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Domino letterario – giovedì 22 ore 21.00 al Circolo San Paolo in via Cilea 3 – Prato Chiara Recchia presenta MAURO FONDI ed il suo libro “ANGIOLINO si doveva chiamare Benedetti”

 

 

 

AngiolinoUn libro si legge se vi è la curiosità di approfondire il tema che viene annunciato dal titolo e dalla copertina; un libro si legge perché l’autore te ne fa omaggio e ti sei impegnato a presentarlo in una delle prossime occasioni; un libro si legge perchè l’amico che lo ha letto te ne parla così bene da spingerti a farlo; un libro si legge perché dopo le primissime pagine ti prende la voglia di continuare e continuare e continuare…a leggerlo fino alla fine.  Diciamo così: il libro che Mauro mi ha portato durante uno degli incontri politici delle ultime settimane, quegli incontri ai quali si partecipa per poter capire quali speranze ha il nostro Paese, quegli incontri nei quali si entra con ottimismo ed entusiasmo e se ne esce (questo accade a me, ovviamente)  con delusioni e pessimismo, è appunto “ANGIOLINO si doveva chiamare Benedetti” che giovedì sera Chiara Recchia sotto l’occhio e l’orecchio vigile del sottoscritto presenterà al Circolo ARCI San Paolo in via Cilea 3 a Prato. Mauro ha presentato questo libro già in altre realtà cittadine e credo non solo cittadine ma io non ho avuto occasione di assistervi. Peraltro nell’ultima presentazione a “L’Hospice” in Piazza del Collegio sono arrivato ma ho preferito eclissarmi per evitare di dover ripetere qualcosa che avrei potuto sentire (sono fatto così, voglio rischiare di dire le stesse cose ma non voglio che mi si dica che ho copiato). Mauro poi si è lamentato perché nessuno gli pone critiche negative e rilievi ed allora in coda all’incontro di presentazione del libro di Giardi e Mannori alla Libreria Mondadori gliene ho proposta una: la suddivisione in quadri separati della vicenda non mi convince del tutto. Ma, per davvero, questa critica è poca cosa rispetto all’intero impianto narrativo del suo romanzo. Piuttosto avrei bloccato il titolo con ANGIOLINO e non avrei aggiunto altro.

Questo lavoro di Mauro Fondi è un tipico esempio di romanzo di “auto-Formazione” strutturato per quadri ognuno dei quali ha un titolo. Esso è il risultato di una ricerca delle proprie radici e rappresenta un utile esempio per quanti altri (e davvero ce ne sono tanti e sono ancora pochi) vogliano accingersi con modalità simili o diverse a ricostruire la propria storia, vangando e rivangando i territori del passato, quello degli antenati vicini così simili ai nostri. La storia di Angiolo ed Annunziata dalla quale prendono il via le epiche e drammatiche vicende narrate e quella dei loro figli rappresenta anche il movimento della gente comune, quella di tutti i tempi, quasi sempre – ma non solo – la più povera.

Scritto con un linguaggio piano, semplice, mai complesso o involuto, ci mostra a pieno i connotati principali di un popolo operoso nel bene o nel male (lo sfruttamento minorile o il contrabbando)  come quello toscano, ricco di quella particolare cultura  contadina che mette in evidenza la pratica del fare.

Tutti i protagonisti dai più ai meno importanti fanno emergere l’orgoglio del loro lavoro o del loro impegno sin dall’avvio del romanzo nel prologo, e via via lungo l’intero percorso della vicenda che prende inizio da una provvidenziale agnizione nel senso più classico del genere mitologico e favolistico. Mauro Fondi assume i panni ed i connotati del vecchio Ettore, un vagabondo prima per necessità e poi per scelta che assomiglia molto ai vecchi saggi narratori cha hanno fatto la storia delle contrade toscane fino agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Mauro come Ettore conduce per mano il lettore alla ricerca del passato per riportarlo poi al presente.

Non vi dico null’altro perché la storia è molto ricca ed articolata e va gustata in modo diretto.

Intanto se volete approfittare per sentirla (o risentirla) potete venire al CIRCOLO ARCI SAN PAOLO IN VIA CILEA 3 A PRATO GIOVEDI’ 22 OTTOBRE ALLE ORE 21.00 – Sarete benvenute e benvenuti!

