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reloaded “AL MIO PAESE – SETTE VIZI UNA SOLA ITALIA” di Melania Petriello

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Al mio Paese - copertina

“Al mio Paese – sette vizi. Una sola Italia” di Melania Petriello 2012 Edimedia collectanea pensierolento si presenta come un’operazione molto intelligente con una struttura unitaria e compatta ma nell’insieme collettiva ed artisticamente varia e composita. Partendo dall’idea di utilizzare come “metafora” universale quella dei sette vizi capitali (ma con l’aggiunta di un Ottavo di cui la Petriello scrive ne “Dal Vizio perduto al Vizio ritrovato”) che sono la Superbia, l’Avarizia , la Lussuria, l’ Invidia, La Gola, L’ Ira, L’ Accidia tutti analizzati in interventi scritti dall’autrice-coordinatrice de “Al mio Paese”. In effetti, un Ottavo vizio era fino al VI secolo d.C. la Tristezza, ma fu “archiviata per volontà di Gregorio Magno. Nel proseguire questo intervento sull’Ottavo, la Petriello lo evidenzia come l’Impunità e, di certo, si riferisce alla realtà politica del nostro Paese. Dicevamo prima che si tratta di un’operazione collettiva ed artisticamente varia e composita. Perché? L’autrice non è sola; si è avvalsa di un gruppo forte di giornalisti ed artisti di vario genere. Intanto vi è un’introduzione che presenta l’idea, il progetto ed i diversi protagonisti che lo incarneranno, scritta con piglio deciso e battagliero facendo forza sul ruolo e la funzione della Cultura. Subito dopo viene data la parola ad uno dei giornalisti più impegnati degli ultimi decenni, Franco Di Mare che nel Prologo prova a scardinare, utilizzando i più validi esempi, la demonizzazione “tout court” dei vizi a scapito delle “virtù”.
L’Ira viene presa in carico da Vanni Truppi in “Mezzo/giorno” che ci racconta di un incontro con un anziano signore che poi si scoprirà essere uno dei maggiori meridionalisti – Nicola Zitara – durante un viaggio allucinante sui treni che dal Sud portano al Nord; e da Gianmaria Roberti in “In/Capaci” dove si analizza il “pozzo nero” colpevolmente inesplorato delle stragi mafiose (ad iniziare da quella di Capaci).
L’Invidia è affidata a Carlo Tarallo con “Monnalisa, Monnamia”; l’Avarizia verrà trattata da Luca Maurelli in “Capo di Gabinetto”; la Superbia da Giuseppe Crimaldi in “Alfa et Omega” che si lancia in un Giudizio Universale contrappuntato dal “Dies Irae”; il tema dell’Accidia è in “La camicia ripiegata” di Fausta Speranza che tratta dei ritardi della Chiesa su temi come quelli della “pedofilia”. La Gola è descritto da Tiziana Di Simone in “Consiglio Europeo, 15 dicembre” dove tratta con ironia amara il ruolo del Menu negli incontri “europei”. La Lussuria è materia analizzata da Luciano Ghelfi in “A letto con l’Italia” che sceglie di impersonare un personaggio molto importante per la Storia italiana, la contessa di Castiglione. Anche Carlo Puca tratta con modalità originalissime il vizio della Lussuria in “Re/pubbliche”.
La Petriello intervalla con suoi interventi quelli degli amici e colleghi che hanno accettato di partecipare a questa impresa. Perché mai manca l’Avarizia? E come mai non si è voluto aggiungere uno dei peggiori difetti che hanno condizionato la vita e l’esistenza dell’umanità ma, per senso di colpa (forse), non si vuole ammettere nel novero dei vizi capitali? Dove è l’IPOCRISIA?
Dicevamo composita questa operazione ed è infatti corredata da un malinconico ma vibrante epilogo scritto da Fabrizio Dal Passo a difesa della nostra Italia, di cui si sente, come tutti noi, figlio, fino a commuoversi. Ma non finisce qui. C’è anche una rielaborazione drammaturgica realizzata dalla Sezione Scuola del Teatro Eliseo ed uno short film – “Al mio Paese” scritto e diretto da Valerio Veloso che vi propongo in apertura.

