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VINICIO SPARAFUOCO DETTO TOCCACIELO torna a casa – incontri con Vincenzo Gambardella

Vincenzo Gambardella

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“VINICIO SPARAFUOCO detto TOCCACIELO” DI Vincenzo Gambardella – Edizioni “Ad Est dell’Equatore”

Avrò altre occasioni (e mi impegnerò in questa direzione) per incontrare Vincenzo Gambardella, l’autore di uno dei libri più sorprendenti e straordinari che mi siano capitati di leggere in questi ultimi mesi.
Al “Festival della Letteratura nei Campi Flegrei” lo attendevamo ma non è riuscito ad essere presente.
Scrivendone, mi dispiacerebbe anche lontanamente dare la sensazione di stare a costruire un commento “positivo” ad hoc.
Non è così!
“Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo” è un autentico capolavoro di letteratura “popolare”, intendendo con questo ultimo attributo, riconoscerne l’alto valore culturale che riesce a rappresentare; una Cultura che parte dal mondo contadino di un Sud nel quale alla diffusa povertà si contrappone la incommensurabile ricchezza umana dei suoi abitanti. Leggendolo, mi ha riportato alla memoria pagine cinematografiche di quel Neorealismo rosa di cui sono protagonisti Renato Castellani con “Due soldi di speranza” (1952), Luigi Comencini di “Pane amore e fantasia” (1953) e Dino Risi di “Pane, amore e…” (1954) e “Poveri ma belli” (1957). Allo stesso tempo mi hanno ricordato alcune pagine del Neorealismo letterario e un fumetto “Li’l Abner” di Al Capp degli anni Trenta americani non tanto per l’ambientazione in Alabama ma per le caratteristiche linguistiche delle espressioni dei protagonisti nostrani, riportate dal “narratore”.
Gambardella si esprime sintatticamente nelle forme tipiche del linguaggio di base, ricorrendo ad una narrazione in prima persona costellata di frequenti ripetizioni, così come parlerebbero i suoi personaggi se fossero veri e vivi.
Il libro più che da leggere sarebbe per davvero da sentire, come narrato in quegli ambienti patriarcali contadini nelle serate calde nelle aie (int’’o ricietto) d’estate (o nella tradizione veneta sempre contadina e montanara dei “filò”).

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Dentro il narrato in prosa si scopre una metrica che rimanda a quella altrettanto ritmica dei fuochi d’artificio (in una pagina don Blandino accenna “la metrica del fuoco…Perché ci sta una metrica, nu ritmo ‘na musica che fa uscire i fuochi a tempo, che li fa uscire a catena, non uno dietro l’altro come fossero pecore…”). C’è dunque una vera e propria musicalità che trova il suo sbocco poi nella presenza del maestro Cammarota (meridionale trapiantato in Lombardia) e nella innata propensione di Toccacielo ad inventare musiche nella sua testa.
I personaggi principali sono tutti ben delineati nelle loro funzioni narrative e nelle loro differenze; oltre al “cuore semplice e gioioso” del protagonista Vinicio si ritrovano le figure di don Blandino, “’o masto”, un prete fuochista (“nu palo, ‘na pertica, secco secco com’è, allampanato e vuoto nella camicia, fatto d’aria, tutto nervi e tendini, tutto spiritato”) che da Bacoli viene trasferito lontano in Lombardia, a Baranzate (nord di Milano) e che rappresenta una figura protettiva nei confronti della “compagnia”, in modo particolare verso il “chierichetto” (“lo chiamavano Magnesio. Magnesio qua, Magnesio là, mentre il suo vero nome era Costanzo, perciò lo soprannominavano Costanzo-Magnesio, oppure Magnesio-Costanzo, ovverosia ‘o chierichetto, ‘o fraticello.”).
Vinicio Pierro invece non ha bisogno di protezione; ha una sua forza d’animo interiore che non lo fa mai deprimere, anche se tante delle sue vicissitudini fermerebbero molti altri. Nel corso delle vicende nell’occasione dei campionati annuali di fuochi d’artificio a Mugnano il piccolo gruppo (Vinicio, don Blandino e Magnesio) incontra “nu lombardo di Trescore”, Michele Strogofio, che creerà un percorso di avvicinamento verso la nebbiosa Lombardia. Qui dopo un’iniziale adattamento rapidamente Vinicio, raggiunto i suoi amici, scopre che il mondo nordico non è (al di là della nebbia e del freddo) molto diverso da quello merdionale quanto ad “umanità”. Dopo alcuni episodi che non posso raccontare (non solo per lo spazio ma soprattutto per il rispetto che porto ai “lettori”) i nostri “andarono a sparare sempre più a nord” (Svizzera, Austria, Germania e sempre più su). Nel finale vi è poi il ritorno in Campania nei festeggiamenti di Santa Trofimena, a Minori (Costiera amalfitana) dove il gruppo si amplia con nuovi insperati innesti (o ritorni?).
Non sono in grado di andare oltre; l’ho appena riletto, cogliendone altri nuovi aspetti che non aveva considerato. La lettura è scorrevolissima e gradevolissima.
Vincenzo Gambardella ha scritto anche altri libri, prima di questo e non appena li avrò letti ne pubblicherò un commento.

Per ora è confermato l’incontro all’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli (vedi sotto).

presentazione del libro Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo di Vincenzo Gambardella.
Con l’autore interverranno: Antonella del Giudice, Carlo Pellegrino.

Venerdì 14 novembre ore 17, Istituto Italiano di Studi Filosofici, Via Monte di Dio 14 – Palazzo Serra di Cassano – 80132 Napoli – tel.: 081.7642652.

