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CINEMA – 1946 – parte 29

Sempre nel 1946 due di questi registi, Frank Capra e Howard Hawks, saranno gli autori di due capolavori di genere diverso tra loro, “La vita è meravigliosa” e “Il grande sonno”. Il primo fa parte di quella particolare predilezione del cinema americano dei buoni sentimenti che si innesta nella condizione umana in un ambiente piccolo borghese nel quale il protagonista agisce quale esemplare del self made man che, operando in contesti provinciali e dotato di un grandissimo senso etico nei confronti della famiglia e dei suoi compaesani, si ritrova in un momento di profonda crisi, fino a meditare di togliersi la vita. Il film fa percorrere la “storia” di George Bailey, interpretato da un grande James Stewart in piena ascesa, grazie ad un escamotage narrativo, attraverso il quale un angelo, inviato da Dio per sostenere moralmente il protagonista affinché rinunci al proposito di suicidarsi, viene informato da San Giuseppe su tutte le buone azioni di cui George si è distinto. Il film non ebbe un grande successo di critica nell’immediato ma ancora oggi è uno dei film più presenti nelle programmazioni festive dei nostri canali televisivi, pubblici e privati.

L’altro film si collega al genere del giallo poliziesco noir che tanto lustro renderà alla produzione statunitense. Basato su uno dei romanzi del prolifico Raymond Chandler con protagonista il detective Philip Marlowe, “Il grande sonno” è interpretato da una coppia di attori che sarà a lungo molto presente sulla ribalta cinematografica, Humphrey Bogart e Lauren Bacall, che si erano conosciuti da poco sul set di “Acque del Sud”, diretti dallo stesso Hawks. L’interpretazione del detective Marlowe da parte di Bogart sarà memorabile e segnerà per sempre nel ricordo dei cinefili e degli appassionati dei libri polizieschi (solo in Italia vi è la dizione “gialli” collegata al colore delle copertine della produzione mondadoriana.

Un altro film americano che segnerà il destino anche dell’inteprete è “Gilda” di Charles Vidor. Si tratta di un’altra grande diva, Rita Hayworth, che in questo film, sempre accreditabile al genere “noir”, fa coppia con un altro importante protagonista del Cinema quale è stato Glenn Ford. La grande attrice, reduce da una serie di riconoscimenti soprattutto da parte dell’esercito americano impegnato in Europa, incarna in “Gilda” una delle icone indelebili della produzione filmica, dando un’interpretazione superba aiutata non solo dalle forme sinuose ma dalla capacità di fare spettacolo grazie alle sue performance canore, quali “Put the Blame on Mame” e “Amado mio”, nelle quali mostra anche abilità straordinarie sia nelle danze che nella sua vocalità.

Nel prossimo blocco ci dedicheremo a trattare del cinema italiano che nel 1946 raggiunge le massime vette anche sul palcoscenico internazionale.

CINEMA parte 28

Un altro film importante del 1945 fu “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, interpretato da Ingrid Bergman, che venne scelta per il ruolo di una dottoressa che lavora in una clinica psichiatrica. I temi trattati sono stati caratteristici della filmografia del regista, che si volle avvalere anche dell’arte visionaria di uno dei più straordinari interpreti del Surrealismo, Salvador Dalì, che disegnò alcune delle sequenze oniriche che dovevano rappresentare gli incubi dell’altro protagonista, interpretato da Gregory Peck. La presenza dell’artista spagnolo, che si ispirò ad opere precedenti da lui stesso realizzate non fu ben accolta dal produttore David O. Selznick che tra l’altro riteneva di essere in possesso di ottime conoscenze nell’ambito della psicanalisi e pretese di inserire la sua personale psichiatra come consulente del film. Il film ottenne un grande successo, anche se alcune delle sequenze ideate da Dalì, una delle quali abbastanza importante e significativa, non vi entrarono a far parte.

Rimanendo negli Stati Uniti e nello stesso anno, il 1945, ma con uno sguardo tipicamente europeo troviamo il miglior film dell’ avventura americana di uno dei più grandi autori del Cinema, di cui abbiamo già trattato in altri blocchi, Jean Renoir, che, come altri registi, era espatriato alle prime avvisaglie belliche naziste. Diversamente da Renè Clair (di cui tratteremo più avanti in questo stesso blocco), forse per un carattere meno incline a soddisfare i gusti del pubblico statunitense, faticò non poco a farsi strada, anche se “L’uomo del Sud” è stato riconosciuto dalla critica come una delle più importanti sue opere. Sempre attento alle problematiche dell’esistenza umana, egli nel film riesce ad interpretare, attraverso le vicende di una famiglia tipicamente americana che per riuscire a recuperare la propria dignità, non esita a confrontarsi anche se a mani nude con gli elementi avversi della natura. Come si addice allo stile americano, anche in questo caso, l’orizzonte è promettente anche se la quotidianità è precaria.

