. Fulvio non si scoraggiò e superando il varco si posizionò in forma asiatica intrecciando le gambe. Non vi era alcun servizio d’ordine e l’esempio fu seguito da altri giovani, incoraggiando anche qualche meno giovane a fare la stessa scelta.
Alle sette in punto di quel pomeriggio gli orchestrali, circa 25 elementi, fecero il loro ingresso davanti al pubblico, sistemarono i loro spartiti sui leggii ed avviarono la loro azione per provare gli accordi. Dopo circa cinque minuti entrò il Coro formato da circa 20 elementi maschili e femminili e poi entrarono e si posero a sedere davanti ai lati dell’Orchestra tre donne e tre uomini (2 soprani, 1 contralto, 1 tenore e due bassi). Subito dopo, accompagnato dagli applausi del pubblico, fece il suo ingresso il Direttore e dopo due inchini al pubblico ed agli orchestrali che furono invitati ad alzarsi, salì sul suo podio e dopo aver impartito alcune indicazioni avviò il Concerto. L’avvio, musicale e corale, è immediatamente solenne e Fulvio, colpito da un brivido di emozione e di piacere, venne trasportato su una “nuvola” lieve ed eterea; voci angeliche pietose accompagnano l’Uomo con la sua Croce verso il suo estremo sacrificio. A tanta ieraticità non resse la stanchezza del Vescovo che scrollava la testa sonnacchioso. Al Corale ampio n.10 (“Son io che dovrei espiare Legato mani e piedi Dannato all’inferno Gli insulti e le catene E i tuoi patimenti Tutto ha meritato l’anima mia”) l’Alto prelato crollò in un sonno profondo ed in esso permase cullato dal Corale n.15 e da quello più tranquillo del n.17. A nulla servì il Tenore ed il Coro dell’Aria n.20 né la Corale n.20 che mantennero invece Fulvio ad un’altezza costante sulla sua “nuvola”, dalla quale fu costretto a scendere dopo il Corale conclusivo della prima parte, causa breve intervallo. Anche il Vescovo si scosse, disturbato da un addetto che gli chiese se aveva bisogno di bere qualcosa. Il concerto riprese e nulla cambiò: il vescovo riprese anch’egli il suo sonnellino e Fulvio il suo viaggio estatico. Non aveva mai sentito nulla di simile nei suoi giovani anni; il mondo gli sembrò più accettabile e comprese anche quanto la morte di Pasolini avesse proiettato quel grande nell’eternità, accomunandola a quella del Cristo. Quella sera uscì dal Duomo sorretto da due angeli che lo mantenevano al di sopra di tutte le altre persone accompagnato dalle note della “Passione” e dai suoi cantori.
fine

Due racconti di novembre… 1966 – un mio “amarcord”

