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dedicato alla mia terra (Procida)

VIAGGIATORI (da un dattiloscritto degli anni Sessanta)

 PROCIDA – L’ETERNO “ritorno”

“Novembre, il cielo ancora azzurro, i campi disadorni e i fossati verdi…A te ritorno, isola, così un nocchiero rivede la sua terra e s’inchina a baciarne le prime zolle…

ANNI CHE NON TI RIVEDEVO! che non assaporavo la tua quiete, nel percorrere le tue stradine, le viuzze con balconi fioriti e le comari con i loro pettegolezzi “quasi” per riservatezza muti”

Sembra come se doversi limitare al solo porto, quando sbarcano i viaggiatori, l’isola di Procida! Ed invece nasconde dietro la falsa quinta delle sue prime case di pescatori una ricchezza immensa che, durante il mite autunno, è ancora parzialmente incorrotta. Il silenzio vi è smosso di tanto in tanto dalle grida stridule e possenti di qualche venditore, dal botto di un fucile, dal rombo di un aereo straniero, dal clacson della corriera che si annuncia di lontano o che notifica la partenza.

“Ci siamo accorti troppo tardi che andava a finire così. Avevamo fatto di tutto per evitarlo, e tante parole inutili. Poi, improvviso, il mondo ci aveva assalito.”

La mia civiltà, la nostra civiltà è quella che ora noi tutti ignoriamo, anche se un giorno l’abbiamo avvicinata e l’abbiamo conosciuta. Civiltà di infanzia, civiltà di piccole cose, mondi eterni irripetibili, senza mai un ritorno, infanzia, fanciullezza, adolescenza, felicità, sorrisi.

Dovevo essere piccolo piccolo, pochi mesi o poco più di un anno. Le braccia del nonno materno, Vincenzo, le sento ancora e mi vedo in una stanza che solo ora mi è ben nota, dal pavimento uguale a quello di una vecchia casa mia, tenuto stretto da un fantasma, una forma senza tempo come l’aria, il cui volto posso solo intravedere da un ritratto, ingiallito dal tempo, nel quale il busto del nonno sembra emergere dalle nebbie.

Uguale allo zio, il nonno, con un paio di baffi che certamente avrò toccato e tirato nelle innocenti smanie di un bambino.

Soltanto questo, ricordo di mio nonno.

Ho poi vissuto gran tempo lontano ed il mio ritorno si è fatto man mano più rado, le mie visite frettolose col passare degli anni.

“Ma non potrò dimenticare i luoghi,  le persone che mi sono state e mi sono più care, che ho lasciato non troppo ma pur sempre lontane.”

I giochi da bambino sono per me il desiderio più represso ma non trovo – e forse nemmeno ricerco – altre persone capaci, comprensive e pronte a sognare con me; e tutte sarebbero pronte a denigrarmi.

Vado passeggiando giù per i viali terrosi stretti e gli alti fossati che mi videro saltellante gioioso ranocchio insieme ad altri spensierati fanciulli, per sfuggire l’attanagliante noia dei tempi che avrebbe facile vittoria nell’adulto bambino che mi ritrovo ad essere, che sono, l’accidiosa involontà di essere un verme strisciante ed il desiderio represso di volare al di sopra degli altri, come nei sogni notturni che avevo da bambino, una cosa piccina, molecola sconosciuta ed invisibile del grande infinito universo.

Assaporo il mandarino strappato con voglia dall’albero; il suo sapore asprigno, il suo profumo pregnante mi ravvivano da sempre ricordi di momenti lontani misteriosi archetipici ed anche per questo del tutto prerazionali; e mi provocano sensazioni uniche e mi sento un po’ – e per poco – male: insolita tristezza provata che genera poi energia creativa.

Imbocco una strada, ora di asfalto, e mi trovo su di un viottolo, erboso ai margini, rovi spinosi prorompenti nella bella stagione ed erbe della macchia mediterranea profumate più intensamente dalla pioggerella recente, acre sapore di mare salso, di sole, di terra bagnata umida tiepida ed accogliente; fin quando poi non si intravede il mare, il sole all’improvviso apparso tra gli alberi dietro i recinti murari a volte a secco che i contadini avevano costruito per delimitare i loro pezzi di terra e, dietro la leggera patina di foschia, oltre la striscia blu verde chiaro sfocata a parte ed altrove piena di faville, l’altra isola più grande che con la sua cima tra le nuvole osava toccare e sfidare il cielo.

Mi siedo là sul precipizio mantellato d’erba e rimango in silenzio a guardare: luci strane ed abbaglianti, le onde riflettono i raggi del sole al suo calar nelle onde e sembra un silente messaggio meccanico della natura.

“isciacquio, sciabordio, dolci rumori” rimango a guardare, in silenzio assorto a pensare, ed il mare culla, incanta la mia mente. In questo posto alcuni anni fa….

In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…

E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.

“Fore Serra”, nella terra di miei parenti, era la passeggiata nei pomeriggi di tutte le domeniche procidane. Ci andavamo tutti e come sempre davo da pensare ai miei, preoccupati che potessi scappare dalle loro mani per fare un tuffo nel mare dall’alto della collina di Punta Serra.

Ma se scappavo arrivavo fino al recinto dei maialini a tirar loro i codini contorti melmosi, a sentirli grugnire nel loro incomprensibile dialetto animalesco.

“Quella notte avevamo bevuto tanto, e mangiato per giunta in modo spropositato; la prima uva ornava le viti; mio cugino, più esperto e “padrone” del territorio, era addetto al raccolto furtivo aiutandosi al buio con le sole sue mani già abili e scaltre.. sentimmo di lontano, ma non troppo, musiche e canti, fisarmoniche e voci, grida e fresche risate, fuochi crepitare e vedemmo nel cielo senza luna e senza nuvole tre stelle cadenti ed un corpo non ben identificato, lontano, zigzagare e poi scomparire nei segreti meandri della Via Lattea. La voce della fanciulla che non mi riconosceva, e come avrebbe mai potuto, la porto nella memoria tuttora e sarebbe apparso come un avvenimento ancor più importante il giorno dopo nella mia mente. Girammo intorno al fuoco ormai quasi spento, come in un rito inconscio per la delusione di essere soli, per il desiderio di avere, di possedere un bene, un amore, quella ragazza, forse!

Girammo intorno al fuoco già spento, per dirci che eravamo ubriachi, per sentircelo dire ne accentuavamo il barcollio ed il balbettio insensato, e provare quel senso di abbandono totale da incoscienti, o quasi.

E da incoscienti guidammo l’auto giù per una strada tutta curve, senza mostrare responsabilità,  di notte, luci spente, come matti; e forse lo eravamo davvero. Così matti da andare poi subito a dormire, quella notte calda, senza nemmeno svestirsi, quella notte calda, accogliente, senza vento, un cielo stellato, un mare calmo, senza sorprese; a dormire quella notte, come matti; e prima avevano pianto i porcellini ancora giovani nel loro recinto, quei porcellini cui il cugino cattivo aveva anche lui voluto con più energia tirare i codini: avevano pianto e strillato forte; ma nessuno poteva sentirli, né aiutarli.

E, poi, quella ragazza che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

Arrivavo sotto gli alberi con l’immenso desiderio di scalarli e sentivo sapevo di non farcela di non averlo mai saputo fare, mentre gli altri veloci raggiungevano i posti più alti ed io, graffiandomi, rimanevo a guardarli impotente (una foto del tempo delle elementari me lo ricorda impietosamente). Le querce di Procida erano alte e dal tronco largo e nodoso. Sotto queste piante, sui bordi del promontorio di Serra, le buche dei conigli mi mettevano una strana paura e il ricordo correva a quel mio dito sanguinante inciso dai denti di uni di essi; ed ero minuscolo bambino ancora ingenuo e poco accorto lanciato alla conoscenza del mondo e delle sue piccole insidie. Sin da quel tempo, il cane da caccia “muso storto” mi guardava ringhiando e vaniva la mia coraggiosa intenzione di avvicinarlo e di carezzarlo con segno di amicizia da quel curioso che ero, allora, da quel curioso pettegolo che sono, adesso. La capra dal suo recinto protetto, addossato alle mura di quella casina diroccata in parte, ma del tutto abbandonata e trasformata in piccola stalla, lasciata lì solo a baluardo, con le sue mura forti ed alte, belava sentendoci arrivare, segno che l’ora del pasto e della mungitura delle sue mammelle lattifere era già arrivata. Tra tutte queste attività correvo scappavo dappertutto raccogliendo le ghiande e lanciandole qua e là con il segreto intento di raggiungere il mare, vicino (allora così mi sembrava!) da uno o dall’altro lato della punta, ed avrei voluto vedere nell’acqua, che tuttavia era lontana, i cerchi ingrandirsi concentrici e precisi man mano fin poi a scomparire.

Avevo saputo che laggiù sulla stretta spiaggia del Pozzo Vecchio venivano anche di inverno nelle belle giornate calde perché soleggiate gli innamorati, a cercare un istante di pace, uno scorcio romantico dove ispirarsi, ci venivano anche gli artisti, i fotografi, con i loro pennelli ed i loro colori, con le macchine fotografiche ad eternare momenti ed immagini.

“Dissi a mio cugino che andavo scrivendo qualcosa, niente di molto serio, poesie, racconti. Eravamo là sulle gradinate di casa, le lunghe caratteristiche gradinate procidane mediterranee costruite con il tufo e spalmate di bianca calce; ed io preferivo lungamente star lì seduto, piuttosto che andare al mare, che era per di più a quattro passi da noi; preferivo rimanere con me stesso, da quel chiuso riservato carattere che avevo, piuttosto che scendere alla spiaggia, a contendermi gli sguardi e le risa delle ragazze, a provare gelosia ed insieme invidia, a giocare con rabbia per emergere, farmi notare, ad impormi con aggressività nelle facoltà dove stimavo di eccellere e che spesso erano sottovalutate e derise, a nascondere la costituzione macilenta del mio fisico indossando maglioni poco adatti al caldo estivo, al sole che picchiava sulle sabbie sempre più calde, bollenti. E mio cugino mi offrì un sorriso di commiserazione, comprendendo che andavo rivolgendo dentro me stesso tempeste. Non avevo mai amato soverchio la bellezza, forse perché essa mi trovava sempre impreparato, sprovveduto, timido e chiuso. Avevo imparato che la bellezza era anche simbolo di vanagloria ed ogni volta che incrociavo gli occhi di una ragazza ostentavo una indifferente noia, un superficiale disgusto, una maschia sicurezza, che nascondeva l’immensa quantità di complessi.

Il tempo passa e ritorno, con lo stesso animo di un tempo, con gli stessi nascosti desideri di vincere l’età che mi trovo, di ritornare ancora una volta bambino e mi piace ritornarci da solo ad ascoltare e parlare con i fantasmi di coloro che ormai non vedo più come una volta, vinti dalla memoria e dagli anni.