LE BUONE NOTIZIE PRESTO O TARDI ARRIVANO

Le buone notizie presto o tardi arrivano. Ovviamente, è un punto di vista! Il mio, ma anche quello di molte altre persone: intanto cari supporters del leader anche questa è la DEMOCRAZIA, e forse solo questa lo è davvero. Il resto, fatemelo dire, è “vecchia Politica”: quella che si basa su accordi troppo spesso sottobanco con un uso smodato del “do ut des” stretti al di là di quelle che sono posizioni ideali (se “ideologiche” vi fa schifo perchè vi serve, come è servito ai berlusconiani, chiamiamole ideali); vecchia Politica usata in modo sfacciato e disinvolto al servizio di se stessi e non del popolo, come dovrebbe essere. Le buone notizie arrivano da Sesto Fiorentino, dove il Sindaco è stato sfiduciato in modo ampio dalla gran parte di coloro che avrebbero dovuto far quadrato intorno a lei. E’ molto importante sapere che quel Sindaco è stata ed è una “pedina” essenziale del “renzismo” toscano che ha preteso di fare il bello ed il cattivo tempo su quei territori, agendo da “barbari invasori” in barba alle posizioni ambientaliste emerse in tutta la Piana tra Pistoia, Prato e Firenze. Leggasi un mio post precedente su questi temi corredato anche di video sui danni che verrebbero inferti a quei territori.

“Ja’”

“Ja’” è una forma verbale apocopata che sollecita ad essere pazienti e generosi – è tipicamente campana. Oggi pomeriggio ero in un accaldato scompartimento della Metropolitana; i condizionatori funzionavano ma i passeggeri si ostinavano a tenere tutti i finestrini aperti. Una signora sollecitava qualcuno al cellulare a venire a prenderla: forse non vi era tanto entusiasmo dall’altro capo del telefono. Si parlava anche di un auto priva di benzina: “Ja’ piglia dieci euro e mitte ‘a benzina; jaaa’ ” trascicata come aiuto a sospingere meglio l’interlocutore….

Dopo il TAI in attesa della seconda parte: Carissime\i, alle prossime!

https://www.facebook.com/tuscanartindustry?fref=ts

Dopo il TAI in attesa della seconda parte: Carissime\i, alle prossime!

Il calore dell’Arte combinato con quello climatico ci ha accompagnati in questi giorni all’interno del progetto TAI (Tuscan Art Industry) organizzato da Chiara Bettazzi con la collaborazione di Saretto Cincinelli, Stefania Rinaldi e Stefano Roiz. Hanno cooperato all’iniziativa con specifiche competenze anche l’architetto Giuseppe Guanci (esperto di archeologia industriale) ed il sottoscritto (relativamente al film “Giovanna”). Per quel che mi riguarda ringrazio questi “giovani” per avermi coinvolto. La mia disponibilità è totale: mi piace essere coinvolto e coinvolgere a mia volta altri “soggetti” nella costruzione di “progetti” culturali.
Le opere esposte rivestono tutte una simbologia collegata al luogo in cui esse sono state proposte: luogo di accumulo di ricordi e di storie, di successi ed insuccessi, di vittorie e sconfitte personali e collettive, luogo di sofferenza e fatica, luogo di sorrisi e di lacrime. Ieri sera, poi, una combinazione anch’essa artistica di suoni ha chiuso la rassegna. Mentre il “folletto” Chiara si aggirava frenetico scegliendo le angolazioni “giuste” per riprendere la performance il djset Gea Brown eseguiva sui suoi innumerevoli strumenti “Concrete Horizon”. Carissime\i, alle prossime!

“LE ISOLE SI ACCENDONO” anche a Prato – 21 giugno 2015 UN’INIZIATIVA DI ALTROTEATRO ASSOCIAZIONE CULTURALE E DICEARCHIA 2008

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“LE ISOLE SI ACCENDONO” anche a Prato – 21 giugno 2015

UN’INIZIATIVA DI ALTROTEATRO ASSOCIAZIONE CULTURALE E DICEARCHIA 2008

DAL blog
Le isole si accendono

Le isole si accendono

Chi organizza
Tutti possono organizzare l’evento: nella propria abitazione, da soli o con pochi amici, nel proprio quartiere, nel proprio comune…nella propria “isola”.
Importante seguire il procedimento comune a tutti.
Importante comunicare attraverso la pagina facebook oppure sul sito www.leisolesiaccendono.tk la propria adesione. E’ importante perché tutti sappiano dove possono partecipare.