Palazzo Serra di Cassano

VIAGGIATORI – una serie di racconti – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 3

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PROCIDA l’ETERNO RITORNO – parte 3

Arrivavo sotto gli alberi con l’immenso desiderio di scalarli e sentivo sapevo di non farcela di non averlo mai saputo fare, mentre gli altri veloci raggiungevano i posti più alti ed io, graffiandomi, rimanevo a guardarli impotente (una foto del tempo delle elementari me lo ricorda impietosamente). Le querce di Procida erano alte e dal tronco largo e nodoso. Sotto queste pinate, sui bordi del promontorio di Serra, le buche dei conigli mi mettevano una strana paura e il ricordo correva a quel mio dito sanguinante inciso dai denti di uni di essi; ed ero minuscolo bambino ancora ingenuo e poco accorto lanciato alla conoscenza del mondo e delle sue piccole insidie. Sin da quel tempo, il cane da caccia “muso storto” mi guardava ringhiando e vaniva la mia coraggiosa intenzione di avvicinarlo e di carezzarlo con segno di amicizia da quel curioso che ero, allora, da quel curioso pettegolo che sono, adesso. La capra dal suo recinto protetto, addossato alle mura di quella casina diroccata in parte, ma del tutto abbandonata e trasformata in piccola stalla, lasciata lì solo a baluardo, con le sue mura forti ed alte, belava sentendoci arrivare, segno che l’ora del pasto e della mungitura delle sue mammelle lattifere era già arrivata. Tra tutte queste attività correvo scappavo dappertutto raccogliendo le ghiande e lanciandole qua e là con il segreto intento di raggiungere il mare, vicino (allora così mi sembrava!) da uno o dall’altro lato della punta, ed avrei voluto vedere nell’acqua, che tuttavia era lontana, i cerchi ingrandirsi concentrici e precisi man mano fin poi a scomparire.
Avevo saputo che laggiù sulla stretta spiaggia del Pozzo Vecchio venivano anche di inverno nelle belle giornate calde perché soleggiate gli innamorati, a cercare un istante di pace, uno scorcio romantico dove ispirarsi, ci venivano anche gli artisti, i fotografi, con i loro pennelli ed i loro colori, con le macchine fotografiche ad eternare momenti ed immagini.
“Dissi a mio cugino che andavo scrivendo qualcosa, niente di molto serio, poesie, racconti. Eravamo là sulle gradinate di casa, le lunghe caratteristiche gradinate procidane mediterranee costruite con il tufo e spalmate di bianca calce; ed io preferivo lungamente star lì seduto, piuttosto che andare al mare, che era per di più a quattro passi da noi; preferivo rimanere con me stesso, da quel chiuso riservato carattere che avevo, piuttosto che scendere alla spiaggia, a contendermi gli sguardi e le risa delle ragazze, a provare gelosia ed insieme invidia, a giocare con rabbia per emergere, farmi notare, ad impormi con aggressività nelle facoltà dove stimavo di eccellere e che spesso erano sottovalutate e derise, a nascondere la costituzione macilenta del mio fisico indossando maglioni poco adatti al caldo estivo, al sole che picchiava sulle sabbie sempre più calde, bollenti. E mio cugino mi offrì un sorriso di commiserazione, comprendendo che andavo rivolgendo dentro me stesso tempeste. Non avevo mai amato soverchio la bellezza, forse perché essa mi trovava sempre impreparato, sprovveduto, timido e chiuso. Avevo imparato che la bellezza era anche simbolo di vanagloria ed ogni volta che incrociavo gli occhi di una ragazza ostentavo una indifferente noia, un superficiale disgusto, una maschia sicurezza, che nascondeva l’immensa quantità di complessi.