“Un giorno verremo a trovarvi” “Un giorno andremo” aveva detto mio padre e loro ed a me. Ed avevo pensato con intima gioia all’attimo dell’abbraccio e del bacio non più dato solo per affetto, né per abitudine inveterata di famiglia. Mi recavo da solo in soffitta ad aspettare ed arrivava puntuale, ma il più delle volte si rimaneva a guardarci negli occhi, per un po’ soltanto guardarci negli occhi e poi ridere, fortemente eccitati, come sbocco di una voglia tremenda. La stessa buona stoffa di un voyeur, che da sempre aborrivo, sorgeva in me allorquando mostrava la bella forma nei suoi abiti felicemente larghi e campagnoli, larghe gonne e non lunghe, nello scendere i pioli delle scale che portano alla stretta e protettiva soffitta. Cosa era successo al nonno, non l’avevo più visto e poi mi avevano detto che era morto e ricordavo quando mi aveva stretto a sé, mi aveva portato con lui, e questo mi aveva lasciato dentro la misteriosa arcana paura di un regno invisibile vicino e lontano, lontano e vicino ma senza ritorno, di un luogo tremendo dove regna il silenzio, dove non si può più comunicare tra noi, la qual cosa mi toglieva ogni speranza di immortalità, quella a cui avevo sempre creduto. “Gli altri, non io” mi dicevo e ne ero convinto ma non sapevo, non capivo, non mi rendevo conto che cosa fosse la vita, cosa fosse la morte. E quelli che ci lasciamo dietro e che ci precedono sono tappe comunque della nostra vita; senza speranza di evitare il turno, ci affrettiamo a dimenticare lottando con gli altri, fingendo a noi stessi la vita, recitando commedie mai scritte, innamorandoci. Dov’era mio nonno, il nonno? Quando io ero bambino non ho ricordi che mi diano pace, consolazione, solo quei buffi baffi folti e quel volto dello zio, dello zio Michele così buono, che ha pagato molto cara la sua vita affrontandola seriamente ed in tanta solitudine. “Và ‘o cinema co’ Michalino; Assuntì, Peppino va ‘o cinema co’ Micalino” dicevano le zie a mia madre che mai mi avrebbe lasciato allontanare da solo ed io, già un ragazzetto, a dieci anni, attraversavo le stradine dell’isola, rifiutando per ribellione la mano dello zio, per orgoglio, per dimostrare la mia autonomia, lo zio poco loquace e dal sorriso buono ed io altrettanto silenzioso e per niente ciancioso verso di lui che mi avrebbe, forse, preferito, almeno allora quando si è bambini, più aperto ed affettuoso. Ma io non ho saputo mai mentire, non potevo essere diverso da quel che ero, riflessivo e riservato, specialmente con le persone che ho amato, quelle più care. Forse ho finto con la gente che non ho stimato, che non ho mai stimato, con quelli che mi hanno amaramente deluso facendomi prima credere in loro e mostrandosi poi quelli che veramente erano. Odio per questo ancor oggi i subdoli amici, non mi va di essere preso per i fondelli da chi non è intelligente da mondo e semmai merita finanche l’immortalità fra gli stronzi. Con lo zio al cinema scambiavo così sì e no qualche parola. Vi incontravamo suoi amici ed allora li sentivo parlare, e li ascoltavo con grande attenzione, dei loro problemi, la raccolta dei limoni, la qualità dell’uva, la vendemmia, la quantità di vino prodotto, le botti, il cane, le galline…..

Nei campi c’era tanta erba e la sera, un’ora prima del tramonto, si andava a raccoglierla. Bisognava però sapere quale sì e quale no. “No, chesta n’è bbona” diceva la zia Linda, esperta (perché quello era davvero uno dei suoi “mestieri”) del lavoro agreste e tanto spesso la vedevo zappare le zolle, salire gli “scalieddi”, raccogliere “dd’ove” alle galline spesso togliendogliele da sotto le chiappe ed allora – a volte – mi veniva di imitarla e rischiavo di cascare giù dall’alto di una scala a pioli, di tranciarmi le dita del piede con la zappa o di farmi beccare un occhio dal geloso gallo per il fastidio che procuravo alle sue pennute signore schiamazzanti nel recinto del pollaio. Con lei la zia Linda, donna molto dolce ed affettuosa con noi suoi nipoti, mi portava, ed erano impegni seri i suoi, tremendamente seri e, non si sarebbe mai detto oggi, mi piacevano particolarmente, ne ero affascinato; mi piacevano, in quel tempo! La Chiesa di S.Antonio Abate, detta popolarmente “Sant’Antuono” per distinguerla dall’altra dedicata a S.Antonio da Padova, era la sua seconda casa e le sere le trascorreva, come oggi potrebbero fare le dame in un salotto borghese attorno ad un tavolo da bridge o da burraco, accanto alla mensa del Signore. Procida è un’isola molto religiosa, tradizionalmente molto religiosa, ed io non nascondo a me stesso che mi attirava, mi interessava tanto quella vita, quell’ambiente con quei profumi intensi di incenso, tanto da farmi spesso pensare, e le zie qualche volta mi avevano anche incoraggiato, che in quel tempo desiderassi essere se non proprio prete, perlomeno un chierichetto. Procida era un’isola molto religiosa. Ora lo è di certo ancora ma forse per quei bambini che vivono innocenti nelle loro piccole case di campagna con una famigliola che li educa, integra moralmente perché vuole fare di loro dei buoni figli e li mantiene lontano da tutto quello che nel mondo simboleggia la corruzione, la civiltà del perbenismo e dei consumi esasperati. Amorosamente  cresciuti crederanno fin quando sarà loro possibile, come per quel bambino che ero io, alle storie del Cristo di cui vedono dappertutto gli esempi, senza però accedere a quei disvalori propagati dalle notizie diffuse dalla stampa, dalla televisione, dalla vita quotidiana di una qualunque piccola, media o grande città. Avranno la convinzione di essere anche loro una parte dell’eterno mondo ed invece dovranno forse un giorno abiurare amaramente a questo loro alto convincimento ideale. Cristo! Come avrei potuto esserlo, come avrei potuto diventarlo, come avrei potuto rimanere come ero quando ero bambino. Ma fui tentato dalla nostra Chiesa, quella che aveva abbandonato la primitiva semplicità, e fra Procida e la terra su cui vivo non c’è una distanza incolmabile, non aveva adottato solo la tecnica della presunzione di credersi migliori, aveva peccato  non solo di orgoglio, ma di ogni sorta di peccato, aveva forse creduto di essere veramente inattaccabile ed era poi caduta miseramente nel fango qui dentro il mio cuore. La mia debolezza mi aveva sconfitto di dentro ed avevo deciso risolutamente di rifiutare al Signore il mio impegno. Ma, in quegli anni di infanzia con le zie,  gli odori inebrianti di incenso, i colori ed i fregi delle chiese, delle immagini affrescate o dipinte dei santi, degli angeli e dei diversi protagonisti della storia religiosa (Cristo, la Madonna, lo Spirito Santo, il Padreterno), l’odore del legno dei banchi passati a lucido anche se molte volte corrosi dai tarli ed il canto corale delle donne, nelle diverse funzioni religiose cui partecipavo, che a tratti era accentuato quasi a volersi far ascoltare dal Signore lassù oltre le nuvolette, mi affascinavano non poco. 

La mia giovane semplicità mi fece entusiasmare quando feci conoscenza con una donna che aveva fatto voto di castità, un personaggio interessante ma forse un po’ fuori dagli schemi normali, un po’ folle, di quella follia che accomuno ad una passione disinteressata, ad un dedicarsi totale al servizio degli altri. Folle, sì; ma sono sicuro che a nessuno sia mai saltato in mente di chiamare folle una donna che viva santamente la propria esistenza fra una funzione religiosa e l’altra avvicinandosi anche più volte al giorno ai sacramenti ma sempre con l’obiettivo di praticare del bene. Ed in fondo se non altro per lei questa è la vita! La donna era fondamentalmente sola, era da troppo tempo stata sola come in una sorta speciale di clausura dalla quale era riuscita ad emergere; la tragedia della solitudine ci passa accanto chissà quante volte ma non ci coinvolge e quindi non riusciamo a comprenderla, non possiamo capirla, non possiamo, non potete conoscerla mai pienamente. L’aria di santità la circondava completamente; entrare in casa sua era come varcare una parte segreta di un santuario; prima di arrivare nella sua stanza si attraversava un corridoio buio un po’ funereo  illuminato solo dalla luce fioca di candele poste davanti a quadretti di vari santi. Ella di solito sedeva in una stanza in fondo al corridoio principale su un’ampia poltrona – le sue forme negli ultimi tempi tendevano all’obeso spinto – davanti alla quale aveva un ampio ma basso tavolo sul quale poggiava alcuni libri di preghiere, una bottiglia d’acqua ed un bicchiere, un piatto di porcellana dozzinale ed un’oliera piccola. Nei miei ricordi la stanza era buia ed illuminata da lumi a petrolio e da candele accese davanti a fotografie di persone morte. Si avvertiva un odore di antico, di pulito ma anche di vecchio, una mistura unica ed irripetibile che non ho mai più avvertito da tempo. Fra le mani di solito stringeva una coroncina del Rosario e murmuliava parole sconnesse in un italiano-latino tutto particolare. Il tutto faceva un po’ senso, ma il ricordo oggi non mi appare negativo; ero in quel tempo abituato più di ora a frequentare quei luoghi. Sembra che ella riuscisse a parlare anche con i morti e praticava arti un po’ insolite per gli ambienti religiosi come la lettura e l’eliminazione di quello che popolarmente chiamano “il malocchio”. Ho visto anch’io in diretta apparire e sparire misteriosamente gli “occhi” d’olio nel piatto dove prima aveva versato un fondo d’acqua e poi attingendo con le dita dall’oliera due-tre goccioline d’olio le aveva fatte schizzare nell’acqua. Ma ora a raccontarla sembra sia stata tutta un’allucinazione, una suggestione.

E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

A tavola erano in otto, quella sera. Mancava uno dei giovani maschi, Michele,  che già da tempo aveva deciso di andare a vivere da solo; ritornava di tanto in tanto più per necessità che per vero senso di appartenenza familiare,  ed era un po’ un isolato, forse misogino,  inadatto a vivere in una comunità con la prevalenza femminile.  C’era aria di festa; Domenico era tornato per un breve congedo dal servizio militare. Come si conveniva ad un lupo di mare era stato arruolato nella Regia Marina, Corpo Reale Equipaggi Marittimi, prima sul’incrociatore Garibaldi fino al marzo del 1938 e poi sul cacciatorpediniere Ostro. Erano vicine le festività pasquali e si respirava un’aria di primavera inoltrata; non aveva molti giorni ma avrebbe partecipato alle funzioni della Settimana Santa, quelle del giovedì, il 14 aprile e del venerdì, di certo; ma doveva far ritorno la mattina del sabato per consentire ad altri suoi compagni di poter andare in congedo. Era fortunato perché a Procida quella settimana ha un forte connotato religioso innervato nella realtà sociale: tutti, in modi diversi, vi partecipano.