“LA SFIDA” un ricordo del novembre 1966

La sfida
Quante partite nello scalo merci delle ferrovie avevano giocato; al pomeriggio prima di mettersi a studiare si ritrovavano nel piazzale all’ingresso della Stazione della Metropolitana di Pozzuoli; si contavano e quando il numero lo permetteva si andava a giocare. Intanto con il pallone di cuoio quello regolamentare si palleggiava sulla strada. Allora le auto circolanti non erano molte e quando arrivavano si chiedeva agli automobilisti di parcheggiare più in là. La porta, virtuale, era nel muraglione della villa signorile che affacciava sulla piazza: si sistemavano degli oggetti reperiti casualmente (a volte erano i nostri giubbini arravugliati, altre volte dei mattoni di tufo) per delimitare lo spazio orizzontale della “porta”; per l’altezza si andava “ad occhio” ma, ad ogni modo, quando il numero dei convenuti era consistente si spostavano all’interno dello Scalo.
A volte, considerando questa pratica un allenamento, affittavano un campo di calcio con il contributo di tutti e si sfidavano fra di loro oppure sfidavano altri gruppi come il loro, mettendo in palio “pizza e birra”.
Era la fine di un mese di ottobre ancora caldo; molti già discutevano su come il clima fosse cambiato. Era il 1966.
Alberto spesso si recava nell’isola; di solito vi trascorreva la bella stagione ma anche qualche fine settimana. Là poteva respirare aria buona, godere della libertà dai vincoli, a volte apprensivi, della famiglia. Aveva un gruppo di amici con i quali condivideva alcune passioni, teatro e musica. Aveva costruito anche qualche timida relazione, ma niente di importante e di fisso, con una ragazza del luogo, amicizia e nulla di più per accordo reciproco. Seguiva – da tifoso – una delle squadre di calcio locali, dove giocavano altri amici ed amici dei suoi amici. Ed una sera, una domenica di metà settembre, raccontò loro del gruppo di amici della Metropolitana, elogiandone le qualità tecniche, quasi a sottolineare la loro possibile superiorità: quasi! Ma agli “isolani” sembrò certa la provocazione di Alberto nei loro confronti. Ed il guanto della sfida fu gettato.
A quei tempi nel gruppo della Stazione tutti erano studenti, molti al Liceo Classico, una parte all’Istituto Tecnico e, tranne un paio di loro che erano già all’Università, frequentavano l’ultima o la penultima classe del corso di studi superiori. L’occasione buona sarebbe stata quella delle vacanze dei Santi e dei Morti che, con il 4 novembre, Festa dedicata all’Armistizio di Villa Giusti che nel 1918 concluse la prima guerra mondiale, e con la concessione di un “ponte” il sabato 5 componeva un utile filotto. E così si strinse un patto fra Alberto e gli “isolani” per una sfida ufficiale nel primo pomeriggio del giovedì 3 novembre.
La banchina, quella mattina, era sgombra; la notte il vento era stato così forte da aver provocato la caduta di alcuni cartelloni pubblicitari lungo il viale di accesso al porto…ma il cielo era sgombro di nubi, quella mattina. Non faceva molto freddo. Il mare nel porto di Pozzuoli, protetto dal lungo molo caligoliano alla fine del quale vi era un faro abitabile, piccolo ma ugualmente maestoso, appariva calmo. Alberto con i suoi amici si avviarono, dopo aver acquistato i biglietti di imbarco ed aver controllato anche gli orari per il ritorno, verso quella che ancora allora chiamavano la “Cumana”, in ricordo del fatto che già dall’Ottocento e poi fino a metà Novecento il collegamento fra Procida e la terraferma si svolgeva prevalentemente da Torregaveta, “terminal” della Ferrovia per l’appunto detta “Cumana”. Dopo il controllo dei biglietti, salirono a bordo. Al di là del personale non vi erano molti altri passeggeri.
Alle 9.45, in perfetto orario, la nave si staccò dalla banchina. Il viaggio durava all’incirca 45 minuti; dopo essere uscita dal porto di Pozzuoli girava a sinistra e proseguiva mantenendo sulla destra la riva di Baia e di Bacoli fino a doppiare il Capo Miseno dove, virando a destra e mantenendosi a distanza dalla costa di Miliscola e del Monte di Procida, avrebbe puntato verso l’Isola di Procida.
Un percorso semplice semplice, ma quel giorno non fu così.
Non appena usciti dal porto, superato il Faro, ci si accorse che il mare non era più così tranquillo come sembrava. La nave, una delle più grandi fra quelle che circolavano su quella linea, cominciò a beccheggiare di fronte ad onde larghe ed enormi che la colpivano lateralmente. Il capitano decise di spostare la prua in direzione delle onde per poterle affrontare; il rollio commisto al beccheggio creava una combinazione maligna che in un primo tempo, ricordando alcune delle attrazioni dei Luna Park, appariva piacevole ai giovani passeggeri che scherzavano fra loro mimando gli ubriachi lasciandosi andare da una parte all’altra del ponte godendosela e ridacchiando. La nave si allargò dal Capo Miseno e si inserì verso il canale di Procida affrontando onde altissime che la portavano nella parte più bassa del ventre impedendo ai passeggeri di vedere la terra e poi la sollevavano sulle loro creste per farle ridiscendere vertiginosamente.