Cosa si fa

La manifestazione prevede che alle 21 del 21 giugno, solstizio d’estate, tutti gli aderenti, dopo aver acceso un fuoco (un fiammifero, il cannello del gas, un falò…) leggono un comune testo di poesia.
Di solito, i gruppi spontanei fanno di tutto: dopo aver acceso il fuoco e letto il testo “ufficiale”, c’è chi continua con letture di poesia, chi fa teatro, chi danza e chi si butta in mare, chi organizza spaghettate,chi passeggiate notturne, chi musica…..va bene qualsiasi cosa sia utile alla condivisione.

Quando
Il 21 giugno alle ore 21, giorno del solstizio d’estate

Dove
Negli anni passati ci sono stati fuochi accesi in tanti luoghi nel mondo.

Perché
L’iniziativa “Le isole si accendono” è un semplice momento di condivisione rappresentato da una lettura comune.
Per una sera le “isole” , “persone” si accendono con la luce della poesia, della letteratura e della musica.

Cosa accadrà a Prato?

Nei prossimi giorni ve lo faremo sapere…..

reloaded LUIGI RUSSI a PRATO prossimamente con il suo libro “IN PASTO AL CAPITALE”

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reloaded LUIGI RUSSI a PRATO prossimamente con il suo libro “IN PASTO AL CAPITALE”

Un libro intenso e ricco di indicazioni precise e specifiche sulla finanziarizzazione del cibo in atto da qualche decennio in tutto il mondo. Un libro “utile” per la comprensione di una parte delle dinamiche che sovraintendono all’economia globalizzata in questo avvio di XXI secolo.
Se proprio dobbiamo osservare le grandi trasformazioni in atto nella nostra società, questa del comparto “alimentare” ne evidenzia in modo stridente gli aspetti maggiormente paradossali con quelle che dovrebbero naturalmente essere le “missions” della produzione alimentare, e cioè quelle dei soddisfacimenti primari ad uso universale, come poter sfamare tutti consentendo ai più poveri di poter per lo meno accedere al minimo di sussistenza.
In un giorno che precede di poco più di una sola settimana l’avvio di EXPO 2015 (illuminata da luci e colori sgargianti e ricchi ambienti) analizziamone le contraddizioni tra “interessi” dei pochi e “bisogni” dei molti.

reloaded IN PASTO AL CAPITALE di Luigi Russi numero 2 – a breve a Prato

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Nel quarto capitolo Luigi Russi si occupa de “La speculazione sulle materie prime” seguendo il percorso perverso della speculazione in uno dei settori per “natura” “vitale”: questa vitalità è presentata già nel primo capitolo.

“…Le dinamiche che affliggono i mercati delle materie prime agricole dagli anni Duemila in poi mostrano un elevato livello di autoreferenzialità… che è una delle caratteristiche principali del sistema finanziario globale contemporaneo. Le oscillazioni dei prezzi si autoalimentano, indipendentemente dallo stato dei fondamenti economici. Di conseguenza, il cibo diventa solo un’altra attività intrappolata in una rete in cui tutto è investimento e opportunità di ricavare profitto finanziario. Quando queste dinamiche si riversano nel mondo delle variabili economiche «reali», tuttavia, gli effetti sono spesso fortemente destabilizzanti…. Più in generale, la volatilità del mercato delle materie prime agricole ha inviato – di giorno in giorno – segnali sistematicamente sbagliati ai produttori, causando talora la semina di raccolti eccessivi che restano invenduti, talaltra una sotto-coltivazione…. Questa comunque non è la fine della storia. La finanza non solo imbriglia il «cibo» in una rete di attività finanziarie tendenzialmente fungibili a fini di investimento, come esemplificato dalla speculazione diretta sui mercati finanziari. Al contrario, la logica del calcolo finanziario si fa sempre più strada nelle stanze dei bottoni delle multinazionali, diventando una delle leve che si celano dietro l’odierna riconfigurazione della produzione di «alimenti» (se tali possono ancora chiamarsi i frutti delle lavorazioni industriali).”
Nel quinto capitolo, “La riprogettazione del cibo in chiave finanziaria si parte dalla fase della “co-produzione”, che qualcuno potrebbe interpretare come “archeologica e bucolica” anche se in essa vi permane un elemento imprenditoriale di tipo familiare o interfamiliare. Infatti si accenna ad un’interazione continua e…trasformazione reciproca” prevedendo una fase di resistenza ed autonomia o di resilienza del mondo contadino. Luigi Russi analizza il profondo cambiamento intervenuto negli ultimi trenta anni nel “lavoro” contadino che ha decretato la fine di quella particolare figura a noi amica negli anni dell’infanzia (le uova, la frutta di stagione, i polli, il coniglio, etc etc etc). Si passa poi a porre in evidenza ad alcune cause di questo allontanamento, come i Regolamenti CE con norme e prescrizioni così precise da non poter essere tollerate dai limitati guadagni delle famiglie che avessero deciso di rimanere in campagna; così come la necessità di far fronte alle esigenze tecnologiche. In questi ambiti ovviamente le forti multinazionali sono riuscite ad inserirsi portando via la “terra” sia per mantenerla in abbandono sia per poterla coltivare attraverso monocolture. Così come vi si inserisce la “grande distribuzione” anche quella che ha statutariamente (ma, lo si sa, troppe volte gli Statuti sono atti di vera e propria ipocrisia) obiettivi cooperativistici.