“Comme te va, Mimì, te veco ‘nu poco dimagrito” disse Vincenzo, il capofamiglia con un paio di baffoni curati alla Umberto I e  seduto in cima al tavolo largo e capiente. “Nun te fanno mangià comme a casa; ma chi è che te cucina?”. Mimì sorrise e, tra una cucchiaiata di minestra di fagioli bolliti nel tradizionale fiasco e poi conditi con patate, erbe, cipolle e cotica, di quella conservata in gelatina con una parte di carne di maiale, mise le mani nel giubbotto che aveva appoggiato dietro la spalliera della sedia e ne tirò fuori un portafoglio dal quale estrasse alcune foto. “Ecco, qui simmo in libera uscita, a Taranto” mostrando la sua divisa ancor più elegante nel suo portamento di giovane poco più che ventenne  “e comme vedite c’è tanta ggente, tanta bella ggente, tante gguaglione ca ce guardano e, insomma, ce stà da fà”  fece con orgoglio maschile. “Chest’ata fotografia è a bordo, eccolo qua, chillo ca ce fa da mangià”  e mostrò un giovane dal sorriso aperto “ è nu guaglione de Puzzule, Lello; pur’isso è in congedo e forse, ci aggio ditto io, me vene pure a truvà, venerdì, e po’ ce ne iammo assieme”. La famiglia di Mimì era molto ospitale ed accolse con piacere l’annuncio della visita di chi, alla fine, si curava del benessere del loro congiunto. “E che cucina?” chiese la maggiore delle sorelle, forse curiosa forse invidiosa di un ruolo che aveva da tempo assunto con perizia. “Di tutto; però, basta che sape fà nu bbuono raù, ‘na bbona frittura, nu poco ‘e carne e quacche vvota ‘na bella ‘nsalata e a nnuje ce basta. Nun te preoccupà, Agnesì; a tte nisciuno te batte”. La madre Rachele gioiva solo al vederlo, quel figliolo, seduto in mezzo a loro, e non parlava. Mimì parlava con il padre e con le quattro sorelle scambiava poche parole, tanto erano esse riservate e di conseguenza silenziose. La più piccola era intimidita da quel fratellone grande e grosso ma aveva gettato lo sguardo, mantenendosi lontana, su quella foto nella quale c’era il “cuciniere” di bordo

C’era qualcosa che la incuriosiva e facendosi coraggio dentro senza esprimerlo fuori si avvicinò al fratello abbracciandolo  ed accoccolandosi accanto a lui saettò con le pupille sulla foto. Quel giovane era molto bello, il suo sorriso dolce e delicato quasi vicino a quello di alcuni angeli che aveva guardato ammirato e sognato nelle immagini sacre nelle chiese di Procida; Mimì non era fesso, se ne accorse e disse: “Tina, te piace? È ‘nu bravo guaglione, ‘nu grande lavoratore; nun se ferma maie. Nun cucina sultanto, fa tutto chello ca i superiori gli diceno; è bbravo a fà ‘o carpentiere e quindi aggiusta tutt’ ‘e scialuppe e a Puzzule ha fatto pure ‘o piscatore; però nun saccio se a Puzzule tene ggià ‘na guagliona. Nun t’allummà.”.

Tina, la minore, era la più coccolata dai fratelli e dalle sorelle e possedeva una grazia minuta, occhi grandi di color marrone ed una grande voglia continua di cantare e di danzare mentre svolgeva i suoi lavori domestici che erano assegnati a lei; gli altri lavori, quelli di campagna e l’accudimento degli animali, erano appannaggio delle altre sorelle, più robuste ed esperte. Sognava, invece, e aspettò il 15 aprile per vedere di persona come era quel ragazzo. Lo aspettò anche un po’ guardando dall’alto del tetto di casa la costa lontana oltre il Capo Miseno, là dove c’è Pozzuoli. Lello sarebbe arrivato di buon mattino, venerdì, quando a Procida c’è la processione del Cristo Morto, transitando attraverso Torregaveta con la Cumana.

Lello a Pozzuoli era arrivato la mattina di martedì 12 insieme a Umberto e a Mimì, che si era subito imbarcato per arrivare a Procida prima di pranzo. Umberto abitava sul Lungomare verso le Terme “La Salute”; la famiglia di Lello invece che fino a pochi anni prima aveva abitato alle spalle del Corso Garibaldi in un seminterrato molto modesto si era trasferita alle nuove Palazzine popolari alla base della Ferrovia nazionale ed a pochi passi dall’Anfiteatro Flavio lungo la Domiziana. Don Peppino e donna Rosa avevano cinque figli, 3 maschi e 2  femmine e riuscivano a stento ad andare avanti. Lello era il maggiore ed era l’unico ad essere stato arruolato; degli altri maschi uno era proprio piccolo a quel tempo e l’altro pure, ma di statura,  per la qual ragione era stato esentato dal servizio militare, il che era una fortuna perché poteva contribuire al reddito della famiglia.

Don Peppino era abile carpentiere di barche: Lello aveva imparato da lui. Lello era il figlio prediletto soprattutto per il suo comportamento integerrimo e la grande disponibilità a farsi in quattro per la famiglia. In città la vita era più dura per tutti rispetto a chi abitava in campagna e spesso si soffriva la fame per cui bisognava andare verso l’interno (Toiano, Quarto, Monte Ruscello) per cercare di comprare a prezzi i più convenienti materie prime, non importava se di scarto e di pessima qualità. A pranzo, però, ora che c’era Lello donna Rosa aveva preparato “fasule e pasta” perché sapeva che a Lello piacevano e non sapeva che anche a bordo lui li cucinava molto spesso e li proponeva ai suoi compagni; per di più, in cambio di un lavoro su una barca da pesca, a don Peppino avevano regalato dei polpi e per questo a casa di Lello era una vera festa quel giorno, doppia.

“Te veco bbuono, Rafilù” disse donna Rosa “se vede che ll’aria d’’o mare te fa bbene”. “Sì, mammà; veramente nun ce manca niente e po i’ stongo int’’a cambusa e mangio tutte chello che vvoglio; aggia assaggià pe’ tramente cucino; faccio ‘a pacchia e i superiore me lassano fà”. Le sorelle, soprattutto Maria lo prese in giro, ricordando uno dei giudizi sulla sua pagella dove, a parte la condotta, l’unica valutazione “Lodevole” era stata quella per “Lavori donneschi e manuali”. Risero tutti, anche Lello, ma non fece mai parola, però, della nausea che lo prendeva quando ai profumi dei cibi si mescolava il puzzo della nafta. E tra una cucchiaiata e l’altra, parlando del più e del meno, della scarsa voglia di andare a scuola del fratellino e gli impegni di lavoro del padre e dell’altro fratello e le storielle d’amorazzi veri o fittizi delle due sorelle, parlò dei suoi amici, di Umberto che tutti a Pozzuoli conoscevano ma anche di Mimì, che lo aveva invitato a Procida, in occasione del Venerdì Santo. Chiese ai suoi di  poter ricambiare l’invito già per sabato a pranzo; avrebbero dovuto però mangiare velocemente qualcosa e presto, a mezzogiorno, nulla dunque di impegnativo (anche se, lo avesse voluto,  non sarebbe stato facile) perché sarebbero partiti nel primissimo pomeriggio per raggiungere Civitavecchia. Lello aveva visto, anche lui, alcune foto della famiglia di Mimì ed era curioso di conoscerla; in particolare aveva notato la più piccola, Tina; ma di ciò non aveva mai parlato né con Mimì né quel giorno ai suoi.

Il resto della giornata Lello lo trascorse con il padre nei Cantieri navali per vedere il lavoro che stava portando avanti.

E venerdì mattina nella casa di campagna di Procida tutti erano svegli, come di consuetudine, molto presto. Il Venerdì Santo, poi! Tina non aveva dormito pensando a come si sarebbe agghindata. Il giorno prima si era lavata i capelli e se li era composti con un nastrino che glieli teneva dietro lasciando aperto l’ovale del viso; aveva scelto un vestitino a fiorellini molto adatto alla primavera ed un paio di scarpe basse comode. Arrossendo aveva chiesto a Mimì, che quel giorno aveva per obbligo indossato la divisa di ordinanza dei “Marò”,  se lo poteva accompagnare al Porto; Mimì acconsentì ma a patto che fossero d’accordo Vincenzo e Rachele. Di lui si fidavano perché lo conoscevano come ragazzo assennato, anche lui un gran lavoratore nella pesca oltre che braccio essenziale per la campagna, e non ebbero nulla in contrario a che Tina andasse insieme a lui. Si fidavano anche dei suoi giudizi e, se Lello era suo amico, pensavano dovesse di sicuro essere una brava persona. Le sorelle mugugnarono sotto sotto, erano fatte così; in effetti mantenevano un comportamento molto austero e mal sopportavano la puledrina a volte un tantino ribelle. Erano fatte così, rappresentando forme arcaiche in tempi che avrebbero portato forti cambiamenti. E Tina era alla fin fine la più vezzeggiata e si permetteva spesso di trasgredire.

Alle otto, più o meno alle otto arrivò il vaporetto. Mimì e Tina, orgogliosa di essere accompagnata da un fratello così elegante, alto, robusto e bello, erano sulla banchina.

Non era alto, Lello; ma a Tina apparve così mentre, vestito con la divisa da “marò”, scendeva la scaletta del vaporetto. Si andarono incontro e Mimì fece le presentazioni: i due già si erano conosciuti e le impressioni delle foto furono tutte confermate. Lello, benché fosse di carattere timido, complice la presenza dell’amico, si mostrava a suo agio; Mimì gli propose di lasciare il borsone con i suoi effetti personali negli uffici del Cantiere Navale che era gestito da un suo cugino in modo da poter poi girare senza tanti ingombri nel seguire la Processione del Venerdì Santo. Il giovane accettò subito di buon grado e poi si lasciarono entrambi prendere sotto braccio dalla radiosa Tina ed andarono incontro alla testa della Processione ascoltando il suono funereo della tromba che annuncia la morte del Cristo.

Tina avvertiva una forza che le infondeva sicurezza nel braccio di Lello che la stringeva verso di sé quando dovevano farsi largo tra la folla dei fedeli che seguiva il corteo nelle stradine di Procida. E quella ragazzina minuta esprimeva una freschezza straordinaria lasciandosi trasportare da quei due bei giovanotti, suscitando gelosie ed invidie in quelle persone, soprattutto donne ed in quel giorno particolare, che non riuscivano ad apprezzare la gaiezza ed i sorrisi anche se mai espressi in modo minimamente e seriamente riprovevoli. Lello chiedeva di tanto in tanto a Mimì, ma era poi sempre Tina a rispondere, alcuni significati dei simboli presenti nei cosiddetti “Misteri” che venivano trasportati dai fedeli incappucciati. E lei si impegnò volentieri a farlo essendo, come donna, molto più addentro alla conoscenza delle funzioni religiose, anche se non era mai stata assidua nel frequentare la Parrocchia e le sorelle per questi motivi tante volte l’avevano rimproverata.

Dopo aver ripreso il borsone di Lello, ritornarono a casa che era ora di pranzo. Per arrivarci, passarono attraverso un sentiero stretto costeggiato da campi coltivati e qualche rara abitazione. La casa era una tipica costruzione multifamiliare con cucina, camera da pranzo e cantine al piano terra e con una serie di piani concatenati da una scala interna. Si sentiva già mentre i tre arrivavano un invitante profumo di cibo. Il venerdì, poi quello Santo ancora di più, era consuetudine mangiare di magro. I genitori erano già seduti a tavola, quando i tre entrarono e Mimì presentò loro Lello; le sorelle lo salutarono con un certo riserbo sussiegoso, cioè senza eccessivi entusiasmi. Tina scappò, prima di entrare in cucina, nei piani alti per togliersi il vestitino da festa e subito dopo però si mise a disposizione delle sorelle in cucina.