I giovani amici di Alberto cominciarono a spaventarsi e più di uno di loro dovette liberarsi della colazione; lo stesso Alberto era confuso e fortemente preoccupato per i suoi compagni, e qualcuno si spinse anche ad offenderlo. Il mare si calmò soltanto all’ingresso del porticciolo di Procida protetto dalla scogliera. Il gruppo, un po’ malconcio, raccattò le sue borse, dove erano state riposte le tute, le magliette ed i pantaloncini della squadra, e si preparò a scendere dalla scaletta che era stata calata sulla banchina di Procida. Si era di fronte all’imponente palazzo Merlato del ‘600 e ad una serie di abitazioni dal vario colore mediterraneo, ma la traversata aveva messo ciascuno di cattivo umore e poi tutti erano arrivati a Procida in tempi migliori. Alberto aveva lanciato già lo sguardo dall’alto della nave per cercare qualcuno dei suoi “isolani” e non ne aveva visto alcuno. Si era fermato in uno dei bar della Marina Grande ed aveva, utilizzando un gettone, telefonato a casa di Valerio, l’allenatore della squadra locale. Rispose sorprendendosi del fatto che loro fossero arrivati; chi vive circondato dal mare conosce i suoi segreti e le previsioni non erano positive: il mare andava ancor più ad agitarsi ed il rischio dell’interruzione del servizio marittimo nelle ore successive era molto elevato. Ma, visto che c’erano, disse che poiché avevano confermato il loro allenamento pomeridiano, non ci sarebbe stato alcun problema per la “sfida”, a patto però che si evitasse il gioco duro.
Si fermarono tutti a Marina Grande rifocillandosi con tè caldo al Bar del Porto; e poi si avviarono verso il piccolo autobus che era arrivato, essendo stato avvisato da Valerio. Il biglietto lo si faceva direttamente a bordo e l’autista sapeva anche dove lasciarli scendere poco prima di giungere al capolinea che era la Marina Chiaiolella. Riconobbe Alberto ed anche lui, l’autista, che si chiamava Gennaro, lo rimproverò di non aver consultato le previsioni marittime; sarebbe bastata una telefonata alla Capitaneria del Porto, anche quella di Pozzuoli. Alberto allargò le braccia per giustificarsi così come poteva e chiese a Gennaro di indicargli una trattoria alla buona per il pranzo. Erano soltanto le 11; potevano mangiare un primo ed un po’ di frutta prima di andare a giocare. L’appuntamento per la “sfida” era alle 14.30 per avviare alle 15.00 e chiudere entro le 17.00 per poter poi ripartire per Pozzuoli alle 18.00.
Decisero dunque di arrivare giù alla Chiaiolella e di fermarsi in una delle trattorie dove di solito facevano da mangiare agli operai edili che venivano dalla terraferma. In quei giorni non erano arrivati non solo per il maltempo ma soprattutto per le ricorrenze, per cui i gestori furono ben contenti di avere una dozzina di clienti inattesi e si prodigarono per accontentarli. Alberto li conosceva ma non bene come quelli della Corricella e di Marina Grande; si presentò e presentò i suoi amici spiegando il motivo per il quale si trovavano quel giorno a Procida.
Insieme ascoltarono alla radio le previsioni meteo e seppero che in gran parte dell’Italia del Centro Nord aveva continuato a piovere mentre al Sud non erano previste perturbazioni pericolose: si rasserenarono convinti anche del fatto che, pur se il vento continuava ad essere intenso, non facesse freddo ed il cielo era pressoché sgombro di nubi. Tanto che, alla fine del pranzo, dopo il caffè si spostarono verso la spiaggia e si sedettero sulla sabbia al sole che era abbastanza caldo.
Fino alle 14 vi rimasero; poi a piedi si avviarono salendo verso il Campo sportivo. Lungo la strada Giovanni, il capitano della squadra, impartì alcune indicazioni sui ruoli da ricoprire: Luciano avrebbe fatto il portiere, come al solito; Alfredo e Gino avrebbero supportato la linea di difesa mentre al centro di questa vi sarebbe stato lui stesso; nel centrocampo avrebbero operato Mattia e Peppino; la linea di attacco con capacità e potenzialità di rientro sarebbe stata composta da Alberto, Nicola, Fulvio come centravanti, Saverio e Renato. Di certo non avrebbero avuto alcuna possibilità di sostituzioni; ma nelle “amichevoli” spesso accadeva così. Alberto faceva da segretario a tutta la compagnia e prese appunti diligentemente.
Arrivarono con qualche decina di minuti di anticipo rispetto alla squadra locale; così si spogliarono, indossarono magliette – con i numeri canonici – e pantaloncini e poi cominciarono a fare riscaldamento. C’era intanto un pubblico occasionale sorpreso di vedere tante facce nuove. Arrivarono i “locali” per la sfida mentre Alberto e gli altri stavano provando dei palleggiamenti. Valerio fece le presentazioni di Alberto e quest’ultimo presentò i suoi amici. Alle 15, forse poco dopo le 15, scelto come arbitro un ragazzo che si era proposto, cominciarono a giocare; decisero di fare due tempi di 35 minuti con un breve intervallo di 10, in modo da poter finire per le 16.30 e ripartire, anche perché Valerio paventava il rischio che sul far della sera il mare sarebbe diventato più agitato e non vi sarebbe stata possibilità alcuna di partire; il vaporetto che li aveva portati la mattina ritornava da Ischia e sarebbe partito alle 17.30 ed era il mezzo più sicuro rispetto alle altre imbarcazioni meno solide.