Sempre nello stesso anno, l’altro grande cineasta francese, René Clair, realizza un film che ancora oggi è presente nei palinsesti delle televisioni nostrane. Egli aveva già ottenuto alcuni successi, inserendosi nel filone della “commedia fantastica”, e si accostò con questa sua predilezione anche al testo di Agatha Christie, “Dieci piccoli indiani”, riuscendo ad inserirvi con buon esito il suo particolare umorismo nero, anche se non riuscì completamente a convincere il pubblico francese, che lo accolse tiepidamente.

Saltando all’anno successivo, il 1946, ritorniamo a parlare della produzione del grande maestro Alfred Hitchcock, che in quest’anno realizza uno dei suoi più acclamati capolavori, “Notorious”. Il film è sia un Thriller psicologico che un classico film sentimentale. Interpretato da due ormai consacrati mostri sacri, come Cary Grant e Ingrid Bergman che contribuiscono a creare il mix giusto per la buona riuscita del prodotto. L’attrice svedese naturalizzata ormai statunitense da alcuni anni aveva già ottenuto grande successo con film come “Casablanca” e “Per chi suona la campana” ed era stata confermata, dopo il successo di “Io ti salverò” come attrice preferita da Hitch. Grant era già ai vertici della notorietà avendo partecipato come protagonista a film diretti da grandi registi come Hawks, Cukor e Frank Capra, oltre che con lo stesso Hitchcock, con cui aveva girato nel 1941 “Il sospetto”.

CINEMA – storia minima – parte 27

CINEMA – storia minima – parte 27

Avevo annunciato nel precedente blocco che, seguendo in modo cronologico la Storia dell’arte cinematografica, ci saremmo spostati con il nostro sguardo in Italia, dove la grande stagione del Neorealismo tocca nuovi vertici con un film che consentirà al mondo intero di prendere consapevolezza del livello cui la cinematografia italiana era pervenuta, “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. Il film si snoda tra una sorta di documentazione di fatti realmente accaduti pochi mesi prima che venissero girate alcune scene (gli abitanti della Capitale d’Italia assistettero sgomenti a quelle riprese, in quanto non pochi di loro credettero che fossero ritornati gli scenari di guerra che avevano vissuto) e le storie umane di una parte dei borgatari, alcuni dei quali impegnati nelle file della Resistenza al Nazifascismo. Il film ottenne vari e alti riconoscimenti a partire dal Gran Prix al Festival di Cannes del 1946 e pose in evidenza l’interpretazione di Anna Magnani e di Aldo Fabrizi. La narrazione degli eventi è in grado di coinvolgere ancor oggi spettatori di tutte le età. Qui di seguito una delle dichiarazioni di Roberto Rossellini sul film.



Insieme a “Roma città aperta” – presentato nel 1945 – nello stesso anno, il 1946, ad ottenere uno dei premi più prestigiosi al Festival di Cannes furono, tra altre nove opere, “Breve incontro” del britannico David Lean e “Giorni perduti” dello statunitense Billy Wilder. Il primo è una storia intima nella quale si racconta di un tradimento non finalizzato tra due che occasionalmente si incontrano ma, pur scoprendo di essere innamorati, rinunciano a portare avanti la relazione per evitare di veder naufragare le loro legittime relazioni familiari. Il titolo si riferisce alla parte finale quando i due decidono di troncare quella esperienza, incontrandosi brevemente nello stesso bar della stazione dove per la prima volta si erano conosciuti.

L’altro film, “Giorni perduti”, approfondisce un tema sociale molto rilevante, riscontrabile soprattutto negli ambienti artistici, spesso soggetti a profonde e cocenti delusioni rispetto alle aspettative: la dipendenza dall’alcool e dalla droga. Un tema questo molto complicato anche perché si rischiava di toccare corde molto sensibili in tal senso proprio negli ambienti letterari e cinematografici. Non fu facile trovare un sostegno all’idea che Billy Wilder aveva tratto dalla lettura di un romanzo di Charles R. Jackson e dopo essere riuscito ad ottenere i diritti per trasformarlo in una sceneggiatura cinematografica ebbe molte difficoltà con il produttore della Paramount Pictures, Young Frank Freeman, che si convinse soltanto dopo aver capito che il film dello stesso Wilder, “La fiamma del peccato” di cui abbiamo accennato nel blocco 24 e che usciva in quel periodo si annunciava come un grandissimo successo. La decisione non fu certamente improduttiva, in quanto il film dopo aver ottenuto il riconoscimento di ben quattro Golden Globe (Miglior film drammatico, Miglior regista, Miglior attore protagonista e Migliore sceneggiatura non originale) riuscì ad accaparrarsi altrettanti Premi Oscar (Miglior film – produttore a Charles Brackett; Miglior regista a Billy Wilder; Miglior attore a Ray Milland; Migliore sceneggiatura non originale a Charles Brackett e Billy Wilder). Tra le altre note va ricordato il contributo per la colonna sonora di Miklo Rosza.