Al di là del Venerdì Santo, giorno di meditazione per i fedeli, quel dì era comunque “festa” soprattutto perché il giorno dopo, di prima mattina, Mimì e Lello sarebbero partiti per Civitavecchia.

Tina era composta ma raggiante; per lei quel giorno non era ancora ora delle tristezze e dei rimpianti. Le sorelle se ne accorsero e qualche sorrisino sotto sotto emerse. Il pranzo, anche se di magro, era di tutto rispetto; il pesce, tutto di qualità, fresco pescato due notti prima troneggiava bollito spinato e preparato facendo bella mostra in un enorme vassoio in mezzo al tavolo. Seguite con molta attenzione da un corteo di gatti le sorelle maggiori portarono due zuppiere ricolme di spaghetti ben conditi con pomodori freschi e acciughe sminuzzate, olive, capperi, prezzemolo e basilico. In un altro piatto ovale vi erano tantissime uova sode con il guscio coperto da alcuni segni simbolici. Anche Tina aveva contribuito a prepararle e ne volle segnalare alcune.

Don Vincenzo si rivolse a Lello: “Nuje sapimmo ca tu saje cucinà, facce sapè se chello c’hanno preparete ‘ffiglie mie te piace. Buon appetito!”. Nel mentre donna Rachele, che rimase più o meno muta per tutto il pranzo, e le due figlie più grandi distribuivano il primo.

Don Vincenzo e donna Rachele erano seduti a capo tavolo l’uno di fronte all’altra. Tina era seduta accanto e Mimì. Le altre tre sorelle distribuite in modo da poter più agevolmente alzarsi per togliere i piatti e distribuire le altre vivande. Sulla tavola non mancava nulla: in una grande e fonda insalatiera c’era un contorno di verdure fresche dell’orto; due brocche contenevano vino rosso prodotto nella vendemmia dell’anno precedente e non mancava l’acqua attinta dal pozzo di casa; sopra una delle credenze infine era pronta una cesta di vimini piena di arance, mele e limoni.

“Tu ‘o ssaje fratete comm’è” disse don vincenzo a Mimì che si preoccupava dell’assenza del fratello più piccolo “nun le piace sta’ in famiglia. E’ fatto accussì”.  In effetti Giovanni non aveva nemmeno gradito la presenza di un estraneo ed aveva deciso di non farsi vedere; di solito nelle festività partecipava.

A tavola soprattutto gli “uomini” ed in particolare Mimì e Lello, discussero dei loro progetti di vita, sollecitati a ciò da don Vincenzo, che espressamente aveva chiesto a Lello (don Vincenzo non era “fesso” ed aveva capito molto bene quel che sarebbe accaduto) cosa facesse prima  e cosa intendesse fare dopo la leva militare e il giovane parlò della sua esperienza  di carpentiere di barche e di piccole navi, che aveva acquisito insieme al padre sin da piccolo. Mimì, anche se a don Vincenzo in quel momento interessava poco, per non essere da meno, disse che lui voleva continuare a fare il pescatore. Le sorelle intervennero solo per distribuire le portate. Tina se ne stette sempre seduta buona buona ed in perfetto silenzio, osservando soprattutto quel giovane che le era di fronte solo un po’ discosto alla sua sinistra.

E Lello non si sottraeva agli sguardi.

A fine pranzo gli uomini si alzarono lasciando campo libero alle donne. Don Vincenzo si accese uno dei suoi soliti sigari; ne fumava uno o due al giorno, aveva bisogno di calma per poterlo gustare e di norma ciò accadeva solo dopo il pranzo o la cena. Lello e Mimì confezionarono una sigaretta con il tabacco fornito dalla Marina militare e fumarono seduti tutti e tre sotto un grande albero di gelso nell’aia davanti alla casa.in silenzio venne Rachele a servire il caffè prima di salire nella sua camera per il riposo della controra. Si sentivano intanto già i rumori tipici della rigovernatura dei piatti e delle stoviglie. Dopo anche le donne sarebbero andate a riposare. Il rito della “controra” non era però adatto ai più giovani e frenetici e così Mimì e Lello, dopo aver convinto (ma non fu un grande sforzo)  anche Tina a seguirli, decisero di andare a fare due passi. Il tempo prometteva di essere anche caldo e così andarono tutti e tre, passando per i campi coltivati per sentieri minuscoli,  verso la costa dell’isola, fra Ciraccio e il Pozzo Vecchio, da dove si vede l’Isola d’Ischia.

Mentre facevano un “pieno” di quello splendido paesaggio sopraggiunsero  altri gruppi di giovani, ragazzi con le loro chitarre che, insieme a giovani donne, suonavano e cantavano motivi tradizionali popolari, mostrando la loro fresca allegria. Due di loro evidenziavano un’indubbia perizia sulle loro chitarre mentre una delle ragazze batteva il tempo su un tamburello. Un’altra vide Tina e Mimì e li chiamò. I tre si avvicinarono e Lello potè notare che fra Mimì e quella ragazza vi era qualcosa di più di una semplice amicizia; infatti si appartarono mentre Tina si riavvicinò a Lello che intanto seguiva le evoluzioni canore e danzanti degli altri giovani. Tina era intimidita dalla situazione del tutto nuova per lei e dentro aveva una gran voglia di danzare così come stavano facendo le altre ragazze su quello spiazzo panoramico. Lello comprese il desiderio della giovane e vincendo la sua naturale ritrosia le prese la mano ed accennò alcuni passi, saltellando in un modo così impacciato che suscitò il riso di alcune, in particolare quello della stessa Tina, che subito dopo però arrossì, temendo di averlo potuto offendere. Lello era così gentile e si capiva che doveva proprio essere un bravo ragazzo. Tina aveva tante domande da fargli ma non riuscì ad aprir bocca. Mimì dopo un po’ ritornò; a Lello sembrò che, e lo aveva intravisto con la coda dell’occhio, prima di lasciare la ragazza con cui stava parlando, che si riunì al gruppo, i due si fossero scambiati un tenero dolcissimo quasi casto e timido bacio, ma mantenne, per sua natura, il totale riserbo.

La giornata poi si concluse con pochi eventi. A Lello e Mimì per la notte riservarono la stanza del “mezzanino”, un luogo appartato che portava sui tetti, caratteristici mediterranei e bombati, da cui si accedeva ad un panorama mozzafiato su tutto il Golfo di Napoli e di Pozzuoli. Il giorno dopo, all’alba, i due partirono, salutando la famiglia e nessuno li accompagnò. Tina, al solito dormigliona, quel giorno si era alzata insieme agli altri. Ed era schierata per il saluto, di certo in preda ad emozioni contrastanti.

“Cara Tina, ho chiesto a tuo fratello l’indirizzo ed anche il permesso di chiederti se vuoi essere la mia fidanzata. Fammi sapere presto perché sarò in trepida attesa di una tua risposta. Sei bellissima.”

Non appena furono a Civitavecchia Lello si era fatto forza ed aveva chiesto a Mimì l’indirizzo della sua famiglia; voleva scrivere a Tina e non solo per salutarla. Mimì capì, aveva capito. Stimava Lello e non aveva alcun motivo per non essere contento di quanto sarebbe potuto accadere. Aveva intuito anche che Tina non aspettava altro. E così accadde che dopo due settimane arrivò una lettera per Lello; in verità era solo una busta, ma conteneva una foto di Tina. Dietro ella aveva scritto: “Procida 3 maggio 1938. Offro a te, o mio eterno amore, questa mia piccola foto, in segno di affetto, tua indimenticabile Tina”.

A fine maggio Mimì e Lello furono congedati e ritornarono a casa. Mimì continuava a fare il pescatore a Procida insieme al vecchio padre don Vincenzo, Lello con don Peppino a fare il carpentiere nel Cantiere navale di Pozzuoli. Nei fine settimana Lello andava a Procida a casa di Mimì e di Tina. Ed era stato accolto come un altro figlio. Tutto, dopo una festa di fidanzamento modesta, in quanto la vita era sempre più dura, procedeva verso il matrimonio quando, iniziata anche per l’Italia la seconda guerra mondiale il 10 giugno del 1940, Lello fu richiamato alle armi a Civitavecchia. Avevano progettato di sposarsi in settembre, ma la Storia come il diavolo ci aveva messo la coda; era tutto inevitabilmente da rinviare.

Lello rimase a Civitavecchia fino al 18 aprile del 1943; di Mimì non sapeva nulla. Per tutto quel tempo Lello e Tina si erano scritti ma non avevano mai accennato ad altro se non ai loro sentimenti; Lello aveva anche nella prima lettera chiesto ma non ottenendo alcuna risposta aveva glissato in seguito; era sempre più in pensiero per i suoi, perché a Pozzuoli come in tanti altri paesi gli ultimi mesi erano stati durissimi: mancava tutto, in particolare il cibo. Era stato ferito non gravemente alla gamba destra ed usufruì di un breve periodo di convalescenza. Poi la Storia nuovamente bussò alla sua porta ed a quella di tante altre persone e lo aiutò a non tornare più in guerra nel totale sbandamento del dopo 8 settembre. Andava più spesso a Procida anche utilizzando mezzi di fortuna e con il buio per rifornirsi di cibo per la sua famiglia evitando i costi della piaga del “mercato nero”.

Mimì era riuscito ad evitare la chiamata alle armi e si era prudentemente tenuto nascosto, continuando comunque a pescare. La guerra dall’isola la si vide da lontano solo negli ultimi mesi.

Nei fine settimana Lello ritornava a Procida ed ora usciva sempre più spesso solo con Tina. Aveva abbandonato da tempo la sua timidezza e qualche sera insieme si ritrovavano con gli altri giovani a suonare e ballare davanti al fuoco.

A Tina piaceva girare vorticosamente fino a perdere l’equilibrio e ritrovarsi esausta fra le braccia di Lello. E girava, girava e la gonna si apriva e si gonfiava…si gonfiava.

°°°°°°°

In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…

E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.

In quei posti non così tanti anni fa, in quei posti solo qualche anno fa, in quei luoghi della memoria un anno, un mese, un giorno…. e la mente riaccende le sinapsi del ricordo…e mi prende per mano….

°°°°°°°

…E di sicuro non si può tornare indietro come un nastro magnetico che si riavvolge; e la memoria vaga in un tempo indistinto e ritorna a quella notte di ubriacatura vera o finta che fosse intorno al fuoco, a “quella fanciulla che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

 …e come avrebbe potuto?….