Cosa dirvi di più. Leggetelo!

PRATO – OFFICINA GIOVANI – 25 NOVEMBRE – GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE – ALTROTEATRO ore 20.45

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25 NOVEMBRE – GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Questa sera ore 20.45 ad Officina Giovani agli ex Macelli Comunali di Prato l’Associazione Culturale “ALTROTEATRO” di Antonello Nave presenterà “Ricordo di un dolore” nell’ambito delle manifestazioni collegate alla Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. In un post precedente (21 novembre) accennavo alla parte dedicata all’Antologia di Spoon River. Oggi scriverò di quella dedicata ad una delle poetesse in lingua araba più importanti, Maram al-Masri, utilizzando le pagine XXXVII e XXXVIII della Introduzione che Valentina Colombo ha posto alla sua Antologia di poetesse arabe contemporanee, “Non ho peccato abbastanza”, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2007.

“La siriana Maram al-Masri non vive più nel proprio paese, bensì in Francia. Il suo successo, senza pari in Occidente, è dovuto essenzialmente alla raccolta “Ciliegia rossa su una piastrella bianca”. Il suo linguaggio è diretto e sensuale, pur non rinunciando né all’eredità della poesia araba, né all’originalità della propria voce. Le immagini affiorano e si fissano indelebili nella mente del lettore.”

“Malinconica e ironica al contempo….è riuscita in maniera eccelsa a superare la contrapposizione manichea tra tradizione e femminismo. La sua voce personale rivela al lettore un’estensione che trascende le frontiere….il talento non obbedisce ai generi…riesce a svelare l’ambiguità del mondo asessuato…”

Valentina Colombo è la massima esperta italiana di Letteratura del mondo arabo. Ha pubblicato, oltre a “Non ho peccato abbastanza” da cui sono tratti i due brani qui sopra riportati, “PAROLA DI DONNA CORPO DI DONNA – Antologia di scrittrici arabe contemporanee” Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 2005, “L’ALTRO MEDITERRANEO – Antologia di scrittori arabi del Novecento” Classici Mondadori 2004, “ISLAM Istruzioni per l’uso” Oscar Mondadori 2009, “BASTA! Musulmani contro l’estremismo islamico” 2007. E’ la traduttrice di moltissimi grandi autori della letteratura islamica, come Nagib Mahfuz, Premio Nobel 1988

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reloaded “LISARIO O IL PIACERE INFINITO DELLE DONNE” di Antonella Cilento

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Festival Pozzuoli

Alla Dragonara Schiavone e Castiglia

LE FOTO SI RIFERISCONO 1) AL LIBRO DELLA CILENTO CHE HA FATTO PARTE DELLA CINQUINA DEL PREMIO STREGA 2014; 2) FOTO DI ANTONELLA CILENTO; 3) LOGO DELL’INIZIATIVA NEI CAMPI FLEGREI; 4) MARIA CASTIGLIA assessore alla Cultura del Comune di Monte di Procida e ANGELA SCHIAVONE presidente de “IL DIARIO DEL VIAGGIATORE”

IN OCCASIONE DELLA GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE – 25 novembre – RIPROPONGO LA MIA RECENSIONE AL LIBRO “BELLISSIMO E COINVOLGENTE” DI ANTONELLA CILENTO preparata in corrispondenza con IL FESTIVAL DELLA LETTERATURA NEI CAMPI FLEGREI – LIBRI DI MARE LIBRI DI TERRA organizzato da “IL DIARIO DEL VIAGGIATORE” ASSOCIAZIONE PRESIEDUTA DA ANGELA SCHIAVONE da sempre donna impegnata nelle battaglie civili e culturali nei CAMPI FLEGREI

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“LISARIO O IL PIACERE INFINITO DELLE DONNE”