…continua….

relaoded “IN PASTO AL CAPITALE” – prossimo incontro a PRATO con l’autore Luigi Russi parte 1

Luigi
relaoded “IN PASTO AL CAPITALE” – prossimo incontro a PRATO con l’autore Luigi Russi

“In pasto al capitale – Le mani della finanza sul cibo” di Luigi Russi è una traduzione dall’inglese di Ilaria Mardocco. Il testo originale è “Hungry Capital: “The Financialization of Food” apparso nel 2013 per i tipi di ZerO Books in Inghilterra e di ThreeRiver Publishing in India. Nella “Premessa e ringraziamenti” che segue la Prefazione di Andrea Baranes e precede la vera e propria Introduzione Luigi Russi coglie l’occasione per analizzare la genesi di questa ricerca riandando alla Fondazione “Nuto Revelli” ed al “Festival del ritorno ai luoghi abbandonati” alla quale, dice Luigi Russi, “devo la nascita del mio interesse per l’economia contadina”. E’ infatti da quella che prende le mosse l’analisi del saggio; si parte dal “capitalismo” come “sistema”, da un’analisi dello stesso termine “capitale” come “sineddoche, figura retorica per cui una parte viene utilizzata per indicare il tutto.” Luigi Russi si addentra nei meandri del capitalismo e della finanza ed in particolare analizza “il filo del rapporto tra capitale e cibo” fino al processo di finanziarizzazione che consiste nell’intervento da parte doi interessi economico-finanziari multinazionali su quel tessuto diversificato di forme di relazionalità dal basso allo scopo di assoggettarlo, dirigerlo, governarlo, prtarlo a reddito a vantaggio di poche difficilmente identificabili realtà. L’autore accosta il sistema finanziario al Leviatano di Hobbes, simbolo dello stato accentratore unidirezionale ed irreversibile. La figura del Leviatano è l’unica immagine che accompagna lo scritto ed il riferimento ad essa è frequente. Andando avanti Russi tratta dei “regimi alimentari”: il primo di essi va dalla fine del XIX secolo alla Grande Guerra e contiene “una tendenza a ristrutturare la co-produzione contadina” con “l’introduzione di tecniche industriali contribuisce a riorganizzare l’agricoltura….al fine di produrre i generi alimentari di base per i lavoratori…”; il secondo, che scollina la seconda guerra mondiale, porterà ad “un’industrializzazione onnicomprensiva dell’agricoltura, allo scopo di massimizzare la produzione di cibo”, utilizzando “un misto di input industriali, varietà ibride di semi, monocolture e irrigazione”. Il terzo regime arriva fino a noi e si caratterizza per “il peso crescente del capitale finanziario”; “lo sviluppo delle multinazionali”; quello “delle biotecnologie” e la “crescente diversificazione nella scelta del consumatore, ottenuta dalla grande distribuzione….”.
Mentre leggevo le pagine di Russi, mi fermavo e riflettevo, ricordando anche la mia infanzia nell’isola di Procida e la vita contadina degli anni Cinquanta con quei rapporti sereni, forse un po’ idealizzati dalla lontananza e dalla freschezza degli anni. Nel libro quell’epoca è lontana, ormai apparentemente irraggiungibile: è un tempo nel quale l’economia contadina era quella di base…ed allora mi sono ritornate in mente le parole di un grande, forse il più grande dei “poeti” del Novecento: Pier Paolo Pasolini.

Pasolini

“Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori — che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire — ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, che tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi.
La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l’adolescenza — malgrado qualche eccezione ch’era una meravigliosa colpa — ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.
Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza.
Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l’onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa — e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione — è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere — sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre — non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.”