IN RICORDO DEL POETA PIER PAOLO PASOLINI – parte 22

PARTE 22

Una mia nota: Voglio ancora una volta ricordare che vado riportando il dibattito che si svolse il 27 aprile del 2006 così come riportato dai trascrittori che sbobinarono le registrazioni. Ecco quindi perché a volte ci sono degli errori o comunque delle incertezze.

E qui, riprendendo questa suggestione dell’opera mancata, una cosa alla quale pensavo sentendo i vari interventi è anche questi pesantissimi dieci tomi che ci sono stati consegnati dell’opera (parola non comprensibile), di cui ben tre riguardano l’opera cinematografica cosa che credo farebbe orrore a Pasolini, lui che aveva scritto la sceneggiatura come struttura che vuole essere una anti-struttura, che venga dato il nome di opera cinematografica a quelli che quotidianamente sono degli scatafasci, cioè che sono appunto delle strutture che vogliono bilanciare un’altra società.

E questo quindi mi sembra che l’invito sia venuto appunto da un giovane per favore non facciamo di Pasolini un classico, mi sembra che sia una cosa da prendere estremamente alla lettera.

Anche Perché, avvicinandomi un po’ a quella che è la mia specializzazione, una delle contraddizioni di Pasolini è che lui ha detto tutto e il contrario di tutto a proposito di due configurazioni del linguaggio cinematografico e anche gli studenti del primo anno conoscono: cioè il piano sequenza e il montaggio. Cioè lui da una parte pensava che l’opera dovesse somigliare il più possibile ad un infinito piano sequenza, Perché finché siamo dentro il flusso della vita non siamo definiti, non siamo fluidi. D’altra parte sapeva benissimo, e la sua morte lo dimostra, che la morte compie improvvisamente una operazione di montaggio rispetto a questa apertura che è data dalla concezione della vita, dell’esistenza, del gesto e dell’opera stessa. E quindi irrimediabilmente la morte di Pasolini come dire compie obbligatoriamente, Perché vanno così le cose della vita, un montaggio sulla sua opera. Opera che però bisogna continuare a riaprire. Ecco io credo che il peggior servizio nei riguardi di Pasolini lo abbia cominciato Nanni Moretti con un film, che per altri versi mi è piaciuto, che si conclude con una visita, una sorta come dire di omaggio a quella che però dentro l’opera di Moretti è proprio una icona, un santino Perché provo a figurarmelo il Moretti che non dico leggere l’opera omnia di Pasolini, ma entra dentro alcune delle comparizioni che ci sono dentro.

Quindi, bisogna tornare all’opera di Pasolini. E tornare all’opera di Pasolini sapendo che dove è mancata e dove non poteva più mancare quest’opera era proprio in questa sua idea di poterla mantenere perennemente. Ma c’è questo limite invalicabile per cui ad un dato momento l’opera si chiude. Allora bisogna entrare dentro quest’opera.

All’interno di questa opera la vocazione, la spinta verso la dimensione del classico, del figurativo, cioè del non verbale è qualcosa di molto forte. E’ una delle grandi spinte che c’è dentro l’opera di Pasolini attraverso la quale, forse, lui ha cercato di superare quel peso della posizione al quale faceva riferimento Tricomi all’inizio del suo intervento. Ecco cioè questa idea, questa possibilità di riuscita dalla parte della dimensione (parola non comprensibile).

E veniamo qui al documentario che io vi propongo, che è un documentario come dicevo che ho fatto una decina di anni fa in occasione di una grande mostra fotografica sulle opere di Pasolini che si è tenuta a Villa Manin in Friuli.

Questo documentario è quello che rimane di una cosa che non era né un film né un video, ma era una multivisione. Vale a dire che dentro questa mostra fotografica, all’interno di una sala completamente buia si accendevano in punti diversi

della parete delle diapositive accompagnate da testi di Pasolini stesso o letti da uno speaker, da un attore o in alcuni casi quando esistevano letti da Pasolini stesso. Con come dire un omaggio alla poesia di Pasolini che abbiamo fatto leggere ad un poeta veneto, Andrea Zanzotto, al quale abbiamo proposto di leggere un brano de “La ricchezza” un poemetto in cui Pasolini descrive un suo viaggio attraverso l’Italia da nord verso sud con una fermata ad Arezzo dove va a vedere gli affreschi di Piero della Francesca nella Chiesa di San Francesco. Poi il viaggio prosegue ed arriva a Roma dove in un cinemino dalle parti di Trastevere vede, e prova una fortissima emozione, “Roma città aperta” film di Rossellini.