L’attualità del romanzo rimanda a temi che, forse da maschio, continuo a considerare ambigui; la violenza sulle donne così frequentemente portata agli orrori delle cronache è il risultato di un’educazione antropologica sbagliata attraverso la quale il “mondo” ha costruito dei ruoli che oggi, nel momento in cui socialmente li mettiamo in discussione, finiscono con il creare confusione e sbandamento nella mente dei più deboli (al di là del livello culturale e professionale) fra i maschi. Aggiungerei che nelle istituzioni educative (la famiglia, la scuola, il consesso civile allargato) non si è ancora riusciti a raggiungere la consapevolezza che la parità dei generi giustamente ricercata a livello legislativo ed istituzionale ha bisogno di tempi lunghi per essere realizzata e le “vicende” traumatiche cui da tempo assistiamo sgomenti ed infuriati sono parte di un percorso che ha tuttavia bisogno di ulteriori sostegni al di là delle giuste manifestazioni pubbliche cui volentieri partecipiamo. La sensibilità non si conquista con le norme legislative ma attraverso percorsi educativi naturali non imposti.

Una donna che nasce nel Seicento, non importa se nobile o popolana, se ricca o povera (ricordate la manzoniana Gertrude?), non aveva altro sbocco se non in un matrimonio e non aveva alcuna possibilità di acculturarsi al di là di insegnamenti impartiti sulle “buone maniere” e sulla qualità dei cibi e la ricchezza dei vestimenti. Lisario è una bambina, figlia di don Ilario Morales comandante della guarnigione di stanza al Castello di Baia sul Golfo di Pozzuoli, una ragazzina di 11 anni, che si ribella al “potere” della famiglia e dei maschi e si imbeve di letture in segreto, visto che alle donne era negato l’accesso alla Conoscenza ed alla Cultura. La protagonista, che solo per un attimo nel corso del romanzo conosceremo come Bellisaria, è diventata suo malgrado muta e ne conosciamo il punto di vista attraverso le riflessioni scritte segretamente su fogli recuperati qua e là. Antonella Cilento, autrice del romanzo, infatti vi inserisce ad intervalli abbastanza precisi le “Lettere” di Lisario indirizzate “alla Signora Santissima della Corona delle Sette Spine Immacolata Assunta e Semprevergine Maria”. La giovanissima donna, di fronte alla possibilità di andare “sposa di un vecchio bavoso e gottoso”, trova un modo tutto suo di protestare, negandosi provvisoriamente alla vita e cadendo in un sonno profondo. Ed è così che prende avvio il romanzo. Ho già scritto che si tratta di libro avvincente nella sua narrazione rapida e nella sua struttura per capitoli e paragrafi che appaiono, a chi, come me, è avvezzo a trattar di Cinema e Teatro, come Scene pronte ad essere trasformate in immagini. Ma ne parlerò dopo. L’ambientazione è in una Napoli cupa, buia, resa insicura da rivolte ed epidemie, dove si muovono personaggi di alto livello artistico insieme a malfattori, delinquenti, mistificatori ed avventurieri di ogni specie e provenienza; è la Napoli dove c’è il segno di Caravaggio, la presenza di Ribera; è la Napoli dove arrivano artisti come il francese Jacques Israel Colmar, il fiammingo Michael de Sweerts (questi, entrambi protagonisti di primo piano del romanzo di cui si parla), il valenciano Juan Dò; ed è la Napoli di Masaniello e dei Vicerè; la Napoli nella quale si rappresentano melodrammi interpretati da “voci bianche” nelle parti femminili; è la Napoli delle prostitute di basso e di alto rango ed è la Napoli dei “femminielli” e degli ermafroditi; la Napoli che crede ai miracoli non avendo nella realtà molto di cui essere felice. In questo ambiente meschino ancorché aristocratico e culturalmente, in senso potenziale, elevato si muove la vicenda di Lisario e la profonda incapacità da parte dei maschi di poter accettare l’incredibile scoperta che il catalano, medico di scarsi scrupoli, Avicente Iguelmano compie dapprima spiando la giovane moglie, per l’appunto Lisario (tralascio, benchè significative le modalità con cui Avicente conosce e sposa la giovane), e successivamente leggendo alcune pagine di un libro sui “piaceri solitari” reperito nella ricca Biblioteca di un signorotto locale, Tonno d’Agnolo, degno rappresentante della spregevole classe politica di ogni tempo, rozzo procacciatore di amanti per gli ambienti del vicereame spagnolo.
In quelle pagine per l’appunto si leggevano “cose che gli parevano impossibili. Bugie senza fondamento”. La storia si dipana concedendo deviazioni e colpi di scena coinvolgenti fino alla conclusione. E’ un libro, lo ripeto, che mi ha ridato fiducia verso le nuove generazioni di autori letterari e non è un caso che l’autore in questione sia una donna. Nelle presentazioni pubbliche del romanzo si sottolinea giustamente, in un punto di vista femminile, la modernità dell’argomento: la protagonista, pur oppressa da una società (quella del Seicento) profondamente maschilista, emerge in ogni senso e sconfigge i limiti imposti, prima di tutto quegli stessi relativi alla mancanza della “voce”. Ed è infatti dalla “voce” di Psiche nell’ ultimo paragrafo del romanzo che prenderei il via se dovessi scrivere, come sempre vado pensando mentre leggo, una sceneggiatura. Dalla voce di Psiche che sconvolge il “vecchio e malandato” Avicente inondandolo di infiniti malinconici ricordi farei partire il tutto; perché è quello il momento in cui tutto ha un senso.