La partita si mantenne su un piano di gioco aperto ma molto corretto così come era stato previsto dai patti; e nessuno si lamentò del risultato che fu un pareggio per 2 a 2. Finita, si rivestirono tutti, bevvero del tè caldo che era stato portato dai “locali” all’interno di thermos e non appena ritornò il pulmino si salutarono e, così come erano arrivati la mattina, ridiscesero alla Marina Grande.
Il mare era abbastanza tranquillo nel porto, anche se con l’approssimarsi del tramonto il vento aveva ripreso a tirare ed a dire il vero non era freddo. Il gruppo di Alberto, tutti soddisfatti per l’esperienza vissuta, arrivò a Marina Grande con il piccolo autobus. Scesero e si avviarono alla biglietteria, ma la trovarono chiusa e videro anche un cartello affisso: “SERVIZIO SOSPESO per mare forza 9”. In effetti, il mare non appariva poi così tempestoso, ma uno degli ormeggiatori che Alberto conosceva disse che il moto ondoso era molto forte nella parte più aperta alle correnti aeree ed in particolare fra Ischia e Procida e nel canale di Procida; e , quel che era peggio, le previsioni non annunciavano miglioramenti nelle ore successive, anzi! Cosa fare, a quel punto? Alberto sapeva anche che in qualche occasione era stata ripresa la rotta per Acquamorta, al Monte di Procida; ne accennò al gestore del bar, Geppino, che conosceva da tempo ma quello gli rispose che, in simili condizioni, nessuno lo avrebbe potuto condurre dall’altra parte: la sera stava sopraggiungendo e non vi erano le condizioni per poter con certezza far ritorno e poi la Capitaneria non lo avrebbe consentito.
Alberto chiamò Valerio che, per fortuna, visto il maltempo, era ritornato a casa e lo informò. “Se qualcuno ci dicesse che di certo domattina si parte potremmo anche adattarci in un magazzino del porto o chiedere ospitalità in uno dei locali della Marina; ma ho la sensazione che non vi siano certezze in tal senso.” Alberto pensò anche di portare una parte dei suoi amici dai suoi parenti, ma Valerio lo rassicurò: “In occasioni come queste, voi siete stati nostri ospiti, tocca a noi ricercare una soluzione. Chiamo il Sindaco per capire quel che si può fare! Aspettatemi”. Alberto ringraziò ed avvertendo su di sé la responsabilità di averli condotti in quella “sfida”, informò il gruppo, che intanto come aveva fatto al mattino si stava rifocillando al caldo in una stanza interna del Bar con te e pastine varie.
Valerio arrivò dopo meno di un’ora; con lui c’era il vice Sindaco che assicurò tutti che l’isola avrebbe provveduto ad ospitarli in una struttura alberghiera (avevano pensato anche all’Ospedale, ma veniva utilizzato solo per il Pronto Soccorso e non aveva spazi organizzati) fin quando il servizio di navigazione non fosse ripreso. Alberto aveva telefonato alle zie e si fece escludere dal computo; disse che però li avrebbe accompagnati per accertarsi della sistemazione. In quei giorni, per la concomitanza delle festività e del maltempo, gli alberghi erano pressochè vuoti. Era consuetudine ad ogni buon conto avere il massimo rispetto per gli “ospiti”, ancor più in occasioni come quelle; e non capitava certamente spesso.
Valerio, il Vice Sindaco ed un altro amico fino ad allora sconosciuto li accompagnarono, utilizzando tre auto, ai due Alberghi che si trovavano fra Solchiaro e la Chiaiolella, il “Savoia” ed il “Riviera”. Furono accolti con estrema cortesia nella tradizione ospitale dell’isola. Alberto ringraziò gli amici di Procida, si accomiatò dai suoi amici assicurando loro che, presto, la mattina dopo sarebbe ritornato, suggerendo loro di essere pronti perché se il mare si fosse calmato ed il servizio ripreso sarebbero partiti. La notte il vento riprese vigore e la mattina, limpida perché sgombra di nubi annunciò tuttavia che nulla era cambiato e che il mare, lo si vedeva dall’alto della casa delle zie di Alberto, lo si vedeva altrettanto dall’alto delle terrazze dei due alberghi, era ancora più tempestoso. Alberto raggiunse presto gli amici e con loro, sapendo di dover rimanere ancora qualche ora, forse un giorno, si sperava un solo giorno, si incamminò sulla via “Panoramica” e da quella poterono osservare la maestosità delle onde marine che si scagliavano possenti contro la scogliera sollevando una schiuma corposa; ed il vento intenso rendeva il cammino faticoso lungo la strada. Alberto e pochi altri, rassicurati e protetti dalla dolcezza e dall’ospitalità dell’isola, ricordarono i versi di Lucrezio nel secondo libro del “De rerum natura”