PROCIDA L’ETERNO RITORNO   

FINE

su “rave party” e “vaccini”

Quel che ho scritto ieri potrà essere stato equivocato come una sottile aderenza al nuovo Governo. Mi dispiace averlo lasciato solo pensare; la mia preoccupazione è che gli attacchi improvvisi – e improvvisati – da parte di alcune figure afferenti alla Opposizione, della quale sento di far genericamente (non ho alcuna “tessera” di Partito)  parte, mi sono apparsi molto improvvisati, come alla ricerca nevrotica di costituirsi come punto di riferimento di qualsivoglia discrasia del nuovo Governo. Quel che ho scritto ovviamente mette in evidenza alcuni aspetti che vanno modificati nella gestione politica da parte di chi è all’opposizione: non si può far prevalere l’improvvisazione espressa in modo stizzito. Occorre ragionare. Ed in realtà, dopo la decisione di bloccare il rave party dei giorni scorsi, il Governo ha predisposto un Decreto legge che contiene alcune ambiguità, che mettono a rischio in modo troppo generico la libertà di riunirsi. Bene ha fatto l’attuale Segeretario del PD a chiedere che siano apportate modifiche esplicative della “ratio”  che ha generato quel dispositivo. Bisogna essere ancora più chiari: i rave party non possono essere confusi con qualsiasi altra riunione assembleare. Pur garantendo che il numero di 50 partecipanti da parte degli organismi associativi e politici negli ultimi anni difficilmente si raggiunge, non sarebbe certamente una buona cosa considerare qualsiasi riunione politica, culturale, ricreativa come luogo di sovvertimento rivoluzionario. E non si possono confondere tali “raduni” con i “rave party”, luogo di irregolarità penalmente perseguibili, a partire dall’occupazione abusiva di suolo pubblico e privato per andare allo spaccio di droghe ed abusi violenti. Invito la Sinistra a ragionare maggiormente su quel che conta suggerire al Paese tramite quel Governo cui ci si oppone. Alcuni passi indietro ad esempio si vanno facendo, da parte dell’area governativa, sul tema del Covid: di sicuro sarà mantenuto a lungo l’utilizzo delle mascherine FFP2/FFP3 negli ambienti ospedalieri e nelle RSA; ma non è del tutto definito tutto il comparto della vaccinazione obbligatoria per i lavoratori ospedalieri, a partire da medici e infermieri.

in questo mare in tempesta – come ai miei “bei tempi” – mi piace ancora navigare. Attraverso robuste iniezioni di immunoterapia ( segno delle problematiche sanitarie che non mi debilitano quanto quelle altre di tipo politico ) vado accumulando vagonate di anticorpi. E mi rafforzo

in questo mare in tempesta – come  ai miei “bei tempi” – mi piace ancora navigare. Attraverso robuste iniezioni di immunoterapia ( segno delle problematiche sanitarie che non mi debilitano quanto quelle altre di tipo politico ) vado accumulando vagonate di anticorpi. E mi rafforzo

Uno dei segnali peggiori tra quelli che negli ultimi giorni ha condizionato la mia azione è la consapevolezza di essere inutile. D’altra parte sono giunto a questa convinzione leggendo e rileggendo fino alla nausea i diversi commenti che in tanti ( anche se sempre molto meno  rispetto a prima ) attraverso i social si prodigano a spargere in modo esclusivamente ideologico, mostrando semplicemente un atteggiamento infantile e la profonda incapacità di andare a cogliere gli aspetti concreti. Migliaia di posizioni comode rischiano da qui in avanti di passare progressivamente di mano, e questo è il vulnus più inaccettabile che interessa prendere in considerazione a coloro che mantennero per anni le leve del potere quasi sempre in modo (a proposito della tanto contestata categoria abbinata dal nuovo Governo all Istruzione) immeritato; non di certo o molto poco di più le angustie della gente comune. Sono stato severo ma sempre nel limite del rispetto, come si addice ad un educatore. Ciononostante non posso non segnalare quanto sia fuori luogo l’esclusivo utilizzo di una forma ammuffita di ideologismo smodato nella difesa delle proprie idee, che a tutta evidenza non riescono ad essere comprese da coloro che maggiormente avrebbero bisogno di fatti e non di aeree elucubrazioni.

Pur tuttavia in questo mare in tempesta – come  ai miei “bei tempi” – mi piace ancora navigare. Attraverso robuste iniezioni di immunoterapia ( segno delle problematiche sanitarie che non mi debilitano quanto quelle altre di tipo politico ) vado accumulando vagonate di anticorpi. E mi rafforzo.

UN PATETICO MISERO TENTATIVO DI METTERE LA “POLVERE” DELLE RESPONSABILITA’ SOTTO IL “TAPPETO” DELLA STORIA

UN PATETICO MISERO TENTATIVO DI METTERE LA “POLVERE” DELLE RESPONSABILITA’ SOTTO IL “TAPPETO” DELLA STORIA

Questo post prosegue – dopo qualche settimana di mio silenzio – nella riflessione su cosa sia importante mettere in campo, a partire dal necessario approfondimento critico da parte dell’attuale (!!!) maggior Partito del Centrosinistra, il PD. Avevo annunciato in uno dei primi post subito dopo il 25 settembre un riferimento ad esperienze “dirette” (rimandando in parte ai tanti post dal titolo comune “Le Storie” collegati al Circolo PD Sezione Nuova San Paolo) e di certo non mancherò in questo impegno nei prossimi post

Sono oramai alcuni anni che da una parte della società italiana, quella che aveva guardato con grande interesse ideale alla nascita di una forza progressista, democratica e riformista in grado di riunire esperienze politiche che avevano condotto alla nascita della Democrazia ed alla scrittura della Carta costituzionale, si è richiesto di avviare una profonda riflessione su tutto quello che non funzionava più nel Partito Democratico.  Per alcuni, una minoranza in realtà, gli elementi critici si erano palesati sin dagli albori; e si erano confermati via via nel tempo deteriorando i vari meccanismi: un po’ come accade con un’auto che nasca sin dalla sua produzione con qualche difetto (è – procedendo nel paragone – poi comunque abbastanza normale che si proceda dopo qualche anno – e qualche chilometro percorso – a delle revisioni, prima della possibile prevedibile rottamazione).

Accanto al patetico attacco sferrato subito dopo il verdetto emerso dalle urne, indirizzato a chi aveva continuato a criticare la scarsa consistenza politica dell’attuale leadership “demo”, come unici colpevoli della debacle, sono proseguiti i segnali di deterioramento della “macchina”, sia con il rifiuto di prendere in considerazione un profondo “restyling”, ripartendo dai “fondamentali” capisaldi del 2007, sia con la rincorsa a candidarsi senza un minimo di “proposte programmatiche”, ma basate essenzialmente sul “glamour” di stile veteroberlusconiano.

Di fronte ai risultati delle recenti elezioni politiche si può ben dire che non possono essere considerati “deludenti”, visto che l’attesa prevedeva dati molto più perniciosi per la nostra Democrazia (i due terzi del Parlamento non sono stati raggiunti dal Centrodestra). Pur tuttavia è del tutto inevitabile, oggi, continuare a far finta di nulla: è ancor più necessaria una profonda revisione se si vuole prorogare considerevolmente la data di rottamazione o addirittura la “messa a nuovo” totale dei meccanismi. Invece sia gli annunci sia poi le modalità democratiche di procedimento sono state stoppate allo scopo, del tutto evidente per chi si occupa di Politica, di smorzare gli aspetti di criticità che sono considerati pericolosi per gli attuali “manovratori” e potrebbero produrre un azzeramento delle cariche politiche e un ribaltamento delle attuali posizioni.

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LE STORIE altre (il Circolo San Paolo di via Cilea) 2009 seguenti – dopo una breve introduzione parte 7 (per la parte 6 vedi 1 settembre)

In questo blocco pubblico un “Documento” considerato “URGENTE” per una serie di motivazioni oggettive: 1) malgrado le numerose adesioni, molte delle quali riferite a “nuove iscrizioni”, la struttura “centrale” provinciale faceva “orecchie da mercante” e procrastinava la decisione che appariva ineludibile dal punto di vista sia formale che sostanziale; 2) era in atto sul territorio di San Paolo un’azione discriminatoria con una raccolta firme contro l’apertura della nuova sede (in un prossimo blocco pubblico la denuncia alla Commissione Provinciale di Garanzia di quelle azioni indegne).

DOCUMENTO URGENTE SULLA PROPOSTA DI APERTURA DEL CIRCOLO PD A SAN PAOLO

Intendiamo fare il punto della situazione in relazione alla richiesta di riaprire nella sede del circolo Arci di San Paolo in via Cilea un Circolo del Partito Democratico nuovo, così come espresso nei precedenti documenti.

Già da circa un anno alcuni iscritti ed alcuni simpatizzanti hanno rivolto in modo corretto la richiesta al Segretario Provinciale (Bruno Ferranti) al Coordinatore del Circolo Borgonuovo-san Paolo (Fabio Razzi) ed al coordinatore Circ.le Ovest del PD (Fabio Colzi). Una discussione, presenti i suddetti al Comitato Direttivo di Borgonuovo-San Paolo appositamente convocato, è avvenuta prima delle Primarie per le Elezioni Regionali dello scorso anno.

Gentilissima Coordinatrice, tu conosci le nostre intenzioni e conosci anche le motivazioni che ci spingono. Fra i molti simpatizzanti che si sono avvicinati all’idea di aprire un Circolo nuovo sta sopravvenendo una certa disillusione.

Entriamo però nel vivo:

Mercoledì scorso vi è stato il primo incontro del Comitato Direttivo del circolo Borgonuovo-San Paolo nel quale alcuni di noi sono presenti (l’altra sera eravamo anche in maggioranza come san paolini) ed il Coordinatore Matteo Nesi ha proposto di parlare della nostra richiesta in uno dei prossimi incontri, anche perché nel Congresso avevamo presentato un documento ad hoc. Nel dibattito si sono avuti interventi tuttavia che lasciavano presupporre l’ipotesi di procrastinare alle “calende greche” questa decisione, chiedendo riflessioni, approfondimenti, condivisioni etc… Ho fatto presente che è per noi urgente a questo punto affrontare la materia e decidere.

Il giorno dopo abbiamo anche riflettuto e facciamo una proposta su cui vogliamo il tuo parere:

penseremmo di chiedere che dal 1 gennaio 2011 il Circolo San Paolo faccia il “suo” tesseramento, pur rimanendo in piedi (onde evitare difficoltà al Partito) il coordinamento unico (arricchito da qualche altro nostro rappresentante – ad esempio Marzio Gruni che è anima del progetto non è presente nel Coordinamento attuale)  e  gruppi di lavoro comuni; inoltre tutte le iniziative dovrebbero essere concordate, quanto alle date  fra i due Coordinatore di Borgonuovo e quello temporaneamente espresso di San Paolo.  Il Congresso – eventualmente davanti ad un nostro auspicabile successo di adesioni nuove in cui fortemente crediamo  – dovrebbe svolgersi a fine 2011 – inizio 2012.

Chiediamo di essere resi autonomi rapidamente, anche perché vi potrebbero essere presto delle urgenze e vorremmo evitare di incorrere in emergenze varie che procrastinino ulteriormente questa scelta.

Ti chiediamo gentilmente di convocare il Coordinatore Nesi e fare sì che si svolga al più presto prima della fine di quest’anno il Comitato direttivo che si occupi in modo specifico e definitivo di questo argomento.

Grazie.