JOSHUA MADALON alias GIUSEPPE MADDALUNO

GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE – RICORDO DI UN DOLORE – ALTROTEATRO a Prato – OFFICINA GIOVANI martedì 25 novembre ore 20.45

 

 

 

Violenza

 

25 NOVEMBRE – GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE – OFFICINA GIOVANI ORE 20.45  PRATO

Martedì 25 novembre sarà dedicata alla Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Anche a Prato come in tante altre città, piccole, medie e grandi si svolgeranno iniziative culturali per sensibilizzare soprattutto ma non solo le giovani generazioni e per approfondirne gli aspetti. Organizzato dal Comune di Prato – Assessorato Pari Opportunità ad Officina Giovani alle ore 20.45  l’Associazione Culturale ALTROTEATRO proporrà un suo specifico intervento, recuperando una parte dello spettacolo scritto e diretto lo scorso anno da Antonello Nave ed andato in scena fra il “Metastasio” ed il “Magnolfi”. Si parla di “Ricordo di un dolore – Per Minerva Jones e (molte) altre su testi di Edgar Lee Masters, Maram al-Masri, Claudia Fofi interpretato da Benedetta Tosi, Eugenio Nocciolini, M.Chiara carotenuto – Giulia Risaliti – Alessandra Macaluso – Simona Margheri con l’accompagnamento musicale di Antonio Lombardi – Giancarlo Rossi – Vincenzo santaniello – Francesca Vannucci.

La seconda e la terza parte si avvarrà delle testimonianze prodotte dal Centro Antiviolenza “La Nara”.

La scrittura scenica e la regia sono sempre di Antonello Nave

Minerva Jones è uno dei tanti personaggi presenti nell’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters

I AM Minerva, the village poetess,

Hooted at, jeered at by the Yahoos of the street

For my heavy body, cock-eye, and rolling walk,

And all the more when “Butch” Weldy

Captured me after a brutal hunt.

He left me to my fate with Doctor Meyers;

And I sank into death, growing numb from the feet up,

Like one stepping deeper and deeper into a stream of ice.

Will some one go to the village newspaper,

And gather into a book the verses I wrote?–

I thirsted so for love

I hungered so for life!
Sono Minerva, la poetessa del villaggio,
fischiata, schernita dagli Yahoos della strada
per il mio corpo goffo, l’occhio guercio, il passo barcollante,
e tanto più quando «Butch» Weldy
mi prese dopo una caccia bestiale.
M’abbandonò al mio destino dal dottor Meyers;
e sprofondai nella morte, col gelo che mi saliva dai piedi,
come a chi s’immerga più e più in un fiume di ghiaccio.
C’è qualcuno che vada al giornale,
e raccolga in un libro i versi che scrissi?
Ero così assetata d’amore!
Ero così affamata di vita!