I REGALI DI NATALE – p.1

Faccio un passo indietro per descrivere quel che è il pregresso: le attese, le speranze, la voglia di recuperare un rapporto con la Madre Terra, o come meglio sarebbe dire “Terra Madre”, la terra natia: è di noi due ma in modo particolare e sorprendentemente da parte di nostra figlia. Decidiamo di partire il 22 dicembre, per evitare il rientro dei vacanzieri di fine anno, quelli in particolare collegati al mondo della scuola. Quando si parte, comunque si sia in due oppure in tre o quattro come questa volta, appariamo sempre una famiglia in trasloco e ci consola solo il fatto di non essere gli unici, felicitandoci del comune destino quando si incrociano altri veicoli ricolmi come un uovo. In realtà lo spazio è ridotto e i bisogni sono raddoppiati; in aggiunta si deve dire che tutte le vettovaglie che erano state lasciate nel gennaio del 2020 erano scadute e quindi dovevamo necessariamente portare con noi perlomeno i viveri di prima necessità.

Mi sono raccomandato con mia figlia affinché non si parta troppo tardi: voglio arrivare a Pozzuoli, in questo periodo di solstizio invernale, con un po’ di luce. Il mio desiderio, visto che sono considerato ormai un impenitente maniaco della precisione, viene esaudito; ma la speranza di trovare un traffico normale, no. Assistiamo inermi a lunghe file di centinaia di Tir che lottano arrancando per procedere in mezzo a chilometri di cantieri aperti. Si viaggia dunque quasi a passo d’uomo per molti chilometri. Per fortuna non fa tanto freddo e si possono tenere aperti anche se di poco i finestrini per aerare il poco spazio rimasto: c’è il rischio che qualcuno di noi covi il contagio, senza esserne consapevoli. E, poi, ho una strana tosse che mi scuote di tanto in tanto: a me sembra psicosomatica perché mi ritorna soprattutto se ci penso; ma il mio dottore ha detto che è collegata al reflusso gastro esofageo. Sarà; ma sono più o meno gli stessi sintomi che avvertivo nel marzo 2020 all’alba del Covid19.

Comunque, giusto per la cronaca, è proprio il gran traffico che mi impegna a mantenere desta l’attenzione ed anche la “tosse” non mi perseguita e di riflesso gli altri viaggiatori non hanno alcun motivo di preoccuparsi. I giovani ne approfittano per organizzare incontri e visite ad amici, luoghi da visitare e ristorantini dove rifocillarsi tutti insieme che diano garanzie di sicurezza. Mia moglie è intenta a seguire il traffico e di tanto in tanto distribuisce qualche snack. Il viaggio dopo le prime due ore e mezza da incubo procede abbastanza spedito; l’auto è revisionata ma non mi fido di lanciarmi oltre i 90 massimo 100 orari. Per fortuna non c’è più il gran traffico grazie anche alle corsie che da due sono tre, da Orte in giù. Ci siamo fermati solo per un parziale bisogno fisiologico; non mi sono mosso dall’auto. Arrivati a Santa Maria Capua Vetere, la sagoma del Vesuvio già si intravede sullo sfondo; poi sparirà e ritornerà dopo l’uscita dall’A1. Qualche altro chilometro e poi si entra nella bolgia infernale, che chi non è di queste parti non può immaginare (forse a Roma sarà la stessa cosa, ma qui a Napoli, entrare nella Tangenziale è il cordiale saluto della città e soprattutto dei suoi abitanti.

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I regali di Natale – intro

I regali di Natale – intro

Tra gli aspetti positivi di queste “feste” natalizie c’è da annoverare la possibilità di potersi incontrare in famiglia, anche se in misura ridotta dovuta a questo periodo particolare nel quale ci siamo trovati a vivere. Senza alcun dubbio c’è a questo mondo chi sta peggio di noi, molto peggio. E l’elenco che dovrei qui snocciolare sarebbe molto lungo; anche molti dei nostri più vicini predecessori e qualcuno di quelli che ancora oggi sono con noi hanno vissuto momenti difficili, collegati a periodi difficili dal punto di vista sanitario e bellico. Mio padre ha vissuto durante la seconda guerra mondiale ed ha conosciuto la famigerata “spagnola”, ha fatto i conti con la miseria più nera patendo proprio la fame e in tempi più recenti ha dovuto barcamenarsi tra il colera del 1973 e il bradisismo degli anni successivi, subendo un’evacuazione forzata che durò un paio di anni.