Marzio e Giuseppe

29.11.2010

Verso il 25 settembre

Nel corso della vita, occorre saper leggere le vicende e trarne delle conseguenze: non nasciamo già con l’etichetta di Destra o di Sinistra e come esseri pensanti abbiamo anche la possibilità di rivedere “on the road” alcune nostre posizioni. La Natura ci dovrebbe aiutare a comprendere come sia logico tutto questo, in contrasto proprio con chi non riconosce la mutabilità come effetto di eventi che sovrastano le nostre limitate potenzialità individuali. Non trovo affatto disdicevole che un elettore “comune”, ovverossia colui che non ha interessi particolari sia di carattere economico o puramente etico modifichi nel corso degli anni la sua scelta. D’altra parte, per  esplicitare meglio quanto dico, generalmente donne e uomini impegnati direttamente in Politica non si preoccupano più di tanto di dover giustificare le loro scelte, quando – come è ampiamente accaduto di recente – passeggiano con nonchalance da una sigla all’altra e non di rado da uno schieramento all’altro.

I CONTI NON TORNA(VA)NO extra

Ogni volta che pubblico parte della documentazione relativa alla vicenda che coinvolse gran parte della comunità pratese verso la fine dello scorso millennio, non posso non notare che sia davvero molto difficile esprimere posizioni oggettive; anzi, ad emergere sono riflessioni parziali a volte anche molto personali. Venne, anche in quell’occasione, a mancare la capacità politica di portare a sintesi una serie di valutazioni, tutte collegate a reali esigenze, in modo particolare espresse dal Liceo “Copernico” e dall’ITC “Paolo Dagomari”. Le amministrazioni di quel tempo sbagliando previsioni, evidentemente costruite in modo artato per condurre alle scelte precostituite, commisero madornali errori, dei quali non hanno mai voluto fare ammenda. Ci si fidò della dirigenza del Liceo, cui si chiese di non far crescere il numero delle iscrizioni e si vaticinò il decremento di iscritti al “Dagomari”. Con tali scenari il Liceo avrebbe avuto spazi sufficienti e l’Istituto Tecnico avrebbe potuto accontentarsi di spazi molto più ridotti rispetto a quelli che avrebbe dovuto cedere. Né l’una né l’altra previsione si verificò. Infatti negli anni successivi il “Copernico” continuò ad iscrivere studenti, rendendo progressivamente sempre più ridotti gli spazi didattici e il “Dagomari” contemporaneamente accrebbe la sua offerta formativa fino ad avere sempre più bisogno di altri spazi, che già in partenza non erano sufficienti.

Ovviamente, la responsabilità di tale situazione è stata soprattutto di coloro che gestivano la cosa pubblica alla fine del secolo scorso. Sarebbe stato molto più logico, come peraltro proposto dal sottoscritto, procedere ad una programmazione urbanistica ex novo, costruendo nuove strutture, non utilizzando quelle esistenti e non idonee per diversi e svariati motivi. Ci sarebbe voluto del tempo, ma occorre ricordare che le strutture dove era ospitato il “Copernico” erano state considerate sufficienti per più di un decennio, benché in attesa di soluzioni definitive. E – lo dico chiaramente – non avremmo avuto il disastro strutturale dei giorni nostri con scuole, come il “Livi”, gli stessi “Copernico” e “Dagomari”, che non hanno spazi sufficienti nelle loro sedi ufficiali.

Ecco perché i conti non tornavano e non tornano!

I CONTI NON TORNA(VA)NO – parte 36 – (per la parte 35 vedi 8 giugno) con una nuova “intro” e un nuovo annuncio

Leggere commenti alla parte 35 – Segue documento inviato “à tout le monde” dagli “studenti del Liceo Copernico” datato 21.12.1998

COPERNICO STUDENTI

Dall’assemblea dei rappresentanti del Liceo Copernico, che si è riunita per discutere del cambiamento di sede, è emersa la necessità che l’istituto mantenga la sua unità per i seguenti motivi:

  • Riteniamo che in questi trent’anni di vita, nonostante le pessime condizioni dell’edificio, l’istituto abbia sempre dimostrato di essere una scuola oltreché molto efficiente, anche viva, creativa e all’avanguardia (basti pensare al numero di scambi culturali con l’estero e alla nostra sperimentazione linguistica, poi imitata da tante altre scuole di Prato) mettendo a disposizione degli alunni un gran numero di servizi ed anche un’ottima preparazione che non sarebbe più possibile nel caso in cui il Liceo venisse smembrato.
  • In caso del dislocamento su due o più sedi dell’Istituto, un considerevole gruppo di docenti andrebbe incontro a notevoli difficoltà nel gestire cattedre separate, anche se la divisione avvenisse tra scientifico e linguistico, che comunque è una maxi sperimentazione e non un liceo a sé, visto che alcuni insegnano in entrambi gli indirizzi. Ciò comporterebbe seri disagi agli studenti, costretti a cambiare professori.
  • Un’eventuale scissione implicherebbe anche difficoltà nel gestire l’uso dei laboratori, indispensabili per lo svolgimento del programma in alcune materie, i quali sarebbero divisi sui due plessi.
  • L’accorpamento di parte dell’Istituto ad un’altra scuola comporterebbe la perdita dell’identità e del prestigio conseguito nel corso degli anni dal Liceo. E’ da considerare, inoltre, che se il divario numerico fra la nostra popolazione studentesca e le altre è così netto, vi è evidentemente una ragione. Un così alto numero di famiglie di Prato e dintorni preferisce la nostra scuola e la soluzione dell’accorpamento annullerebbe il loro diritto alla libera scelta.

Concludiamo chiedendo che ci sia concessa una sede unica, adeguata ed efficiente che possa ospitare l’intero Istituto, dal momento che tale sede esiste e non è completamente utilizzata non vediamo la necessità di dividere il Liceo. Ricordiamo che i contenitori scolastici – cioè gli edifici – non appartengono agli istituti, ma alla comunità e la Provincia deve gestirli nell’interesse collettivo. Vi invitiamo, pertanto, a prendere una decisione equa tenendo conto delle reali necessità di tutte le parti in causa.

Gli studenti del Liceo Copernico

Nel prossimo blocco esplicherò nuovamente il “senso” della pubblicazione di questi “documenti” oggi quasi ad un quarto di secolo dopo che essi furono prodotti.

riprendo a trattare LE STORIE – altre (il Circolo San Paolo di via Cilea) 2009 seguenti – dopo una breve introduzione parte 5 (per la parte 4 vedi 2 settembre 2021

Riprendo a trattare temi di memoria storica locale. Con documenti “originali” dai quali espungo solo i nomi e gli elementi che afferiscono alla privacy di persone che si spesero per costruire punti di aggregazione e di partecipazione intorno al Partito Democratico in quel di Prato San Paolo poco più di dieci anni orsono

Sostenitori proposta

Apertura Circolo PD San Paolo

C\o Circolo ARCI

via Cilea, 3 – PRATO

A: Segreteria del Partito Democratico di Prato

     Comitato dei Garanti del PD

E p.c. Sig.

Prato, 24 giugno 2010

Un anno e mezzo fa abbiamo abbiamo iniziato a confrontarci a livello locale riguardo all’esigenza di aprire il Circolo PD a San Paolo.

Questa esigenza ha avuto, all’inizio, anche il supporto del coordinatore del Circolo PD di Borgonuovo ed insieme abbiamo condiviso la scelta di attendere, responsabilmente, la fine di tutte le fasi elettorali che hanno coinvolto la città e la regione.

In questi mesi gli incontri sono continuati e si è formato un numeroso gruppo di persone a sostegno dell’apertura del Circolo PD a San Paolo.

Così il 27 aprile 2010, finite appunto le fasi elettorali, abbiamo consegnato la richiesta formale, a codesta Segreteria, al Segretario Bruno Ferranti.

Ad oggi ci sembra opportuno presentare tale richiesta a tutti voi membri della segreteria provinciale, fiduciosi che in tempi rapidi sia messa all’ordine del giorno dei lavori della segreteria.

Cordiali saluti

I firmatari della richiesta di

apertura Circolo PD San Paolo

per contatti:

G. M. cell. 328XXXXXXX

Email xxxxxxxxxxx

M. G. cell. 329XXXXXXX

Email xxxxxxxxxx

Al coordinatore uscente
Al candidato coordinatore Congresso 17.10.2010
Al Segretario Provinciale uscente
Ai candidati alla segreteria Congresso ottobre 2010

Documento da presentare al Congresso del 17 ottobre 2010 – al Circolo Borgonuovo


I sottoscritti sostenitori della proposta di apertura di un Circolo PD nuovo nella sede del Circolo Arci in via Cilea 3 fanno presente che hanno inteso dimostrare in questa fase pre-congressuale senso di responsabilità e di unità
addivenendo ad un accordo provvisorio che veda una loro presenza in particolar modo nella lista “unitaria” del Circolo “per ora” denominato “Borgonuovo-San Paolo”.


La richiesta di costituire un Circolo nuovo sarà evidenziata sia nel corso del Congresso che si svolgerà il prossimo 17 ottobre sia a partire dal 18 ottobre 2010 e si  continuerà a portare avanti il progetto così come esplicitato nei mesi scorsi con opportuni documenti  presentati  correttamente e discussi con gli organismi statutari.

La presenza di alcuni membri dei suddetti sostenitori nella lista “unitaria” va interpretata – lo si ripete – come atto di responsabilità in questa fase non come rinuncia a portare avanti la nostra richiesta.


Allo scopo di far meglio comprendere la nostra proposta vi forniamo in allegato il Documento presentato agli organismi statutari e discusso – lo si ripete – anche nel Coordinamento Borgonuovo-San Paolo

Prato li 14.10.2010
Circolo San Paolo – Via Cilea

I sottoscritti

FUOCHI – UN PERCORSO NELLA MEMORIA 

FUOCHI – UN PERCORSO NELLA MEMORIA

Prima di arrivare al sentiero che conduce verso Punta Serra c’è una strada sterrata abbastanza larga per consentire il passaggio di piccoli veicoli agricoli ad uso dei parulani della zona; è una strada solitamente molto polverosa d’estate che sbuca su un costone roccioso tufaceo dal quale vi è una delle più belle vedute dell’isola d’Ischia. E’ alto un settanta metri sulla spiaggia di Ciraccio che poi continua, interrotta parzialmente da una propaggine prospiciente, che quando ero ragazzo ricordo che si attraversava da un’ampia cavità interna (oggi credo sia parzialmente crollata e che abbia lasciato una sorta di faraglione), verso la spiaggia della Chiaiolella. Sullo sfondo poi l’Isola di Vivara collegata da un ponte in ferro e muratura. Da ragazzo a volte anche insieme ai cugini, in un primo tempo accompagnati dai nostri genitori e successivamente da soli ed in buona compagnia, scendevamo dalla costa attraverso sentieri comodi prodotti dai pescatori del luogo che da lì raggiungevano la spiaggia per salpare con le loro imbarcazioni, custodite in rimessaggi scavati nel tufo. Alcuni di questi ricoveri oggi sono stati bloccati da crolli delle pareti rocciose, così come i sentieri non sono più agili e percorribili senza rischiare di caracollare e sfracellarsi.
Ma il luogo è sede di ricordi indelebili di grandi amicizie: arrivati sul bordo del costone c’è un sentiero aperto prima di girare a destra per inoltrarsi verso Punta Serra e c’è una sorta di palcoscenico naturale che consente a chi si siede di avere anche le spalle coperte da un blocco per cui ci si sta davvero comodi ad apprezzare il panorama del mare di giorno e di notte. E noi andavamo spesso là, così come credo abbiano fatto i nostri parenti più anziani quando erano giovani e quando non erano condizionati da eventi drammatici come quello delle guerre. Era un luogo classico per gli innamorati: si poteva stare da soli come coppie ma anche in compagnia e potevano nascere storie come quelle di grandi amici miei. Ho sempre immaginato che anche mia madre e mio padre ci fossero stati! D’estate era d’obbligo in alcune serate andarci: il 10 agosto soprattutto in un cielo limpido e senza luna ci si stendeva e si attendevano gli scrosci di stelle cadenti per formulare i nostri desideri, mentre le luci dell’isola di Ischia, Ischia Porto e Casamicciola, si riflettevano sul mare ad un tiro di schioppo a poche miglia di distanza. Quella notte c’era tanta gente, era una tradizione andare da quella parte, anche perché già negli anni Sessanta del XX secolo, era meno presente quello che abbiamo poi imparato a conoscere come “inquinamento luminoso”. Di là c’erano le città, di qua il mare e l’Isola d’ Ischia che, pur essendo già un luogo molto frequentato dal turismo di qualità, era pur sempre un’isola. Procida era poi la più piccola, la più umile e modesta, anche se la più popolosa per densità; ma ancora agli inizi degli anni Sessanta alcune frazioni non erano state raggiunte dall’elettricità.