 

Dell’iniziativa si parla anche in un evento Facebook  il cui link è qui sotto riprodotto:

https://www.facebook.com/events/1528819030708679/?fref=ts

 

 

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Altroteatro

“MA L’IDEA CHE E’ IN ME…” OMAGGIO A GIACOMO MATTEOTTI – Circolo Matteotti via Verdi 30 Prato lunedì 17 novembre ore 21.00

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Conosco Antonello Nave da una quindicina d’anni; è stato fra i più validi docenti di mia figlia Lavinia ed è uomo colto e curioso, preciso e profondo nella sua attività professionale così come in quella artistica. Insieme a lui ho realizzato alcuni incontri culturali, primo fra tutti quello dedicato ad Oreste Chilleri, scultore autore di monumenti funebri alla cui figura ha dedicato alcuni suoi scritti; successivamente la nostra collaborazione è evidente nel mio videodocumentario “Appunti sull’umana tragedia del XX secolo” dedicata alla persecuzione ed al genocidio degli Ebrei da parte dei nazifascisti.
Antonello ha qualche giorno fa detto che l’attività del suo gruppo “Altroteatro” ha avuto inizio, forse intendeva dire a Prato, con la messa in scena di una sua proposta proprio nella Circoscrizione Est al tempo in cui vi ricoprivo la carica di Presidente della Commissione Cultura.
Quest’anno con Antonello abbiamo riavviato i rapporti con un’iniziativa che si collegava alle figure di due personaggi importanti del Cinema d’autore, Vigo e Truffaut, in occasione degli 80 e 30 anni dalla loro scomparsa.
Ho sempre seguito Antonello in questi anni e dunque non mi poteva sfuggire l’Omaggio a Giacomo Matteotti che, a 90 anni dal suo assassinio, egli ha voluto, con la solita precisione meticolosa e metodica, dedicare a questo grande personaggio della nostra Storia. Ne ho accennato al Segretario del Partito Socialista di Prato, Alessandro Michelozzi, proponendogli un’iniziativa da svolgere all’interno del Circolo “Matteotti” in via Verdi 30 a Prato (di fronte al Teatro Metastasio). L’amicizia e l’interesse culturale e politico comune ha fatto il resto. Ed è così che lunedì 17 novembre alle ore 21.00 Altroteatro rappresenterà all’interno del Circolo Matteotti “Ma l’idea che è in me…” Omaggio a Giacomo Matteotti interpretato da Benedetta Tosi ed Eugenio Nocciolini con l’accompagnamento musicale e canto di Antonio Lombardi, Vincenzo Santaniello e Francesca Vannucci. La scrittura scenica e la regia sono, ovviamente, di Antonello Nave. All’iniziativa interverranno Riccardo Nencini, viceministro Infrastrutture e Trasporti oltre che Segretario nazionale del PSI, e Matteo Biffoni, Sindaco della città di Prato. Da sottolineare la grande disponibilità che è stata concessa da parte della Presidenza del Teatro Metastasio (un grazie sentito e dovuto al Presidente Massimo Bressan) che ha cooperato per la parte tecnica alla riuscita dell’iniziativa.
Il titolo dell’elaborazione scenica si riferisce ad una delle frasi profetiche del suo destino pronunciate da Giacomo Matteotti (Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai ) dopo la sua denuncia alla Camera dei Deputati relativa ai brogli, le violenze, i soprusi e le irregolarità che i fascisti avevano attuato nel corso delle elezioni del 6 aprile. Era il 24 maggio del 1924. Il 10 giugno Matteotti fu rapito ed ucciso. Il 3 gennaio dell’anno successivo Benito Mussolini assunse su di sé la piena responsabilità del delitto.