Molte vicissitudini sono state da me condivise e forse anche per questo motivo non mi sembra così pesante l’atmosfera attuale con questa pandemia. Dovrebbe ovviamente pesarmi meno, ma l’abitudine ad una vita sociale, anche intensa, non consente grandi ottimismi. Tornando per l’appunto ai nostri giorni il potersi incontrare in famiglia significa per noi in tempi normali condividere gli spazi con un massimo di otto – numero massimo, però, difficilmente raggiungibile – dico “otto” persone. Ragion per cui quel di cui penso con questi nuovi post di parlare si riferisce ad un caso assai particolare, che mi ha consentito di vedere tre diverse – per caratteristica – opere insieme a mia moglie. Scendere giù per Natale, da Prato a Pozzuoli (ecco il motivo del riferimento al bradisismo), dopo un’assenza di circa 22 mesi, un anno e tredici mesi a dir la verità, ci ha posto davanti ad una condizione inattesa, anche se avremmo potuto prevederla: il vecchio apparecchio televisivo era “off” per le “ovvie” ragioni che tutti dovrebbero ormai sapere, collegate al passaggio al digitale terrestre. A dir la verità, l’antenna aveva sempre ma funzionato ma una decin di canali fino al gennaio 2020 riuscivamo a intercettarli, e ci bastava per seguire le vicende del Paese e del Mondo. E poco più.

Siamo scesi a Napoli in quattro; forse ne incontreremo altri due, della famiglia. Due sono rimasti a Prato. E qualche volta, lo sappiamo, saremo in due, mia moglie e io. L’organizzazione non prevede grandi cenoni: solo un paio di “rendez vous” collettivi, in sei per l’appunto; poi mezzo gruppo ha già pensato di incontrare qualche altro gruppetto, mantenendo le distanze necessarie per evitare il più possibile contatti che potrebbero farci entrare in paranoia, sacrosanta in questo periodo ma pur sempre “paranoia”. Tutti vogliamo evitare di incorrere in errori più o meno fatali. Ed è anche per questo motivo che i nostri saluti avvengono a distanza di sicurezza, da un balcone o per telefono. D’altra parte, però, le cautele sono reciproche e da quel che sappiamo non sono meno esagerate rispetto alle nostre. Anzi; si racconta di contatti amichevoli con l’uso di saliscendi antidiluviani, come il classico “panariello”, utilizzato per scambiarsi oggetti, prodotti necessari per l’alimentazione e cibi preparati.

21 novembre – non solo Dante – Dante in napoletano

Proseguendo nella disamina di opere che abbiano toccato tematiche “dantesche” come quelle del “viaggio nell’aldilà” corre l’obbligo di menzionare una sorta di traduzione della “Divina Commedia” in dialetto napoletano. In realtà ve ne sono diverse. Una degli ultimi è “Nfierno, Priatorio, Paraviso. Nove canti della Divina Commedia in napoletano” edizione LFA Publisher del 2020.

Molto interessante è l’operazione che ha prodotto il quotidiano napoletano “Il Mattino”, fondato nel 1892 da due grandi poeti della seconda metà dell’Ottocento come Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, Eccovi un file di riferimento per poter avere un’idea intorno a quest’altra possibile proposta.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/dante_in_napoletano_terzine_divina_commedia_traduzione_mattino-5684506.html

Ma quello che oggi propongo è  Il Dante popolare o la Divina Commedia in dialetto napolitano pubblicato a Napoli nel 1870 a firma di Domenico Jaccarino, professore, giornalista, poeta e saggista, nato nel 1840 a Napoli, dove morì nel 1894. Egli, nel 1867 fu autorizzato dal ministro dell’Istruzione di quel tempo, Michele Coppino a fondare la Scuola popolare dantesca a Napoli. Godetevi questi primi versi del Canto primo dell’Inferno (vv1-99).

A meza strata de la vita mia
Io mme trovaie ntra na boscaglia scura,
Ch’avea sperduta la deritta via.
Ah! quanto a dì comm’era è cosa addura
Sta voscaglia sarvaggia, e aspra, e forte,
Che mme torna a la mente la paura!
E tanto amara che pò dirse morte;
Ma lo bene pe dì che nce trovaje,

Dirraggio cose che non songo storte.
Non saccio manco dì comme passaje,
Tanto comm’a stonato m’addormette,
Quanno la vera strata io llà lassaje.
Ma pò ch’io na collina llà vedette.
Addò chella campagna se feneva,
Che ‘ncore la paura me mettette;
Guardaie pe l’aria, e arreto llà vedeva
Li ragge de lo luceto chianeta.

Che dritte fa sorcà li figlie d’Eva.
La paura no poco fuje coieta
Che dinto a chisto core èra durata
La notte eh’ io passale tanto scoieta.

E comm’a chillo ch’ a lengua affannata,
Arrivato a la riva de lo mare,
S’ avota a l’ acqua che se sbatte, e sciata:
Accussì st’arma mia stette a votare
Pe chillo luoco arreto da bardascio,
Che fice tanta gente annegrecare.
E arreposato io disse: ccà mo nascio,
Mme ncammenaie pe la riva deserta,
Sì,ca lo pede nnanze era cchiù bbascio.