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 parte 8

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I GIORNI 1972 – parte 8

C’è chi non ha genio. Quello ero io. Avevo paura. Una strana paura. Ingiustificato timore di essere scacciato. Come una spia in un paese nemico, un traditore nella patria.
Uno strano complesso di colpa, mia madre. D’inferiorità.
Che ti viene di fronte a muri apparentemente insormontabili, allorquando si entra in un clan già precostituito. L’incomunicabilità con gli altri talvolta per angoscia, talvolta per abitudine di vita.
Seduti là, accanto a loro, il mio amico di faccia, io di spalle su un grosso sofà. La noia dipinta su di me. Volevo scappare, ma il mio amico cercava di attaccare conversazione. Egli voleva, lo disse poi a me, proporre un canto della nostra terra, ma fu inutile.
Rimanere lì ancora, anche per poco, per me era perdita di tempo, anche perché essi avevano lì il loro mondo, le loro donne, i loro amici ed io invece sentivo dentro di me di essere solo, molto solo, molto solo, estraneo.
Non ho mai legato con gruppi così numerosi come quello. Legare. Fingere. Cantare insieme a loro un canto che, io, non sentivo di cantare. Il canto corale, aderenza di ciascun elemento al gruppo.
Ad ascoltare l’inno ti si gela il sangue, senti un brivido, la partecipazione è completa.
L’urlo nella notte mi colpì all’improvviso. Dapprima il terrore fu forte. Poi, trasformatosi in coscienza, dovetti riconoscere che il poveretto doveva soffrire non poco. Paralitico da anni, aveva frequenti attacchi di asma.
Quello che la gente ignorante chiama licantropo o lupo mannaro è solo un povero uomo malato.
Per tanti anni la superstizione e la paura di incontrarlo, restando sveglio di notte al semplice abbaiare di un cane, non avendolo mai incontrato, non avendo mai sentito il suo caratteristico lamento, mi avevano fatto credere ad un personaggio da leggenda, di quelli che comparivano numerosi nei films del terrore. Per strade strette e buie, un minimo rumore mi faceva rabbrividire, ma ora che so non ho da avere paura, ma soltanto pietà.
I cani, nell’isola, dovevano essere molti. Andavano mendicando per le trattorie, strascicandosi quasi, per la loro pinguedine eccessiva, accucciandosi financo al centro della strada a godersi, placidamente assopiti in una calma che io invidiavo, il meraviglioso viavai di gambe.
Chiaia di Luna doveva essere una spiaggia. C’era un cartello che ci indicava la strada.
La luna s’era alzata già di molto e la strada, buia, era riscaldata dai suoi raggi, quel pallore che a me, se son solo, mette angoscia. Ecco perché nelle notti di luna piena talvolta si crede di assistere a visioni che valicano i limiti umani.
Ti aspettai. Tu venisti, come avevi promesso, ma qualche minuto più tardi. Scappasti momentaneamente di casa e, per convincere i tuoi, chiedesti l’aiuto degli “angeli”. Tra gli alberi i raggi della pallida luna sortivano uno strano effetto. Vedevi e non vedevi. Sembrava di essere quasi al buio e la luce non era luce, stancava gli occhi il guardare. A casa ritornasti in silenzio, per vestirti dell’abito buono dei giorni di festa e uscire con noi. Alla festa dimenticai di dirti che t’amavo. Dimenticai, e la colpa fu tua. Lo dimenticai fra le tue calde braccia, mentre tu ti assopivi stanca sulle mie spalle, nei lenti, silenziosi slow, lo dimenticai. E avevo dimenticato, l’avevo voluto, perché sentivo che non c’era più bisogno di dirtelo a voce.
Chiaia di Luna era una spiaggia. Il mio amico c’era stato anche l’ultima volta. Mi guidò.
Avevamo visto nascere la luna piena, quella sera. Ora era già alta.

I GIORNI 8 – continua

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reloaded TERRE(E)MOTI DEL CUORE – IL RACCONTO DEL RICORDO (SUL BRADISISMO FLEGREO DEL 1970 E 1983)