“Suàve , marì magnò turbàntibus àequora vèntis
è terrà magnum àlteriùs spectàre labòrem;
nòn quia vèxarì quemquàmst iucùnda volùptas ,
sèd quibùs ìpse malìs careàs quia cèrnere suàve est.”

“bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano.
Non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,
ma la distanza da una simile sorte”

e fecero ritorno, dopo aver acquistato alcuni prodotti per l’igiene intima in un “Coloniali” in Piazza Olmo, uno di quei negozi che emanano profumi di pulito e vendono di tutto, ai loro Alberghi. Era il 4 novembre, venerdì e nel Nord ed il Centro d’Italia, si stava consumando la tragedia delle alluvioni. Trento, Venezia, Udine, Brescia, Padova subirono enormi danni; Firenze fu sommersa dall’Arno. Un patrimonio immenso di Arte, Cultura e Civiltà rischiò di essere perduto. Alberto ed i suoi amici si incollarono alle radioline che riportavano i notiziari del “dramma”. Compresero di essere davvero fortunati. La mattina dopo riuscirono a far ritorno. Il mare non era ancora tranquillo ma il servizio era ripreso.

Joshua Madalon

IN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 34 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 33 vedi 12 settembre

PIN RICORDO DEL “POETA” PIER PAOLO PASOLINI – parte 34 – atti di un Convegno del 2006 IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI per la parte 33 vedi 12 settembre

Poi, ancora rapidamente, cosa si diceva? Ah sì, il riferimento ai grandi romanzi della modernità novecentesca, Joyce e compagnia cantante. Certamente Pasolini fa quel tipo di operazione lì, la fa 50, 60, 40 anni dopo però anche qui non credo che Pasolini inventi nulla tant’è vero che una delle ragioni per cui Petrolio probabilmente è il suo capolavoro, ma è soprattutto un testo che ci serve anche a noi paradossalmente per indicare una (parola non comprensibile) temporale è proprio questo. Cioè con Petrolio in qualche modo Pasolini porta a compimento ulteriore o cerca di realizzare tutta una tendenza, anche romanzesca, che è tipicamente novecentesca, che era avanguardista prima, neo avanguardista poi o sperimentalizza dal versante di Pasolini in poi, Volponi ecc, ecc. Quindi Pasolini in questo ha una (parola non comprensibile) che è evidente, che è chiara, che era la guardia, che sono gli sperimentatori degli anni ’50 e ’60. Dopo di che Petrolio porta o avrebbe dovuto portare ad estremo compimento questo modo di fare arte, ma già indica che questo modo di fare arte non è più spendibile Perché Petrolio ha comunque una quota romanzesca che non c’è ad esempio nei (parola non comprensibile)…altro testo…(parola non comprensibile). Per cui, Petrolio è insieme proviamo a dirla, e chiudo, in maniera con una formula per ragioni di brevità, un romanzo con il quale idealmente è come se Pasolini dicesse la tradizione antiromanzesca, moderna e novecentesca, la tendo più che posso con una corda che tendo finché poi l’elastico salta infatti Petrolio, persino l’ultimo Calvino, d’Arrigo e Volponi in Corporale sono davvero gli autori che portano ad estremo compimento questa possibilità anche romanzesca, dopo di che il ventennio successivo nella narrativa italiana sarà quello che vedrà le sorti di autori che vanno in tutt’altra direzione: vogliono il prodotto artigianale definito e il romanzo ben fatto. Dimostrazione ulteriore che negli anni ’70 finisce almeno in Italia una possibilità anche romanzesca moderna soprattutto Perché è finito il clima culturale e politico che era insito in quella scelta. Pasolini crede all’opera aperta come dicevo prima, ma anche gli avanguardisti in modo diverso credono all’opera aperta Perché questo ha ancora una attenzione politica. Dagli anni ’80 e ’90 non sarà più vero e quindi fare opera in qualche modo spuria e non finita non avrebbe potuto più significare fare opera politicamente inammissibile nella (parola non comprensibile). >>

su “rave party” e “vaccini”

Quel che ho scritto ieri potrà essere stato equivocato come una sottile aderenza al nuovo Governo. Mi dispiace averlo lasciato solo pensare; la mia preoccupazione è che gli attacchi improvvisi – e improvvisati – da parte di alcune figure afferenti alla Opposizione, della quale sento di far genericamente (non ho alcuna “tessera” di Partito)  parte, mi sono apparsi molto improvvisati, come alla ricerca nevrotica di costituirsi come punto di riferimento di qualsivoglia discrasia del nuovo Governo. Quel che ho scritto ovviamente mette in evidenza alcuni aspetti che vanno modificati nella gestione politica da parte di chi è all’opposizione: non si può far prevalere l’improvvisazione espressa in modo stizzito. Occorre ragionare. Ed in realtà, dopo la decisione di bloccare il rave party dei giorni scorsi, il Governo ha predisposto un Decreto legge che contiene alcune ambiguità, che mettono a rischio in modo troppo generico la libertà di riunirsi. Bene ha fatto l’attuale Segeretario del PD a chiedere che siano apportate modifiche esplicative della “ratio”  che ha generato quel dispositivo. Bisogna essere ancora più chiari: i rave party non possono essere confusi con qualsiasi altra riunione assembleare. Pur garantendo che il numero di 50 partecipanti da parte degli organismi associativi e politici negli ultimi anni difficilmente si raggiunge, non sarebbe certamente una buona cosa considerare qualsiasi riunione politica, culturale, ricreativa come luogo di sovvertimento rivoluzionario. E non si possono confondere tali “raduni” con i “rave party”, luogo di irregolarità penalmente perseguibili, a partire dall’occupazione abusiva di suolo pubblico e privato per andare allo spaccio di droghe ed abusi violenti. Invito la Sinistra a ragionare maggiormente su quel che conta suggerire al Paese tramite quel Governo cui ci si oppone. Alcuni passi indietro ad esempio si vanno facendo, da parte dell’area governativa, sul tema del Covid: di sicuro sarà mantenuto a lungo l’utilizzo delle mascherine FFP2/FFP3 negli ambienti ospedalieri e nelle RSA; ma non è del tutto definito tutto il comparto della vaccinazione obbligatoria per i lavoratori ospedalieri, a partire da medici e infermieri.