E a lo principio teccote de ll’erta,
Na diavola veco de pantera,
Che de pilo ammacchiate era coperta.
E mme guardava co na brutta cera,
Anze li fatte mieje tanto guastava,
Ca voleva ì da dò venuto nn’ era.
Tiempo era, e la matina se schiarava
E lo Sole saglieva co le stelle.
Ch’aveva co isso, quanno Dio criava
E’ Ncielo e’Nterra tanta cose belle;
Mme dette da sperare e co ragione
De chella fera la pittata pelle,
E l’ ora de lo tiempo, e la stagione;
Non mperò che paura non me desse
La vista de gruossissemo lione,

Chisto pareva ‘ncontro a mme venesse,
Co la capa auta, e co arraggiuse diente,
Che lo Cielo parea nne resentesse;
E pò na lupa, che de tanta gente
S’avea magnate gamme vraccie e ccore,
Attuorno mme venette into a no niente;
E sentennome mpietto n’antecore
La speranza perdette ch’avea vista,
De saglire a lo monte ncantatore;
E comme a chillo che trisore acquista,
E de morte arrivato ntra lle strette
Cchiù l’arma soja s’arraggia, e se fa trista

Accussì chella bestia mme facette,
Che venennome attuorno chiane chiano
Fice si che a lo scuro mme mettette.
E mentre stea pe scennere a lo cchiano,
Lla nnanze a ll’uocchie mieje se presentaje
Chi zitto e muto steva da lontano.
E quanno lo vedette accommenzaje:
Piatà de me, lo dico nfra de nuje,
O ommo, o ombra, o chello che sarraje.
E isso: Ommo non già, ommo già fuje,
E lli pariente mieje fujeno Lombarde,
A Mantova nascenno tutte e dduje.
Sotto a Giulio nascette, e fuje già tarde,
E stette a Romma sotto a Ron Avusto
Ntiempo de chille Dieie fauze e busciarde.
Fuie Poeta, e cantaie chill’ommo justo,
Anea, che pò de Troja lassaje lle mura,
Quanno li Griece ficero l’arrusto!
Ma pecche tuorne a tanta seccatura?
Pecche non saglie ncopp’a chillo monte,
Prencipio e causa d’ alleria sicura?
Sì tu chillo Vergileo e chella fonte.
Che chiacchiereja comm’a no Papasso?
Lle risponnette co scornosa fronte.
0 de l’autre poete lummo a grasso,
Pe chell’opera toja, pe chill’ammore,
Pecchè letto l’ aggio io passo pe passo.
Tu si lo masto mio, tu si l’aotore,

E da te schitto io lesto copiaje
Lo bello scritto che m’ à fatto annore.
Guarda la bestia, pe essa io m’avotaje.
Saccente mio, mo damme ajuto, e ntutto:
Ch’ essa mme fa tremmà, ma proprio assaje;
Cammino àje da cagnare pe lo ntutto
Dice, pocca ie chiagnette co sospire,
Si vuò sta pe sto luoco ascuro e brutto.

Ga chesta bestia che staje a sentire.
Non fa passa nisciuno pe la strata,
Primma lo sbramma e ppò lo fa morire.
E co natura accussi trista è nata,
Che magna primma, e doppo se nne lagna
E cchiù de primma sta peggio affamata !

6 novembre – IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI – parte 16

IN RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI – Parte 16

Una mia nota: Voglio ancora una volta ricordare che vado riportando il dibattito che si svolse il 27 aprile del 2006 così come riportato dai trascrittori che sbobinarono le registrazioni. Ecco quindi perché a volte ci sono degli errori o comunque delle incertezze.

In qualche modo Pasolini in ogni sua opera chiama in causa il lettore o lo spettatore chiedendo a questo lettore o a questo spettatore di portare lui a compimento l’opera che Pasolini in un certo senso gli consegna incompiuta, dove compimento significa due cose: compimento estetico ora dirò in che senso e compimento pratico. Cioè mettere in pratica questa opera.

In che senso compimento estetico? Perché spero che l’altro senso sia più chiaro. Compimento estetico nel senso che soprattutto l’ultimo Pasolini, diciamo il Pasolini dalla metà degli anni sessanta in poi, quindi il Pasolini di “Alì dagli occhi azzurri” poesie in forma di rosa, da lì in avanti, tende realmente a consegnare i testi non finiti al pubblico, dove non finiti significa costitutivamente non finiti. “Alì dagli occhi azzurri” è presentato da Pasolini stesso come un libro nel quale viene stipato del materiale eterogeneo di racconti che partono come racconti da farsi e finiscono come racconti non (parola non comprensibile).

“Petrolio” è tutto costruito in questo modo. “La divina mimesis” è un testo che addirittura Pasolini licenzia delle stampe fingendolo, e poi di fatto lo è, non compiuto. Un testo addirittura ritrovato. Ed è un testo ritrovato Perché “La divina mimesis” risale addirittura a prima della metà degli anni sessanta, vecchio progetto che si intitolava (parola non comprensibile).