Rionew Terra

QUESTO ARTICOLO E’ STATO PUBBLICATO DA ME LO SCORSO 9 GIUGNO 2014 SU POLITICSBLOG.IT

I legami con Pozzuoli sono stati, in questi ultimi quaranta anni, essenzialmente episodici. Fondamentalmente ho lavorato con intensità passionale, e ne porto addosso profonde ferite, sul territorio toscano dopo una parentesi veneta che pure ha dato i suoi frutti. Fra questi legami, al di là degli affetti familiari, pongo in posizione prevalente quello con Oscar Poerio che, negli anni Novanta, da Assessore alle politiche Sociali del Comune di Pozzuoli (credo rivestisse anche incarico di vice Sindaco) venne a “studiare” alcuni interventi dell’Amministrazione comunale pratese (allora era, a Prato, Assessore Alessandro Venturi) in materia di edilizia scolastica “primaria”. Oscar notò come da noi in Toscana le scuole fossero state pensate e costruite con delle grandi vetrate che lasciavano intravvedere dall’esterno le attività che si svolgevano all’interno di esse.
Non è un caso, dunque, che con Oscar si sia poi mantenuto un rapporto positivo anche se non continuativo ed intenso, e non è un caso che, ritornando di recente più spesso in terra flegrea, è con lui, forse più di altri, che io abbia attivato un legame profondo dal punto di vista culturale. Oscar mi parla dell’Archivio Vescovile e di Città Meridiana; mi parla di un Festival delle Idee Politiche (FIP è l’acronimo identificativo) che, insieme ad alcune amiche ed amici, sta organizzando ed io, che di Pane e Politica oltre che di Cultura ho vissuto finora soprattutto idealmente, accendo su questi temi il mio interesse. Mi piace peraltro questo accostamento a prima vista quasi irriverente fra il sacro dell’ideologia (le Idee politiche) ed il profano del nazional-popolare (Festival). Ed il mio interesse ha radici profonde nell’elaborazione di un Progetto di Sinistra che, partendo dall’esistente, lo superi con una rigenerazione post ideologica che si basi sullo sperimentalismo democratico e sulla mobilitazione cognitiva di cui parla negli ultimi tempi Fabrizio Barca. In effetti mi interessa moltissimo ( I care ) l’idea ma, per una serie di concomitanze, non riuscirò a partecipare. Non rinuncio tuttavia a mandare, via posta elettronica, uno dei progetti su cui sto lavorando. Oscar mi parla anche di un’iniziativa svolta lo scorso anno da Città Meridiana. Conosce la mia passione per il Cinema e per la “documentazione antropologica” e mi accenna ad un filmato, “Sud come Nord” (1957) di Nelo Risi presentato sempre lo scorso anno dalla sua Associazione nel corso di una delle iniziative. Gli dico che non lo conosco, anche se poi, da frequentatore di youtube, ricordo di averlo visto nel mentre ricercavo filmati su Pozzuoli e sull’Olivetti. E poi fa riferimento ad una pubblicazione di cui, dice, mi farà dono.
Si tratta di un “percorso nella memoria individuale e necessariamente collettiva riferito agli anni del “bradisismo” (il 1970 ed il 1983). Gli dico di avere già visto di recente alcuni video di “Lux in fabula”, un’associazione molto attiva nel recupero di riprese private e pubbliche audiovisive sul passato flegreo. Riparto per Prato sapendo di ritornare a breve. Ed è così che in questa fine di maggio, dopo l’esaltante vittoria del Centropd, ritornato a Pozzuoli, Oscar e Regina sua moglie, approfittando di una delle mie iniziative, sono venuti a trovarmi. E’ venuto lui; io non sono ancora riuscito ad andare da lui, in Archivio, come più volte ho promesso di fare. E mi ha portato il libro. Il titolo mi colpisce TERREEMOTI DEL CUORE Il racconto del ricordo. CINQUE PAROLE CHIAVE cinque tag fondanti. E dentro nella prima pagina di copertina anche una dedica “significante” che recupera alcuni lemmi e spinge me ad inoltrarmi fra le altre pagine. Ritrovare “fatti, persone e moti del cuore” perché risveglino in me “ricordi mai cancellati”: è questo l’auspicio di Oscar. Con affanno e voracità scorro rapidamente il libro con gli occhi e col cuore innanzitutto alla ricerca di nomi e volti noti collegati ad esperienze comuni, tutte amiche ed amici della “bella gioventù”.
Il bradisismo, quello del 1970, sconvolse i nostri destini con una diaspora tentacolare: era, quello, un tempo difficilmente spiegabile a chi soprattutto è nato e vissuto dopo quegli anni. Come si fa a raccontare ai nostri giovani cybernauti e sacerdoti di Android che, per nessun motivo al mondo avremmo avuto modo allora di relazionarci costantemente – come riusciamo a fare adesso – con le amiche e gli amici con cui fin a qualche giorno od ora prima avevamo vissuto gomito a gomito. Anche le diverse lontananze incisero creando storie nuove, nuove amicizie, nuove solitudini e qualche volta nuovi amori. L’evento di bradisismo del 1983 mi ha visto già cittadino di altra Regione, dal 1975 ero andato via da Pozzuoli, dove nel 1972 avevamo festeggiato i 2500 anni dalla sua fondazione, e nel 1983 ho vissuto le “storie”, di cui ho letto nel libro, anche dai racconti dei “miei”, che erano ritornati a Mondragone ma non nella casa dove ero stato con loro nel 1970, quando avevamo abbandonato la nostra abitazione di via Girone soltanto per prudenza.
Ma non voglio aggiungere un capitolo al libro che ho trovato estremamente vario e ricco e mi ha consentito davvero di ritrovare in un solo unico contesto quelle sensazioni comuni ma diverse che ciascuno dei protagonisti lì dentro presenti ha vissuto; di ritrovare nomi e volti a volte provvisoriamente dimenticati ma che – ora – vorresti incontrare nuovamente per intrecciare percorsi fertili comuni. Tanti nomi; non posso sceglierne solo alcuni; farei torti incomprensibili, ingenerosi ed ingiusti. Ho una matrice culturale di tipo “antropologico” che mi spinge ad indagare sulle “storie” umane e questa raccolta di “storie” mi ha coinvolto appassionatamente. Non amo da qualche tempo l’approccio meramente politico; lo trovo sempre più arido e colmo di ipocrisie. Ad ogni buon conto concluderei questo “racconto” sotto forma di “commento” (o commento sotto forma di racconto, fate voi!): nel 1972 pubblicai, a mie spese, un lungo racconto accanto ad uno breve, bellissimo ed intenso, del mio amico Raffaele Adinolfi. Era, quello mio, un racconto anomalo fatto di un pretesto di partenza (un breve viaggio a Ponza) ma con una lunghissima serie di rimandi “logici” (per me lo erano di certo, per gli altri ho qualche dubbio lo fossero). In una di queste pagine c’è la mia “memoria” di quel distacco del 1970.

J.M.
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VIAGGIATORI – una serie di racconti – LA SFIDA – 4 ed ultima parte

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LA SFIDA – quarta ed ultima parte