UN PATETICO MISERO TENTATIVO DI METTERE LA “POLVERE” DELLE RESPONSABILITA’ SOTTO IL “TAPPETO” DELLA STORIA

UN PATETICO MISERO TENTATIVO DI METTERE LA “POLVERE” DELLE RESPONSABILITA’ SOTTO IL “TAPPETO” DELLA STORIA

Questo post prosegue – dopo qualche settimana di mio silenzio – nella riflessione su cosa sia importante mettere in campo, a partire dal necessario approfondimento critico da parte dell’attuale (!!!) maggior Partito del Centrosinistra, il PD. Avevo annunciato in uno dei primi post subito dopo il 25 settembre un riferimento ad esperienze “dirette” (rimandando in parte ai tanti post dal titolo comune “Le Storie” collegati al Circolo PD Sezione Nuova San Paolo) e di certo non mancherò in questo impegno nei prossimi post

Sono oramai alcuni anni che da una parte della società italiana, quella che aveva guardato con grande interesse ideale alla nascita di una forza progressista, democratica e riformista in grado di riunire esperienze politiche che avevano condotto alla nascita della Democrazia ed alla scrittura della Carta costituzionale, si è richiesto di avviare una profonda riflessione su tutto quello che non funzionava più nel Partito Democratico.  Per alcuni, una minoranza in realtà, gli elementi critici si erano palesati sin dagli albori; e si erano confermati via via nel tempo deteriorando i vari meccanismi: un po’ come accade con un’auto che nasca sin dalla sua produzione con qualche difetto (è – procedendo nel paragone – poi comunque abbastanza normale che si proceda dopo qualche anno – e qualche chilometro percorso – a delle revisioni, prima della possibile prevedibile rottamazione).

Accanto al patetico attacco sferrato subito dopo il verdetto emerso dalle urne, indirizzato a chi aveva continuato a criticare la scarsa consistenza politica dell’attuale leadership “demo”, come unici colpevoli della debacle, sono proseguiti i segnali di deterioramento della “macchina”, sia con il rifiuto di prendere in considerazione un profondo “restyling”, ripartendo dai “fondamentali” capisaldi del 2007, sia con la rincorsa a candidarsi senza un minimo di “proposte programmatiche”, ma basate essenzialmente sul “glamour” di stile veteroberlusconiano.

Di fronte ai risultati delle recenti elezioni politiche si può ben dire che non possono essere considerati “deludenti”, visto che l’attesa prevedeva dati molto più perniciosi per la nostra Democrazia (i due terzi del Parlamento non sono stati raggiunti dal Centrodestra). Pur tuttavia è del tutto inevitabile, oggi, continuare a far finta di nulla: è ancor più necessaria una profonda revisione se si vuole prorogare considerevolmente la data di rottamazione o addirittura la “messa a nuovo” totale dei meccanismi. Invece sia gli annunci sia poi le modalità democratiche di procedimento sono state stoppate allo scopo, del tutto evidente per chi si occupa di Politica, di smorzare gli aspetti di criticità che sono considerati pericolosi per gli attuali “manovratori” e potrebbero produrre un azzeramento delle cariche politiche e un ribaltamento delle attuali posizioni.

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“Memoria”

Da poche ore si può trovare sul sito del PD una lettera di Enrico Letta rivolta al mondo degli iscritti (I circoli) ed indirettamente ai potenziali sostenitori. C’è fretta camuffata da ponderatezza; ma  c’è una grande urgenza di arrivare al “cambiamento”, dimenticando di averne avuto subito dopo il cambio di guardia con Zingaretti, che aveva denunciato ampiamente questo bisogno. In tal modo si rischia grosso: le truppe camellate stanno preparando già gli armamentari, forti della scarsa memoria collettiva.

“Memoria” che è necessario avere per capire quanto sia stato pretestuoso l’abbandono del “campo largo”, scarsamente coltivato e perfino mal arato. La responsabilità del mancato accordo è da addebitare in primo luogo al Partito Democratico, e poi a Lega e Forza Italia, che hanno subodorato il lauto affare. La “crisi” è stata provocata dal forzoso inserimento in un dispositivo di natura sociale ed economico come il Decreto Aiuti di un articolo che intende approvare la costruzione di un termovalorizzatore a Roma: una diretta provocazione inserita in luogo improprio e senza un accordo, che non avrebbe potuto sortire altro che la levata di scudi del M5S che si è astenuto.

Oltre tutto il M5S è stato sottovalutato per una sorta di presunzione culturale e politica di superiorità. Ciò traspare altresì dal livore con cui una parte del mondo politica e della stampa sostenitrice del Partito Democratico (vedi N. Aspesi che sul “Venerdì di Repubblica”) non manca di offendere Giuseppe Conte, leader del M5S.