Dunque, dicevo non finito anche addirittura in senso estetico per cui al pubblico spetta la voglia di mettersi quasi idealmente accanto l’autore e nella propria testa portare a compimento un’opera che in qualche modo compiuta non è. Però, appunto Perché descrivevo prima il rapporto tra Pasolini e i suoi lettori e i suoi spettatori come un rapporto politico, tutto ciò che Pasolini vuole evitare è un rapporto conflittuale con questo pubblico. E così torno alla ragione per cui ho qualche riserva sempre a parlare di classicismo a proposito di Pasolini. Se Pasolini vuole essere usato, e più o meno è quello che noi stiamo continuando a fare da trent’anni, e non ha nessuna preoccupazione di consegnare opere in questo senso irrisolte, è chiaro che il rapporto con i propri lettori è quasi costitutivamente un rapporto conflittuale, Perché essere usati non significa soltanto essere assecondati, molto spesso può significare e significa essere violentemente contestati. Cosa che Pasolini sa e che, come dire, prevede nel momento in cui costruisce e poi consegna la propria opera. Insomma il tipo di lettore ideale di Pasolini è un lettore che si cimenta in un corpo a corpo davvero conflittuale, davvero drammatico. Quindi un lettore che non abbocca passivamente a tutto ciò che Pasolini vuole fare da un lato e che però è disposto a scommettere sulla veridicità dei testi di Pasolini cioè a concepirli e a viverli come depositi non solo di bellezza, quella è secondaria, ma di verità. Questo è il concetto.

perché ho accolto con piacere l’invito ad organizzare la presentazione del documento “LA SCUOLA SALVA IL MONDO” – una forma di preambolo “lungo” (1) (dedicato agli orbi ed ai deboli di udito)

perché ho accolto con piacere l’invito ad organizzare la presentazione del documento “LA SCUOLA SALVA IL MONDO” – una forma di preambolo “lungo” (1)
(dedicato agli orbi ed ai deboli di udito)

Abbiamo vissuto un tempo strano, per alcune parti di esso e per alcuni di noi, un tempo “sospeso”. Si agiva perennemente sotto una cappa minacciosa di un nemico invisibile.

E’ stato anche il tempo delle “mancanze”, materiali e spirituali, quella forma di consapevolezza che “dopo questa esperienza non potevamo più essere gli stessi”, che avremmo dovuto far tesoro di tutto quello che ci stava coinvolgendo, che interrogava severamente il nostro stile di vita, che ci spingeva, attraverso le varie tipologie di solitudine ad interrogarci più a fondo. Abbiamo potuto, laddove ci era permesso da un certo livello di serenità, lavorare al recupero di una memoria che si era andata appiattendo nell’immediato facendoci rimpiangere la realtà, nel suo complesso, “precaria”, di una società sospinta verso il consumismo sfrenato, un edonismo leaderistico a tutti i livelli che aveva condizionato l’economia producendo un divario sempre più forte tra ricchi più ricchi e sempre più numericamente ridotti e poveri più poveri e sempre più in crescita numerica.

Si è finito per correre un rischio, che ancora incombe come una classica spada di Damocle sul nostro futuro, che è stato quello di credere e di far credere, complici la dabbenaggine ipocrita di una gran parte del mondo politico, che il mondo nel quale avevamo vissuto prima dello scoppio della pandemìa fosse paragonabile ad un’ età dell’oro, nella quale tutto funzionava a pennello, il lavoro era strasicuro in tutto e per tutto, le regole in generale venivano rispettate, l’ambiente era curato al fine di evitare i disastri che già si andavano annunciando, le scuole erano luoghi ameni accoglienti e sicuri, dove far crescere i nostri giovani e potersi cimentare con le nuovissime tecnologie ed aprirsi al futuro alla pari con tutti gli altri paesi avanzati.  Ovviamente, nella memoria collettiva, i treni “allora” viaggiavano in orario. Allo stesso tempo “allora” i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta venivano rispettati, le leggi valevano per tutti, indistintamente. Si stava “allora” affinando tutta quella parte legislativa che avrebbe definitivamente aperto le porte al riconoscimento ed alla valorizzazione delle diversità, avrebbe consentito l’accoglienza ed assegnato la cittadinanza a chiunque si fosse sentito parte del nostro Paese.  Il Belpaese dove per l’appunto “allora” i treni arrivavano in orario. E nella Sanità pubblica i livelli assistenziali erano garantiti e diffusi al massimo su tutti i territori.  E nella Scuola i livelli di di dispersione e di abbandono erano scesi ai minimi termini, quasi azzerati; e per abbattere quei livelli si era aperta una vera e propria progettazione per il recupero dell’alfabetizzazione con corsi, diffusi su tutti i territori da Sud a Nord, di Educazione degli Adulti, soprattutto di Alfabetizzazione digitale riservata soprattutto, anche se non solo, agli anziani; e sui territori la partecipazione delle comunità in senso ampio era considerata dalle Istituzioni una ricchezza da incentivare con copiosi investimenti;  e poi “in quel tempo” veniva riconosciuto il merito, valorizzando le competenze e le peculiarità di ciascuno fino ai livelli massimi.