Il mare era abbastanza tranquillo nel porto, anche se con l’approssimarsi del tramonto il vento aveva ripreso a tirare ed a dire il vero non era freddo. Il gruppo di Alberto, tutti soddisfatti per l’esperienza vissuta, arrivò a Marina Grande con il piccolo autobus. Scesero e si avviarono alla biglietteria, ma la trovarono chiusa e videro anche un cartello affisso: “SERVIZIO SOSPESO per mare forza 9”. In effetti, il mare non appariva poi così tempestoso, ma uno degli ormeggiatori che Alberto conosceva disse che il moto ondoso era molto forte nella parte più aperta alle correnti aeree ed in particolare fra Ischia e Procida e nel canale di Procida; e , quel che era peggio, le previsioni non annunciavano miglioramenti nelle ore successive, anzi! Cosa fare, a quel punto? Alberto sapeva anche che in qualche occasione era stata ripresa la rotta per Acquamorta, al Monte di Procida; ne accennò al gestore del bar, Geppino, che conosceva da tempo ma quello gli rispose che, in simili condizioni, nessuno lo avrebbe potuto condurre dall’altra parte: la sera stava sopraggiungendo e non vi erano le condizioni per poter con certezza far ritorno e poi la Capitaneria non lo avrebbe consentito.
Alberto chiamò Valerio che, per fortuna, visto il maltempo, era ritornato a casa e lo informò. “Se qualcuno ci dicesse che di certo domattina si parte potremmo anche adattarci in un magazzino del porto o chiedere ospitalità in uno dei locali della Marina; ma ho la sensazione che non vi siano certezze in tal senso.” Alberto pensò anche di portare una parte dei suoi amici dai suoi parenti, ma Valerio lo rassicurò: “In occasioni come queste, voi siete stati nostri ospiti, tocca a noi ricercare una soluzione. Chiamo il Sindaco per capire quel che si può fare! Aspettatemi”. Alberto ringraziò ed avvertendo su di sé la responsabilità di averli condotti in quella “sfida”, informò il gruppo, che intanto come aveva fatto al mattino si stava rifocillando al caldo in una stanza interna del Bar con te e pastine varie.
Valerio arrivò dopo meno di un’ora; con lui c’era il vice Sindaco che assicurò tutti che l’isola avrebbe provveduto ad ospitarli in una struttura alberghiera (avevano pensato anche all’Ospedale, ma veniva utilizzato solo per il Pronto Soccorso e non aveva spazi organizzati) fin quando il servizio di navigazione non fosse ripreso. Alberto aveva telefonato alle zie e si fece escludere dal computo; disse che però li avrebbe accompagnati per accertarsi della sistemazione. In quei giorni, per la concomitanza delle festività e del maltempo, gli alberghi erano pressochè vuoti. Era consuetudine ad ogni buon conto avere il massimo rispetto per gli “ospiti”, ancor più in occasioni come quelle; e non capitava certamente spesso.
Valerio, il Vice Sindaco ed un altro amico fino ad allora sconosciuto li accompagnarono, utilizzando tre auto, ai due Alberghi che si trovavano fra Solchiaro e la Chiaiolella, il “Savoia” ed il “Riviera”. Furono accolti con estrema cortesia nella tradizione ospitale dell’isola. Alberto ringraziò gli amici di Procida, si accomiatò dai suoi amici assicurando loro che, presto, la mattina dopo sarebbe ritornato, suggerendo loro di essere pronti perché se il mare si fosse calmato ed il servizio ripreso sarebbero partiti. La notte il vento riprese vigore e la mattina, limpida perché sgombra di nubi annunciò tuttavia che nulla era cambiato e che il mare, lo si vedeva dall’alto della casa delle zie di Alberto, lo si vedeva altrettanto dall’alto delle terrazze dei due alberghi, era ancora più tempestoso. Alberto raggiunse presto gli amici e con loro, sapendo di dover rimanere ancora qualche ora, forse un giorno, si sperava un solo giorno, si incamminò sulla via “Panoramica” e da quella poterono osservare la maestosità delle onde marine che si scagliavano possenti contro la scogliera sollevando una schiuma corposa; ed il vento intenso rendeva il cammino faticoso lungo la strada. Alberto e pochi altri, rassicurati e protetti dalla dolcezza e dall’ospitalità dell’isola, ricordarono i versi di Lucrezio nel secondo libro del “De rerum natura”

“Suàve , marì magnò turbàntibus àequora vèntis
è terrà magnum àlteriùs spectàre labòrem;
nòn quia vèxarì quemquàmst iucùnda volùptas ,
sèd quibùs ìpse malìs careàs quia cèrnere suàve est.”

“bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano.
Non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,
ma la distanza da una simile sorte”

e fecero ritorno, dopo aver acquistato alcuni prodotti per l’igiene intima in un “Coloniali” in Piazza Olmo, uno di quei negozi che emanano profumi di pulito e vendono di tutto, ai loro Alberghi. Era il 4 novembre, venerdì e nel Nord ed il Centro d’Italia, si stava consumando la tragedia delle alluvioni. Trento, Venezia, Udine, Brescia, Padova subirono enormi danni; Firenze fu sommersa dall’Arno. Un patrimonio immenso di Arte, Cultura e Civiltà rischiò di essere perduto. Alberto ed i suoi amici si incollarono alle radioline che riportavano i notiziari del “dramma”. Compresero di essere davvero fortunati. La mattina dopo riuscirono a far ritorno. Il mare non era ancora tranquillo ma il servizio era ripreso.