E’ evidenziato anche dalle scelte che il PD di Enrico Letta ha fatto in controtendenza, accogliendo – al posto dei “contrari” pentastellati – i rappresentanti di Sinistra Italiana e Verdi che non hanno mai votato i dispositivi della famosa “Agenda Draghi”. Quella scelta è la cartina di tornasole della pretestuosità della motivazione con cui si è escluso sin da subito l’accordo.

Quanto a Calenda e Renzi la loro nota boriosità è infinita e, per fortuna, l’elettorato non li ha premiati.

…si ricostituisca quel clima dei primi anni del nuovo secolo e millennio e si riprenda a camminare tra (e con) la gente.

Questa rincorsa subito dopo il risultato del 25 settembre (che non può essere “deludente” perché ampiamente previsto e atteso) a candidarsi – o a farsi candidare – al vertice della Segreteria del “dopo Letta” è fortemente patetico. La stessa espressa volontà di cambiare nome e simboli e rimarcare contenuti è soluzione del tutto insufficiente se non si procede ad un cambio di strategia, partendo da quel che è mancato fino ad ora, a partire dall’atto fondativo, che è rimasto carta straccia, vuote parole: dare corpo e gambe al progetto “democratico” di una forza progressista che si proponeva di interpretare i bisogni concreti del Paese. Si è ben presto compreso che la fusione di varie anime non partiva realmente dalle necessità che già premevano sulla nostra società ma dall’esigenza di mantenere intatte le posizioni degli apparati politici. Le battaglie si ammantavano di forti ideali ma poggiavano fermamente su interessi molto particolaristici: un cambiamento “democratico” avrebbe avuto bisogno di ben altro e progressivamente i rapporti fra gli ideali e le realtà si sono deteriorati, facendo allontanare gran parte dei sostenitori appassionati e disinteressati dalla pratica politica; nel mentre si profilava, ben accolto dalle leadership ondeggianti, l’avvento del “renzismo”, interpretato come una sorta di “Messia” molto vicino per stile al “primo Berlusconi”.  L’attuale classe dirigente ha trascorso troppo tempo a dibattere su questioni molto “particulari” nel chiuso delle loro stanze, abbandonando le periferie, non solo quelle dei loro specifici territori, ma quelle ideali di tipo psicologico sociologico e antropologico: non occorrono formule paternalistiche ma bisogna che vi sia una concreta condivisione delle più acute e urgenti problematiche. E se la Destra offre approcci semplicistici bisogna capire che occorra farsi comprendere, parlando linguaggi che non siano complessi. Per far questo, non è necessario un “nuovo” organigramma. Intanto, si vadano a rileggere i fondamentali propositi. Si ricostituisca quel clima dei primi anni del nuovo secolo e millennio e si riprenda a camminare tra (e con) la gente.

Sfida e coraggio verso una ricerca di unità a Sinistra

Rieccomi dunque a ripetere quanto detto in più diverse occasioni, e in buona compagnia; è necessario riformare dal profondo il Partito Democratico, aprendolo in modo sostanziale ad un dialogo con tutti i soggetti di Sinistra (non solo Partiti e movimenti, ma anche Associazioni e Organizzazioni culturali e sociali; oltre a quelle economiche e imprenditoriali). Ovviamente, questa è una sfida e un atto di grande coraggio: non si può nasconderlo. Per ora, non intravedo né coraggio né consapevolezza che si intenda dare il via ad una vera e propria sfida. Si è detto, ancora molto timidamente e con passi indietro di una parte della leadership, di volersi aprire agli esterni, ma non basta esprimerlo a parole: occorrono azioni concrete. La scelta delle Agorà era sin dai suoi esordi un tentativo in tal senso, fallito. Non aveva presupposti solidi alle spalle e si è rivelata un flop, una forma solo accademica autoreferenziale benché potenzialmente aperta: la partecipazione è stata infatti mortificata e non ha espresso prospettive future spendibili in risorse umane rinnovate. In realtà si è riproposto un antico meccanismo che si ferma solo in superficie, per dare la sensazione di voler disporsi benevolmente all’ascolto ed alla ricerca di volti e menti nuove. Soprattutto queste ultime generano l’orticaria e non possono essere incoraggiate.

In risposta ad un commento ad un mio post su Facebook – A quel compagno carissimo F.R. – intro

In risposta ad un commento ad un mio post su Facebook – A quel compagno carissimo F.R.

A quel carissimo compagno che, in risposta ad un mio post che riportava un commento che in definitiva riteneva cosa buona e giusta riconoscere al Movimento di Giuseppe Conte il merito di aver raccolto una parte dei voti “antifascisti” anche e soprattutto in relazione ad una scelta della Destra (quella vera e quella falsa di Centro – Sinistra?) di procedere senza bisogno di consultazione popolare ad una revisione della Carta costituzionale, mi invitava ad iscrivermi (reiscrivermi, ovviamente, essendo io un fondatore) al Partito Democratico per avere la “patente” di commentatore, rispondo che non ci penso nemmeno, e che rimango dell’idea che ciascuno di noi come potenziali elettori dovremmo avere ascolto, soprattutto quando si rivolgono agli apparati critiche severe ma concretamente  collegate ai bisogni ideali, nonché quelli materiali sempre più urgenti da prendere in considerazione.