Sistemavamo i plaids sull’erba e sulla non troppo alta dorsale di terriccio e ci si appoggiava a mo’ di poltrona che “allora” con i nostri venti anni non ci sarebbe mai potuto apparire scomoda. Laddove la compagnia era dolce ci si accostava delicatamente e ci si teneva per mano, fingendo di non trovare motivo alcuno di attrazione con gli occhi rivolti al di là del mare ed il cuore e la mente che correvano l’uno incontro all’altra. Su quel costone ci si andava di notte, durante la settimana quando gli impegni mondani nei locali dove ci si scatenava ballando ci permettevano di organizzarci più liberamente ed in modo più o meno segreto ed appartato. Più o meno perché eravamo un gruppo ridotto e non praticavamo grandi compagnie: i locali dove si ballava erano quasi sempre aperti a tutti, avevi solo l’obbligo della consumazione e quello di essere cortese e generoso con le ragazze; non somigliavano affatto ai night degli anni successivi, quasi sempre si affacciavano su panoramiche terrazze, come l’”Eldorado” e lì poi ci suonava un gruppo di amici, i “Sailors”, con i quali mi incontravo quando preparavano i loro pezzi e ricordo che provai anche con scarso successo ad inserirmi come “vocalist”.
In quel periodo le vacanze duravano molto più a lungo; si ritornava a scuola ai primi di ottobre e settembre era un mese ottimo per prolungare le nostre storie, anche se alcune continuavano, altre si interrompevano; c’erano i forestieri che avendo affittato appartamenti per il mese di agosto lasciavano l’isola ai primi giorni di settembre e, di norma, anche le relazioni costruite in quei contesti finivano con la promessa di rivedersi al più tardi l’anno successivo. Erano gli amori “estivi”; poi si ritornava alla vita normale e si riallacciavano eventualmente le relazioni locali, laddove non fossero state interrotte in modo tempestoso.
Ai primi di settembre poi a Ischia ponte, che è quella parte dell’Isola che sta tra il porto ed il castello Aragonese, si ricorda il santo patrono, San Giovan Giuseppe della Croce e da bambino in qualche occasione ho partecipato direttamente a quei festeggiamenti andandoci con delle barche a motore dei cugini di mia madre; c’è sempre stato un buon rapporto di vicinato con la sorella maggiore tra Procida la più piccola ed Ischia la più grande delle isole campane. E così nell’andare avanti con gli anni e con gli interessi diversi si privilegiava l’aspetto profano rispetto a quello religioso; non è certamente solo quest’ultimo a spingere i fedeli, in quanto si approfittava dell’aria di “festa” anche per la parte ludica e quella eno-gastronomica con prevalenza della prima sulla seconda.
Il clou dei festeggiamenti è lo spettacolo pirotecnico che si è sempre caratterizzato per la sua straordinaria ricchezza di colori e per la partecipazione di grandi maestri di quell’arte.
Dal costone quei fuochi erano un degno finale di stagione per tutti noi.

Sull’isola, la più minuta ed umile delle Campane, molti sono i luoghi di culto, a partire da quella dedicata a San Michele Arcangelo. A me cara fu quella della Ss. Annunziata- Madonna della Libera vicina all’abitazione di una delle mie zie dove negli anni Sessanta arrivò uno di quei preti giovanili che utilizzavano l’oratorio sullo stile di Giovanni Bosco ed apparivano trasgressivi agli occhi dei bigotti ortodossi. La sua era una modalità coinvolgente ed aveva costruito un gruppo di giovani che preparava eventi amatoriali che riuscivano ad intrattenere i parrocchiani nei pomeriggi del fine settimana, quando anche io li trascorrevo in quei luoghi. Tra i tanti luoghi di culto ricordo la Chiesa di S.Antonio Abate (“Sant’Antuono” per distinguerlo da quella di S.Antonio da Padova non molto distante) dove le mie zie signorine già attempate mi portavano in alcune sere a seguire le loro giaculatorie nel periodo delle Quarantore o in particolari periodi per la recita del Rosario. Non erano frequenti e la mia attenzione era già allora di tipo antroposociologico ed osservavo con una certa attenzione la prossemica teatrale delle fedeli. Sin da bambino seguivo con grande partecipazione alcuni dei momenti parareligiosi, potrei dire popolari, che contornavano le ricorrenze: uno di questi era “’o fucarazzo”, cioè i fuochi di Sant’Antonio che non hanno nulla da spartire con la patologia dolorosa omonima.

Era (e dico “era” perchè non so se ancora oggi viene praticata questa usanza) un grande falò che veniva approntato nei giorni precedenti al 17 gennaio, giorno dedicato alla figura di Sant’Antonio Abate protettore degli animali (nella funzione religiosa del 17 gennaio i fedeli portano con sè i loro piccoli, medi ed a volte anche grandi, come cavalli e muli, animali per farli benedire). La tradizione del falò sembra collegarsi al ruolo che quel Santo avrebbe nel salvare gli uomini dalle fiamme dell’Inferno. Eppure dal punto di vista climatico quel giorno in ogni caso segna un punto centrale nel passaggio tra la parte più fredda dell’anno a quella più mite (siamo a metà inverno) e ci si prepara alle varie fasi dell’agricoltura dopo il riposo postautunnale. Davanti al fuoco c’è festa, allegria soprattutto per i giovani è un momento magico di ritrovo e di complicità; anche per me lo è stato come lo fu per le popolazioni primitive, i nostri antichissimi progenitori che con il fuoco impararono a costruire il loro futuro, allontanando i pericoli, rielaborando i cibi in modo più adatto alle loro esigenze e creando la comunità. Intorno al fuoco ci si riuniva anche nella intimità delle case non ancora dotate di forma alcuna di riscaldamento che non fosse fornito dai bracieri e la sera si narravano le storie, quelle personali fatte di ricordi elaborati e quelle tradizionali, sotto forma di favole che venivano tramandate da madre a madre. Intorno al fuoco.

Erano quasi le venti ed avevamo appena finito di cenare, Mary ed io con I bambini. Quella stessa sera eravamo tornati da Napoli dove avevamo avuto impegni di lavoro e di famiglia. I bambini erano rimasti con i nonni al mare e noi a scuola per gli Esami di Stato. Finiti quelli, avevamo programmato di tornare a casa, a Prato per una settimana e saremmo andati poi in vacanza per un altro paio di settimane sulla riviera romagnola.
Il viaggio di ritorno era stato come sempre snervante. I nonni facevano a gara per colmarci di cibarie tradizionali – il pane, la mozzarella, i pomodori buoni, il vino, l’olio – questi due ultimi dopo la nascita del secondo bimbo avevamo evitato per mancanza di spazio di portarli. I primi no, perché a Lavinia il “pane di Pozzuoli” piaceva da matti e per noi la “mozzarella di bufala campana” è ancora oggi il non plus ultra dei prodotti tipici. I pomodori, poi….erano quelli grandi e senza molti semi. Caricare la macchina era uno stress e lo è ancora oggi. E poi dover percorrere 500 chilometri non era poco, se per farne solo dieci ci si impiegava un’ora nel traffico intenso sulla Tangenziale, irta di pericoli che non ti aspettavi con autisti di Formula 1 su Alfette e 500 che zigzagavano a tutto gas, senza controlli e senza alcuna segnalazione. Mary era stanca e si insediò nello studio, lasciando tutte le finestre e le porte-finestre aperte e spalancate perchè passasse un po’ di aria fresca.
Avevo promesso ai bambini di portarli fuori: loro non erano stanchi, si erano svegliati tardi quella mattina e poi avevano dormicchiato per alcune ore durante il viaggio.
Lavinia si preparò più velocemente del solito, mentre per Daniele fu necessario il mio aiuto. Era già buio quando uscimmmo di casa. Io ero già cotto abbastanza ed avrei volentieri fatto a meno, ma ogni promessa, come si dice, è un debito. E così uscimmo. Malvolentieri allo stesso modo risalii in macchina, ne avrei fatto a meno ma non potevamo andare a piedi. Il luogo era un parco di medie dimensioni che durante l’estate veniva utilizzato per feste e fiere varie e quella era l’ultima sera della Festa de l’Unità. Parcheggiammo in uno spiazzo sterrato abbastanza sconnesso e polveroso; ci aiutò a cercare un posto in una marea di auto un ragazzo di colore che mi chiese un contributo. Poi come sempre accadeva c’era la forca dell’ingresso con la distribuzione delle coccarde a quel tempo ancora rosso fuoco, in cambio di un contributo a piacere, minimo 1000 lire però! L’ingresso era comunque quello secondario che portava ad un viale appartato dal resto della Festa, ma fummo tutti sorpresi dalle voci che sentivamo provenire dal pratone al di là delle alte siepi. Lavinia e Daniele saltellavano mentre ancora li tenevo per mano, timorosi di potersi smarrire tra la folla. Le voci indistinte e confuse ci arrivavano mentre i venditori degli stand che erano sistemati lungo il vialone principale invitavano gli astanti e i passanti ad assaggiare i loro prodotti o ad acquistare l’ultimo dei biglietti disponibili per il sorteggio che di lì a poco – dicevano – sarebbe avvenuto con l’utilizzo della ruota. Daniele era attratto dallo zucchero filato mentre Lavinia gradiva le schifezzuole gommose davvero disgustose.

Riprendo un racconto che avevo interrotto lo scorso 9 dicembre (parte 4) che era stato preceduto il 22 novembre dalla parte 3, l’ 8 di quello stesso mese per la parte 2 e per la prima parte il 5 novembre.
Il racconto partendo da eventi occasionali – esposti tuttavia in una parte introduttiva relativa ad una recensione datata 13 settembre 2014 che qui sotto riporto – si spinge poi nelle due parti conclusive (la quinta, questa!) e la sesta, che pubblicherò nei prossimi giorni, a rievocare una Festa de “l’Unità”, una delle tante, ora che sono diventate solo un ricordo!