Joshua Madalon

Fine

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 7

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I giorni – PARTE 7

IL DITO SCORREVA SULLA LISTA. I NOSTRI SGUARDI ATTENTI.
“Sì, una singola”. Ci meravigliammo altamente. Era il primo albergo cui c’eravamo recati.
“Ma è per stasera soltanto” leggendo con precisione “E’ già prenotata per domani”.
“A noi occorrono due posti. E’ possibile aggiungere un altro letto?” Senza discutere su altro, ci facemmo accompagnare alla nostra camera.
Poca fatica, dunque. Aiuto del cielo.
Spalancai le imposte: una terrazza. Crepuscolo meraviglioso visto verso oriente. Rumore di imbarcazioni scoppiettanti allontanarsi o accrescersi nel silenzio di altre voci o rumori. Rispecchiarsi di luci sul bel mare di nafta.
Da dove mi trovavo vedevo gran parte dell’isola. Fin l’isolotto di Gavi e, alle mie spalle, il Monte della Guardia.
Le agavi, al mio paese, hanno fiori sporchi. Fu la prima cosa. Vedemmo i fiori delle agavi stagliarsi sulle alture dell’isola nella penombra del tramonto. Ci colpirono le insegne luminose di alberghi, ristoranti ed hotels.
“Allora, d’accordo, se mi stanco…”
“Sì, ma andiamo a quell’hotel”
Ci aveva colpito l’insegna ma dopotutto era anche il primo. E ci andò bene.
Bussarono. Dopo poco il secondo letto era a posto. Mi gettai di sopra, stanco. Per poco non finivo a terra.
“Ti telefono appena posso”. Era tardi. Era di certo in pensiero.
“pronto. Tutti bene. Ora siamo arrivati. Siamo a Ponza”. Altre sciocchezze vane. “Ciao. Ti telefono dopodomani. Ciao…. Ciao”
Era un ragazzino, di quelli svegli e vispi.
“Comandino? Cosa posso servirvi?”
Più che la posizione del bar, in zona di passeggio, ci aveva attratto la presenza di tre ragazze sedute ad un tavolo dello stesso locale.
Ordinammo. Cominciammo a farci notare. Poi…
“Scusi, dov’è che posso trovare un tabaccaio?”
“Non lo so”
Ovvia risposta di chi ha capito il gioco e vuole scherzare.
Andai da solo alla ricerca di un rivenditore di tabacchi. Di ritorno, avevo intenzione di offrir loro delle sigarette. Così, per attaccar bottone. Ma c’era già chi con tutta evidenza le aveva offerte loro ed esse le avevano, a sentir le loro larghe allegre e sonore risate, ben volentieri accettate. Come noi, altri due ragazzotti erano rimasti a bocca asciutta e, chissà perché, si consolavano guardandoci con un sorriso leggermente ironico, sornione e forse ipocrita.
“Micio, micio, micio….Signorina, le piacciono i gatti?”
Le piacevano. Il resto fu facile, ma improduttivo…. La richiamarono a casa.
Gli scalini non sono quanti a Capri. Ma ne salimmo una trentina. Occhi che ci guardavano. Di donna. Di poco coraggio. L’ingresso del nightbalera era colorato da una lampadina rosso-cupa. Accanto un ristorante pizzeria, frequentato da gente un po’ su. Più in là una chiesa. Tutto nella penombra.
Una tradizionale voce napoletana, cantava, sussurrando, alla luna.
“Che m’ha saputo fa’ stu quarto ‘e luna
che m’ha saputo fa’ chi voglio bbene
e me tormenta sempe nu pensiero
no, nun è overo…”
“ ’Na voce, ‘na chitarra e ‘o poco ‘e luna
e comm’è doce chesta serenata:
‘a vocca toia s’accosta cchiù vicina
e tu t’astrigne a me…”
“Sembra un albergo”.
“Lo è”
Era un castello. Lo era. Il gruppo cantava mentre un giovanotto, chitarra imbracciata con maestria, suonava. Canti in dialetto del Nord. Milano, pensammo. Milano, ci dissero.

I Giorni – fine parte 7

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VIAGGIATORI – una serie di racconti – LA SFIDA parte 3

14 gennaio 2011 009

VIAGGIATORI – una serie di racconti – LA SFIDA parte 3

Decisero dunque di arrivare giù alla Chiaiolella e di fermarsi in una delle trattorie dove di solito facevano da mangiare agli operai edili che venivano dalla terraferma. In quei giorni non erano arrivati non solo per il maltempo ma soprattutto per le ricorrenze, per cui i gestori furono ben contenti di avere una dozzina di clienti inattesi e si prodigarono per accontentarli. Alberto li conosceva ma non bene come quelli della Corricella e di Marina Grande; si presentò e presentò i suoi amici spiegando il motivo per il quale si trovavano quel giorno a Procida.

Insieme ascoltarono alla radio le previsioni meteo e seppero che in gran parte dell’Italia del Centro Nord aveva continuato a piovere mentre al Sud non erano previste perturbazioni pericolose: si rasserenarono convinti anche del fatto che, pur se il vento continuava ad essere intenso, non facesse freddo ed il cielo era pressoché sgombro di nubi. Tanto che, alla fine del pranzo, dopo il caffè si spostarono verso la spiaggia e si sedettero sulla sabbia al sole che era abbastanza caldo.

Fino alle 14 vi rimasero; poi a piedi si avviarono salendo verso il Campo sportivo. Lungo la strada Giovanni, il capitano della squadra, impartì alcune indicazioni sui ruoli da ricoprire: Luciano avrebbe fatto il portiere, come al solito; Alfredo e Gino avrebbero supportato la linea di difesa mentre al centro di questa vi sarebbe stato lui stesso; nel centrocampo avrebbero operato Mattia e Peppino; la linea di attacco con capacità e potenzialità di rientro sarebbe stata composta da Alberto, Nicola, Fulvio come centravanti, Saverio e Renato. Di certo non avrebbero avuto alcuna possibilità di sostituzioni; ma nelle “amichevoli” spesso accadeva così. Alberto faceva da segretario a tutta la compagnia e prese appunti diligentemente.

Arrivarono con qualche decina di minuti di anticipo rispetto alla squadra locale; così si spogliarono, indossarono magliette – con i numeri canonici – e pantaloncini e poi cominciarono a fare riscaldamento. C’era intanto un pubblico occasionale sorpreso di vedere tante facce nuove. Arrivarono i “locali” per la sfida mentre Alberto e gli altri stavano provando dei palleggiamenti. Valerio fece le presentazioni di Alberto e quest’ultimo presentò i suoi amici. Alle 15, forse poco dopo le 15, scelto come arbitro un ragazzo che si era proposto, cominciarono a giocare; decisero di fare due tempi di 35 minuti con un breve intervallo di 10, in modo da poter finire per le 16.30 e ripartire, anche perché Valerio paventava il rischio che sul far della sera il mare sarebbe diventato più agitato e non vi sarebbe stata possibilità alcuna di partire; il vaporetto che li aveva portati la mattina ritornava da Ischia e sarebbe partito alle 17.30 ed era il mezzo più sicuro rispetto alle altre imbarcazioni meno solide.
La partita si mantenne su un piano di gioco aperto ma molto corretto così come era stato previsto dai patti; e nessuno si lamentò del risultato che fu un pareggio per 2 a 2. Finita, si rivestirono tutti, bevvero del tè caldo che era stato portato dai “locali” all’interno di thermos e non appena ritornò il pulmino si salutarono e, così come erano arrivati la mattina, ridiscesero alla Marina Grande.