Non mi fermo qui, e rilevo che da qualche parte molto tardivamente si prende consapevolezza (!) che occorra aprirsi anche ai non iscritti. Si spera (ma temo sia difficile che si concretizzi nella migliore modalità di apertura reale) che non sia la solita cortina fumogena per indurre qualcuno ad iscriversi e che le “valutazioni” che appariranno “critiche” saranno etichettate come “polemiche rancorose” per poterle più facilmente bypassare senza sentirsi coinvolti.

Chi ha partecipato alla fondazione del Partito Democratico in una stagione di grandi passioni coinvolgenti, di grandi speranze e di attese, quasi progressivamente interamente vanificate da una leadership di apparato burocratico sedicente progressista e “democratico”, dovrebbe avere particolari riconoscimenti, ma – è ovvio – che chi, come il sottoscritto, esprime questo rammarico dolente, viene considerato “da tempo” un fastidioso orpello da emarginare.

Proverò con una serie di prossimi post ad esprimere le mie valutazioni propositive, che non saranno molto diverse dalle tante riflessioni che su questo Blog  ho esposto a centinaia negli scorsi anni. Vi parlerò di quel che nella frazione di San Paolo in quel di Prato, insieme a compagne e compagni ora disperse e vaganti in mille rivoli, abbiamo provato a mettere in campo, spesso sottovalutati e anche marginalizzati dagli apparati, preoccupati essenzialmente di conquistare e mantenere dei posti più o meno allettanti e fruttuosi per se stessi.

VERSO IL 25 SETTEMBRE: REPETITA IUVANT CON UN POST DELLO SCORSO 10 SETTEMBRE – IL VOTO UTILE E LA VOGLIA DI CONTARSI

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AMBIENTEANTROPOLOGIACULTURAPOLITICASOCIALE

VERSO IL 25 SETTEMBRE: REPETITA IUVANT CON UN POST DELLO SCORSO 10 SETTEMBRE – IL VOTO UTILE E LA VOGLIA DI CONTARSI

10 SETTEMBRE 2022GIUSEPPELASCIA UN COMMENTOMODIFICA

Verso il 25 settembre – repetita iuvant con un post dello scorso 10 settembre Il voto utile e la voglia di contarsi

Domani 25 settembre 2022 – si vota – – sento il dovere di sollecitare al voto gli indecisi – quanto al mio voto esplicito una piena condivisione con quanto espresso dal prof. Tomaso Montanari e da tanti altri a favore del Movimento 5 Stelle

https://www.la7.it/otto-e-mezzo/video/elezioni-il-prof-tomaso-montanari-esibito-odio-per-i-poveri-allora-votero-per-22-09-2022-452839

Sarò breve. La richiesta pressante, angosciosa di un voto “utile” da parte principalmente del Partito Democratico è patetica. “Utile” per chi? Per cosa? Sarebbe stato bene che tali angosciosi dilemmi e tali preoccupazioni fossero state espresse nel corso di questi anni, soprattutto coinvolgendo quella parte della Sinistra – e non solo – praticamente esclusa dalla partecipazione in quanto considerata non funzionale alla “vita” politica degli apparati (a tutti i livelli). Infatti, a prescindere dal “merito” (c’è una parte di persone la cui preparazione politica ed amministrativa è indubbia) vi è la tendenza esclusiva e pretenziosa a mantenere le posizioni acquisite soprattutto nel sottobosco politico amministrativo. Ancor più in questa occasione non seguirò la “sirena” della paura né tuttavia mi convince il desiderio di contarsi nella gabbia dell’ultra Sinistra, quella dogmatica incapace di comprendere la complessità della vita umana e che ha bisogno di sventolare bandiere obsolete. C’è stata pure – a livello locale (Prato) – l’occasione di costruire un raccordo solido tra le diverse anime della Sinistra in occasione dell’appuntamento elettorale cittadino del 2019. Quel tentativo nobile e coraggioso ricercato da cittadine e cittadini interessati al “Bene Comune” (“Prato in Comune”) fu portato al fallimento proprio da chi voleva “contarsi”. Quel “lavoro” vorrei fosse ripreso con uno spirito costruttivo; ma rivediamoci dopo la vostra “conta” care e cari compagni, la “vostra”.

Esplicito anche il senso dell’ultima parte del post: per chi avesse bisogno di capire intendo partecipare alla costruzione di un più ampio raggruppamento di donne e uomini di SINISTRA che non si rinchiuda in recinti ma si apra al confronto dialettico senza pregiudizi dogmatici.