FUOCHI di Joshua Madalon – Un preambolo (13 SETTEMBRE 2014)

I fuochi d’artificio non si guardano mai da soli; sin da bambini ci hanno abituati a goderli “insieme” agli altri. E ancora adesso che ho figli adulti quando mi capita di sentire scoppiettii mentre lavoro in casa nelle notti sempre più insonni li chiamo a raccolta per goderne gli effetti variopinti e fantasmagorici. Se devo andare con la memoria a dei “fuochi” particolari nella mia mente ce ne è uno che ha rappresentato l’arrivederci per un gruppo di amici che, dopo poco, si è distribuito su territori diversi per lavoro. Di qualcuno di questi ho il profondo rimpianto di non poterlo rivedere. Eravamo ventenni ed a fine Agosto a Procida sul costone del sentiero che porta a “Fore Serra” e che guarda dall’alto Ciraccio, Chiaiolella, Vivara e Ischia attendevamo intorno alla mezzanotte i tradizionali “fuochi” della festa dedicata a San Giovan Giuseppe della Croce. E’ un ricordo per diversi motivi malinconico ma straordinariamente fissato nella mia memoria che ritorna ogni volta che assisto ai “fuochi” anche qui, dove vivo da alcuni anni, a Prato.
Ed è stato così giocoforza riandarci con la mente, avviando la lettura di “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” scritto da Vincenzo Gambardella. L’autore sarà presente a “Libri di mare libri di terra” Festival della Letteratura nei Campi Flegrei che si svolgerà a Pozzuoli, Bacoli e Monte di Procida dal 26 al 28 settembre. Ho già scritto nell’anticipazione che si trattava di un libro complesso e difficile, e mi riferivo in particolare alla qualità della scrittura che si basa su una prosa tecnica elaborata con un gergo popolare che, sin dall’inizio, impone al lettore una revisione profonda nell’approccio consuetudinario ai testi che circolano correntemente. Ma, attenzione, il mio è un giudizio condizionato dall’impressione che ho avuto dopo letture di ottimo livello ma caratterizzate da lessici a me familiari. Niente di tutto questo troverete in “Vinicio Sparafuoco…”! Ma dopo la prima fatica vi assicuro, e lo sottolineo senza ambiguità e condiscendenza supina o piaggeria che dir si voglia, che ci si trova davanti ad un autentico capolavoro letterario.

La storia narrata è quella di un gruppo di amici che si formano intorno al protagonista Vinicio Pierro come fuochisti. Nel libro il gergo particolare di questa professione è spesso utilizzato in modo scientificamente appropriato e potrebbe servire come “manuale per i principianti” (io stesso sono andato a ricercare sul web alcuni termini come “calcasse”). Insieme questa allegra brigata (ma vi saranno momenti tristi e drammatici anche se raccontati con estrema semplicità) partirà dal golfo di Pozzuoli per andare verso il Nord fino all’algida Germania per poi dopo vicende cui non accenno far ritorno in Costiera amalfitana (Minori) dove alcuni sogni trovano il loro positivo approdo. Se ho dato questo giudizio entusiastico lo si deve al lessico ed alla sintassi frizzante, scoppiettante e variopinta come i fuochi d’artificio. La descrizione dei personaggi è precisa e dettagliata a partire da Vinicio, cuore semplice, generoso ed umile all’inverosimile in una realtà come quella con cui siamo abituati a lottare quotidianamente, un “cuore gioioso” come lui stesso dice di sé con toni ingenui, primitivi e colti allo stesso tempo ma di una cultura popolare che è sempre più martoriata e trascurata (leggansi le “lettere” che Vinicio – in più occasioni – e Costanzo Ceravolo detto Magnesio scrivono anche a personaggi importantissimi come il Negus, la Regina d’Inghilterra e papa Wojtyla). Insieme a queste sono pagine di grande letteratura quelle dedicate alla storia di San Gioacchino e Sant’Anna, il cui culto è praticato a Bacoli, la terra flegrea da cui partono i nostri personaggi ed altre che non mancheranno di coinvolgervi e di trasmettervi piacere, se coglierete il mio consiglio di leggere “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” di Vincenzo Gambardella edizioni “ad est dell’equatore” collana liquid.

FUOCHI – parte 5

Salutai rapidamente alcune compagne che erano sedute davanti alla tenda della Direzione, e che mi avevano invitato a stare con loro per discutere delle questioni politiche di inizio estate, che erano quasi sempre legate ad aspetti marginali, e anche per questo motivo feci segno che ci saremmo visti dopo, un dopo generico, e che ero impegnato con i pargoli, che non avrebbero troppo a lungo tollerato le mie distrazioni. Infatti già prima del mio fugace saluto non degnarono di alcuna attenzione le signore e proseguirono il loro cammino verso uno spiazzo dal quale provenivano musiche e voci, entrambi incomprensibili.
All’improvviso si aprì un varco nella vegetazione e le musiche e le voci divennero ben più vicine ma ugualmente poco chiare, indistinte. Ed insieme a queste in un grande prato illuminato a giorno apparvero centinaia di ragazze e ragazzi dagli occhi a mandorla che si agitavano urlanti verso un palco sul quale si esibiva un complesso formato da giovani ugualmente cinesi ed una ragazza pronunciava parole che il pubblico mostrava di comprendere e di poter condividere cantandole. A conti fatti, dopo la prima sorpresa la melodia era gradevole anche se non ci capivo niente. Lavinia e Daniele, miracoli della giovinezza, non mostrarono alcun disappunto sin dall’ingresso sul prato. Dove si sedettero continuando ad operare sul residuo di zucchero filato e schifezzuole gommose. Feci buon viso a cattivo gioco, ma ho un ottimo spirito di adattamento e mi impegnai, tranquillo per i figlioli che erano ormai bloccati da altre torme assise ed agitate in uno spazio ristretto, ad osservare le fisionomie, le loro smorfie, la loro prossemica del tutto simile a quella delle migliaia di giovani che a mia memoria avevano seguito concerti delle più importanti formazioni pop della mia gioventù. Erano belli di una bellezza che non riesci a cogliere in altri ambienti, quelli scolastici o di lavoro, dove molto spesso hanno un atteggiamento di straordinaria riservatezza. Lì i giovani si agitavano, urlavano, bevevano bibite tassativamente analcoliche e si abbracciavano, si baciavano in modo casto, abbandonando il classico pudore che li contraddistingueva in ambienti ugualmente pubblici ma dove non c’era la musica, che avvicina, accosta, facilita i contatti. Mi venivano in mente concerti degli anni Settanta, i figli dei fiori, la ricerca dell’assoluto, il rincorrere le utopie senza mai riconoscerle tali.
Sul palco intanto si alternavano ragazzi e ragazze gareggiando in una sorta di Karaoke cinese ed allora compresi che l’agitazione esagerata aveva un obiettivo molto pratico di sostegno ai vari concorrenti sia per la qualità sia per una conoscenza diretta da parte dei vari gruppetti di amiche ed amici.
Mi distrasse un attimo l’arrivo di un funzionario del Partito che volle salutarmi ed assicurarsi che nei giorni successivi io fossi a Prato. Volevano programmare alcune iniziative culturali per l’autunno ma pensavano di vedersi quasi a fine luglio. Dissi che non potevo ma che se fosse stato possibile avrei dato la mia collaborazione sin dai primi giorni del mese di settembre, alla ripresa del lavoro scolastico.

Ero stanco, ma allo stesso tempo attratto da quella folla straordinariamente ordinata nella sua giovanile prorompente allegria. E i due rampolli si erano sistemati e partecipavano con insolita attenzione allo spettacolo naturale che si andava svolgendo. Poi, all’improvviso tutto sembrò chetarsi. Anche io avevo trovato un lembo di prato libero e mi ero accovacciato accanto a loro. E fu solo un attimo dopo che mi ero sistemato che un “Ooooh!” collettivo accompagnò il primo fuoco che fiorì proprio davanti a noi alle spalle del palco dal quale si erano esibiti i karaokisti. Il botto che seguì di pochi millesimi di secondo non fu così intenso, nessuno se ne accorse soprattutto perché nello stesso tempo una pioggia di luci sembrò riversarsi su tutti. “Sembrò” con quell’effetto speciale stroboscopico che provoca timore negli inesperti, ma non ve ne furono tanti a rendersene conto. Gli stessi pargoli si erano distesi utilizzando come cuscini alcuni sassi ricoperti dalle morbide giacchettine leggere che Mary mi aveva dato prima di uscire, raccomandandomi di non far loro prendere freddo. Mi girai intorno e mi accorsi che ero tra i pochi ad essere rimasto in piedi e così mi feci fare un piccolo spazio, posi a terra la mia giacca e mi distesi con lo sguardo all’in su verticale ma anche obliquo verso la parte alta del palco. E non tardò dopo l’annuncio, l’apertura che dà il segnale di “attenzione”, a riprendere la “tarantella” delle stelle e delle bombe di varia forma, caratteristica e colore che illuminarono il prato dopo che per rendere migliore l’effetto erano state spente molte delle luci che avevano accompagnato le precedenti esibizioni canore.
Si susseguirono bombe a stelle e colpo scuro di colore rosso e verde a quelle “granatine” e “a raggi”, a “cannelli”, a “crociera di sfere” tutte mescolate con grande sapienza tecnica. E di poi nelle variazioni a più “spacchi” con lancio di di “stelle” a colori diversi che si dirigono in varie direzioni e sembrano quasi volerti abbracciare e colpire; ed ancora con “paracadute” ed altre forme geometriche, colorate ed eleganti come le bombe giapponesi di vario calibro. Tutto durò una buona mezzora anche se il tempo sembrò molto più breve e veloce. Il finale fu epico, tambureggiante, come ben si addice a professionisti di primo livello e con gli ultimi boati, quelli sordi, che danno il senso della compiuta operazione pirotecnica, partì un applauso sincero corrispondente alla felicità che era stata diffusa su quel prato.
Tempo dieci minuti, un deserto: o quasi. I bambini erano visibilmente stanchi, Daniele volle essere preso in braccio che non reggeva più dal sonno, forse anche Lavinia se ci fosse stato un posto libero tra le mie braccia ne avrebbe approfittato. Ma erano già occupate e da un peso non indifferente. Ma tant’è: mi avviai al parcheggio lungo il vialone che era ormai semideserto. Avevo anche il viaggio di poco più di cinquecento chilometri sul groppone. Mi fiondai a casa, stanco morto. Mary non dormiva ancora; è sempre così, non viene con noi ma è in pensiero finché non ci vede tornare. Daniele continuò a dormire forse sognando ancora quelle luci incantate, e Lavinia invece con toni bassi le andava descrivendo alla madre. Chissà per quanto tempo ancora avranno ricordato quei “fuochi”; chissà in che modo ne parleranno ai loro amici ed a quanti dopo di noi verranno; chissà se accadrà mai che condivideranno con i loro figli queste esperienze.