EVOLUZIONI METANARRATIVE – “STORIE DELLA (MIA) GENTE” – PICCERE’ PARTE 4 – continua…

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EVOLUZIONI METANARRATIVE – “STORIE DELLA (MIA) GENTE” – PICCERE’ PARTE 4 – continua…

 

Ho pubblicato già la prima parte il 30 aprile – la seconda e terza l’ 1 di maggio – il 2 maggio una “sua” possibile variazione

Questa è la quarta parte che prosegue la “narrazione” del primo Maggio

4.

Piccerè era una ragazza timida ma era stata abituata dalla madre e dalle sorelle, che le avevano sempre dato il buon esempio, a svolgere le attività casalinghe – anche se in “campagna” queste erano caratterizzate in modo molto diverso e vario. Proprio per questo più che la pulizia degli interni (in Sicilia l’impiantito era privo di piastrelle e marmi) la sua abilità era nella cura delle piante (il terrazzo dell’ingegnere era ampio e pieno di vasi con ortensie e non mancavano due striminziti alberi di limone) e soprattutto nella cucina. La signora l’aveva accolta con un certo sussiego mascherato da un sorriso ipocrita che denotava il suo sentimento di superiorità; le aveva poi mostrato i “ferri del mestiere” e la livrea sotto forma di “spolverino da casalinga” che avrebbe dovuto indossare; aveva dato le prime indicazioni di lavoro sottolineando che quella mattina lei doveva uscire per recarsi alla Parrocchia dove l’attendevano le amiche per organizzare le loro attività. Piccerè avrebbe dovuto spolverare i mobili di alcune sale e  passare il cencio con un liquido lucidante sul parquet nel salotto. La giovane seguì con attenzione le istruzioni che terminarono con un “Non aprire a nessuno. Eugenio ha le chiavi ma non tornerà prima di me. Ci vediamo per ora di pranzo”. Piccerè avviò subito ad eseguire le indicazioni della “signora” e dopo poco più di un’ora aveva terminato il suo primo compito; si recò sul terrazzo e decise di ripulire le piante delle parti morte, di annaffiarle e poi spazzò via anche un po’ di foglie che erano cadute sull’impiantito. Ma non ci mise molto ed allora pensò che certamente i signori sarebbero stati contenti ed entrò in cucina e decise seguendo il suo istinto “contadino” di  preparare  un sugo particolarmente elaborato utilizzando tutto quello che aveva visto essere a disposizione. Usò dei pomodori maturi, immergendoli in acqua bollente e poi privandoli della buccia incisa con particolare cura e maestria; aveva trovato in uno dei frigoriferi – al suo paese nelle case dei contadini non era uso possederne – della carne macinata e l’aveva fatta soffriggere aggiungendovi una cipolla ed un gambo di sedano sminuzzati in modo sottile. Aveva poi passato i pomodori e dopo una decina di minuti li aveva aggiunti al soffritto, abbassando la fiamma al minimo necessario per mantenere il “bollo”. Intanto aveva anche trovato delle zucchine e due melanzane; le aveva tagliate con cura e aveva posto sotto sale le fette di melanzane per far loro perdere tutto l’amaro. Aveva poi cominciato a friggere in abbondante olio  le zucchine tagliate in verticale, facendo attenzione a che non cuocessero troppo; la stessa cura ebbe poi con le melanzane una volta che furono pronte dalla dessalazione. Non appena il sugo fu addensato Piccerè, che intanto aveva anche trovato due minuscole mozzarelle, ma erano utili all’idea che aveva, le sminuzzò in una terrina ed avviò a far bollire un pentolone pieno d’acqua. Aveva poi cercato la pasta più adatta tra quelle che la dispensa proponeva, scegliendo dei rigatoni. Picceré aveva più o meno rifatto un sugo che a casa sua aveva visto da sempre elaborare dalle sorelle (a lei toccava solo la manodopera “prendi questo prendi quello, taglia questo taglia quello”), una reinterpretazione molto personale della “classica pasta alla Norma” catanese. La pasta non doveva cuocere del tutto, perché un ulteriore passaggio era previsto nel forno e così dopo averla scolata non ancora del tutto al dente l’aveva disposta in un contenitore alto e profondo  di metallo sopra un letto di sugo mescolato con tocchettini di mozzarella e con le zucchine e le melanzane sfilacciate. Il tutto ricoperto da altro sugo altri pezzetti di mozzarella ed ancora formaggio e pane grattugiato e poi nel forno già caldo per un massimo di una decina di minuti, sorvegliati a vista…..

…continua…

 

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