La sfida – fine parte 3

Partita di calcio

VIAGGIATORI – una serie di racconti – LA SFIDA – parte 2

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La sfida 2

Alle 9.45, in perfetto orario, la nave si staccò dalla banchina. Il viaggio durava all’incirca 45 minuti; dopo essere uscita dal porto di Pozzuoli girava a sinistra e proseguiva mantenendo sulla destra la riva di Baia e di Bacoli fino a doppiare il Capo Miseno dove, virando a destra e mantenendosi a distanza dalla costa di Miliscola e del Monte di Procida, avrebbe puntato verso l’Isola di Procida.
Un percorso semplice semplice, ma quel giorno non fu così.
Non appena usciti dal porto, superato il Faro, ci si accorse che il mare non era più così tranquillo come sembrava. La nave, una delle più grandi fra quelle che circolavano su quella linea, cominciò a beccheggiare di fronte ad onde larghe ed enormi che la colpivano lateralmente. Il capitano decise di spostare la prua in direzione delle onde per poterle affrontare; il rollio commisto al beccheggio creava una combinazione maligna che in un primo tempo, ricordando alcune delle attrazioni dei Luna Park, appariva piacevole ai giovani passeggeri che scherzavano fra loro mimando gli ubriachi lasciandosi andare da una parte all’altra del ponte godendosela e ridacchiando. La nave si allargò dal Capo Miseno e si inserì verso il canale di Procida affrontando onde altissime che la portavano nella parte più bassa del ventre impedendo ai passeggeri di vedere la terra e poi la sollevavano sulle loro creste per farle ridiscendere vertiginosamente.
I giovani amici di Alberto cominciarono a spaventarsi e più di uno di loro dovette liberarsi della colazione; lo stesso Alberto era confuso e fortemente preoccupato per i suoi compagni, e qualcuno si spinse anche ad offenderlo. Il mare si calmò soltanto all’ingresso del porticciolo di Procida protetto dalla scogliera. Il gruppo, un po’ malconcio, raccattò le sue borse, dove erano state riposte le tute, le magliette ed i pantaloncini della squadra, e si preparò a scendere dalla scaletta che era stata calata sulla banchina di Procida. Si era di fronte all’imponente palazzo Merlato del ‘600 e ad una serie di abitazioni dal vario colore mediterraneo, ma la traversata aveva messo ciascuno di cattivo umore e poi tutti erano arrivati a Procida in tempi migliori. Alberto aveva lanciato già lo sguardo dall’alto della nave per cercare qualcuno dei suoi “isolani” e non ne aveva visto alcuno. Si era fermato in uno dei bar della Marina Grande ed aveva, utilizzando un gettone, telefonato a casa di Valerio, l’allenatore della squadra locale. Rispose sorprendendosi del fatto che loro fossero arrivati; chi vive circondato dal mare conosce i suoi segreti e le previsioni non erano positive: il mare andava ancor più ad agitarsi ed il rischio dell’interruzione del servizio marittimo nelle ore successive era molto elevato. Ma, visto che c’erano, disse che poiché avevano confermato il loro allenamento pomeridiano, non ci sarebbe stato alcun problema per la “sfida”, a patto però che si evitasse il gioco duro.
Si fermarono tutti a Marina Grande rifocillandosi con tè caldo al Bar del Porto; e poi si avviarono verso il piccolo autobus che era arrivato, essendo stato avvisato da Valerio. Il biglietto lo si faceva direttamente a bordo e l’autista sapeva anche dove lasciarli scendere poco prima di giungere al capolinea che era la Marina Chiaiolella. Riconobbe Alberto ed anche lui, l’autista, che si chiamava Gennaro, lo rimproverò di non aver consultato le previsioni marittime; sarebbe bastata una telefonata alla Capitaneria del Porto, anche quella di Pozzuoli. Alberto allargò le braccia per giustificarsi così come poteva e chiese a Gennaro di indicargli una trattoria alla buona per il pranzo. Erano soltanto le 11; potevano mangiare un primo ed un po’ di frutta prima di andare a giocare. L’appuntamento per la “sfida” era alle 14.30 per avviare alle 15.00 e chiudere entro le 17.00 per poter poi ripartire per Pozzuoli alle 18.00.

la sfida – fine parte 2

VIAGGIATORI – una serie di racconti – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 2