Ecco, con questi presupposti da “Libro dei sogni”, collegati alla drammaticità della realtà con cui si doveva fare i conti (i bollettini dei contagi dei ricoveri e dei decessi; le difficoltà economiche di una parte consistente della società; la precarietà e soprattutto l’incertezza verso il futuro) attendevamo che l’emergenza finisse anche con la collaborazione del mondo politico che incondizionatamente, come nei tempi passati, si era impegnato in una battaglia comune, senza personalismi senza distinzioni ideologiche, per garantire il superamento più rapido possibile delle difficoltà e per riprendere a vivere nella normalità quotidiana la nostra socialità, come avveniva per l’appunto “prima” che la pandemìa ci confinasse nei piccoli ristretti recinti dei trecento metri di raggio.

Era – come tutti sappiamo – un sogno dentro un incubo, un incubo dentro un “sogno”.

4 aprile – DA GIOVANE: LA SENSIBILITÀ AMBIENTALISTA, STORICA E CULTURALE – decima parte – 4 (Trenta più cinquanta fa “Nouvelle Vague”) – per la parte X/3 vedi 12 febbraio

DA GIOVANE: LA SENSIBILITÀ AMBIENTALISTA, STORICA E CULTURALE – decima parte – 4 (Trenta più cinquanta fa “Nouvelle Vague”)

Altri, partendo da un sostanziale rifiuto del Cinema come surrogato, appendice, diretto successore del Teatro, delle Arti e della Letteratura sperimentale da cui derivava di assumere tipici generi e stilemi, affrontava un discorso di più ampio respiro e di rinnovamento di questa nuova forma di Arte attraverso la ricerca di tecniche che la potessero meglio caratterizzare (gioco di luci – molteplicità degli angoli di ripresa – ritmo delle inquadrature nel montaggio ) con un più forte legame con la società e con i problemi connessi alla storia dell’esperienza umana (ricerca della libertà – della felicità – di un ideale assoluto). Questa offrì al Cinema ispirazione e lezioni e lo riempì di ideali insostituibili, rinnovandolo ampiamente. Mentre, se pensiamo agli esiti dei “tecnici” di cui ho detto prima, non riusciamo a distoglierci dall’impressione che siano all’origine del moderno cinema elettronico.

Per analizzare questa parte abbiamo pensato di dedicare la giornata di apertura all’Avanguardia, invitando a parlarne l’architetto professor Carlo Montanaro, docente dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e cinefilo benemerito (per tanti di noi) collezionista di materiale filmico preziosissimo. Dobbiamo soprattutto a lui se siamo riusciti a vedere “Taris ou la natation” di Jean Vigo, altrimenti reperibile solo presso la Cinemathèque Française ( ma con estrema difficoltà – vedi Postilla al testo di Maurizio Grande dedicato a JEAN VIGO dalla casa editrice Nuova Italia – Il Castoro Cinema, n.64 pagina 124).

Allo stesso relatore dobbiamo se, con la sua chiarezza e competenza, il pubblico presente è riuscito a comprendere sia le complesse difficili rapporti tra le diverse immagini nel film “L’Age d’or” di Luis Buñuel, sia molte delle problematiche non sempre di facile intelligibilità che pone allo spettatore “ingenuo” un film d’Avanguardia, proprio per quel concetto di “precedenza”, di “anticipazione” che la stessa parola “Avanguardia” ha dentro di sé, per cui molti di questi film in breve tempo e spazio racchiudono tutte le conoscenze tecniche e culturali del mezzo cinematografico.

Poi, per segnare proprio il passaggio dall’Avanguardia, come ricerca comunque intesa, ad un realismo poetico, non ancora riferito però a quello tipico di Renoir, anche se non meno significativo ed importante, si è dedicata una intera sessione a Jean Vigo.

Questo personaggio, amato e venerato non solo dai cinefili ma anche da un pubblico più vasto, soprattutto per la sua vita piena di questioni avvolte nel mistero e sconvolgenti (la storia del suo padre chiaramente anarchico, la sua infanzia travagliata, l’adolescenza peregrina, la sua malattia ed infine la sua morte), ci ha indotti a pensare ad un “poeta” delle immagini ed abbiamo così voluto presentare la sua esigua produzione in forma completa, per poterne capire profondamente la poetica, legata alle sofferenze esistenziali, espressa attraverso vicende che vanno ben al di là di una mera sequenza di versi, pur belli e sonanti.