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VIAGGIATORI – una serie di racconti
PROCIDA L’ETERNO RITORNO –PARTE 2
Assaporo il mandarino strappato con voglia dall’albero; il suo sapore asprigno, il suo profumo pregante mi ravvivano da sempre ricordi di momenti lontani misteriosi archetipici ed anche per questo del tutto prerazionali; e mi provocano sensazioni uniche e mi sento un po’ – e per poco – male: insolita tristezza provata che genera poi energia creativa.
Imbocco una strada, ora di asfalto, e mi trovo su di un viottolo, erboso ai margini, rovi spinosi prorompenti nella bella stagione ed erbe della macchia mediterranea profumate più intensamente dalla pioggerella recente, acre sapore di mare salso, di sole, di terra bagnata umida tiepida ed accogliente; fin quando poi non si intravede il mare, il sole all’improvviso apparso tra gli alberi dietro i recinti murari a volte a secco che i contadini avevano costruito per delimitare i loro pezzi di terra e, dietro la leggera patina di foschia, oltre la striscia blu verde chiaro sfocata a parte ed altrove piena di faville, l’altra isola più grande che con la sua cima tra le nuvole osava toccare e sfidare il cielo.
Mi siedo là sul precipizio mantellato d’erba e rimango in silenzio a guardare: luci strane ed abbaglianti, le onde riflettono i raggi del sole al suo calar nelle onde e sembra un silente messaggio meccanico della natura.
“isciacquio, sciabordio, dolci rumori” rimango a guardare, in silenzio assorto a pensare, ed il mare culla, incanta la mia mente. In questo posto alcuni anni fa….
In questo posto non tanti anni fa, in questo posto qualche anno fa, in questo posto un anno, un mese, un giorno fa…
E’ accaduto sempre e ad ogni ritorno.
“Fore Serra”, nella terra di miei parenti, era la passeggiata nei pomeriggi di tutte le domeniche procidane. Ci andavamo tutti e come sempre davo da pensare ai miei, preoccupati che potessi scappare dalle loro mani per fare un tuffo nel mare dall’alto della collina di Punta Serra.
Ma se scappavo arrivavo fino al recinto dei maialini a tirar loro i codini contorti melmosi, a sentirli grugnire nel loro incomprensibile dialetto animalesco.
“Quella notte avevamo bevuto tanto, e mangiato per giunta in modo spropositato; la prima uva ornava le viti; mio cugino, più esperto e “padrone” del territorio, era addetto al raccolto furtivo aiutandosi al buio con le sole sue mani già abili e scaltre.. sentimmo di lontano, ma non troppo, musiche e canti, fisarmoniche e voci, grida e fresche risate, fuochi crepitare e vedemmo nel cielo senza luna e senza nuvole tre stelle cadenti ed un corpo non ben identificato, lontano, zigzagare e poi scomparire nei segreti meandri della Via Lattea. La voce della fanciulla che non mi riconosceva, e come avrebbe mai potuto, la porto nella memoria tuttora e sarebbe apparso come un avvenimento ancor più importante il giorno dopo nella mia mente. girammo intorno al fuoco ormai quasi spento, come in un rito inconscio per la delusione di essere soli, per il desiderio di avere, di possedere un bene, un amore, quella ragazza, forse!
Girammo intorno al fuoco già spento, per dirci che eravamo ubriachi, per sentircelo dire ne accentuavamo il barcollio ed il balbettio insensato, e provare quel senso di abbandono totale da incoscienti, o quasi.
E da incoscienti guidammo l’auto giù per una strada tutta curve, senza mostrare responsabilità, di notte, luci spente, come matti; e forse lo eravamo davvero. Così matti da andare poi subito a dormire, quella notte calda, senza nemmeno svestirsi, quella notte calda, accogliente, senza vento, un cielo stellato, un mare calmo, senza sorprese; a dormire quella notte, come matti; e prima avevano pianto i porcellini ancora giovani nel loro recinto, quei porcellini cui il cugino cattivo aveva anche lui voluto con più energia tirare i codini: avevano pianto e strillato forte; ma nessuno poteva sentirli, né aiutarli.
E, poi, quella ragazza che davanti al fuoco quasi spento continuava a danzare ritmi tzigani; e che non mi riconobbe.”

fine parte 2

Donna che danza

LE MIRACLE DELLE OSTRICHE DEL LAGO FUSARO – Real Casino Borbonico del Lago Fusaro (Casina Vanvitelliana) domenica 9 novembre ore 16.00

Le mie carissime amiche de “IL DIARIO DEL VIAGGIATORE” insieme ad un’altra Associazione (Corto lieto) che ancora non conosco organizzano questa interessante iniziativa. Ahimè, per diversi e seri motivi non sarò nei Campi Flegrei per queste prossime occasioni che vivrò attraverso il loro racconto.

Il diario

Domenica 9 novembre alle ore 16.00

l’Associazione CortoLieto insieme all’associazione Il Diario del Viaggiatore

Real Casino Borbonico sul lago Fusaro

“Le miracle del lago Fusaro”
Visita con letture tratte da lettere di Ferdinando IV alla moglie Carolina, e ai vigneti “La Sibilla” prospiciente al Parco monumentale di Baia.

Ho veduto molte cose al mondo, ma nulla di più bello e insieme di soddisfacente per l’anima e per i sensi” … Il sole spariva in maree sfolgoranti di colori, i canti ed i suoni d’orchestrine deliziose offrivano i momenti più spettacolari. (Principe Metternich)

La palazzina settecentesca, progettata da Carlo Vanvitelli nel 1782 fu edificata su un preesistente isolotto, e come una ninfea si apre alla natura circostante con terrazzi e ampie finestre. Ancora oggi, offre al visitatore la sensazione di trovarsi sospesi sulle acque del lago e di grande suggestione sono si presenta al tramonto con l’architettura dei riflessi.
Su richiesta e al raggiungimento di min. 15 persone possibilità anche di cenare.

Quota associativa + ingresso: 8€ oppure con
degustazione alle Cantine la Sibilla: 15€

Prenotazione obbligatoria

Info e contatti Dario Sebastiani cell.: 3385461974
cell: 3490965189 Gabriella

Associazione Il Diario Del Viaggiatore
Casina Vanvit