L’INIZIATIVA E’ PUBBLICA E L’INGRESSO “LIBERO” SARA’ CONSENTITO FINO ALLA COPERTURA DEI POSTI DISPONIBILI

La prima di questo lavoro si è tenuta a Rovigo nel chiostro San Bartolomeo lo scorso 6 settembre – eccone la locandina

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Questa invece è la locandina dell’iniziativa di Prato

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reloaded TERRE(E)MOTI DEL CUORE – IL RACCONTO DEL RICORDO (SUL BRADISISMO FLEGREO DEL 1970 E 1983)

Rionew Terra

QUESTO ARTICOLO E’ STATO PUBBLICATO DA ME LO SCORSO 9 GIUGNO 2014 SU POLITICSBLOG.IT

I legami con Pozzuoli sono stati, in questi ultimi quaranta anni, essenzialmente episodici. Fondamentalmente ho lavorato con intensità passionale, e ne porto addosso profonde ferite, sul territorio toscano dopo una parentesi veneta che pure ha dato i suoi frutti. Fra questi legami, al di là degli affetti familiari, pongo in posizione prevalente quello con Oscar Poerio che, negli anni Novanta, da Assessore alle politiche Sociali del Comune di Pozzuoli (credo rivestisse anche incarico di vice Sindaco) venne a “studiare” alcuni interventi dell’Amministrazione comunale pratese (allora era, a Prato, Assessore Alessandro Venturi) in materia di edilizia scolastica “primaria”. Oscar notò come da noi in Toscana le scuole fossero state pensate e costruite con delle grandi vetrate che lasciavano intravvedere dall’esterno le attività che si svolgevano all’interno di esse.
Non è un caso, dunque, che con Oscar si sia poi mantenuto un rapporto positivo anche se non continuativo ed intenso, e non è un caso che, ritornando di recente più spesso in terra flegrea, è con lui, forse più di altri, che io abbia attivato un legame profondo dal punto di vista culturale. Oscar mi parla dell’Archivio Vescovile e di Città Meridiana; mi parla di un Festival delle Idee Politiche (FIP è l’acronimo identificativo) che, insieme ad alcune amiche ed amici, sta organizzando ed io, che di Pane e Politica oltre che di Cultura ho vissuto finora soprattutto idealmente, accendo su questi temi il mio interesse. Mi piace peraltro questo accostamento a prima vista quasi irriverente fra il sacro dell’ideologia (le Idee politiche) ed il profano del nazional-popolare (Festival). Ed il mio interesse ha radici profonde nell’elaborazione di un Progetto di Sinistra che, partendo dall’esistente, lo superi con una rigenerazione post ideologica che si basi sullo sperimentalismo democratico e sulla mobilitazione cognitiva di cui parla negli ultimi tempi Fabrizio Barca. In effetti mi interessa moltissimo ( I care ) l’idea ma, per una serie di concomitanze, non riuscirò a partecipare. Non rinuncio tuttavia a mandare, via posta elettronica, uno dei progetti su cui sto lavorando. Oscar mi parla anche di un’iniziativa svolta lo scorso anno da Città Meridiana. Conosce la mia passione per il Cinema e per la “documentazione antropologica” e mi accenna ad un filmato, “Sud come Nord” (1957) di Nelo Risi presentato sempre lo scorso anno dalla sua Associazione nel corso di una delle iniziative. Gli dico che non lo conosco, anche se poi, da frequentatore di youtube, ricordo di averlo visto nel mentre ricercavo filmati su Pozzuoli e sull’Olivetti. E poi fa riferimento ad una pubblicazione di cui, dice, mi farà dono.
Si tratta di un “percorso nella memoria individuale e necessariamente collettiva riferito agli anni del “bradisismo” (il 1970 ed il 1983). Gli dico di avere già visto di recente alcuni video di “Lux in fabula”, un’associazione molto attiva nel recupero di riprese private e pubbliche audiovisive sul passato flegreo. Riparto per Prato sapendo di ritornare a breve. Ed è così che in questa fine di maggio, dopo l’esaltante vittoria del Centropd, ritornato a Pozzuoli, Oscar e Regina sua moglie, approfittando di una delle mie iniziative, sono venuti a trovarmi. E’ venuto lui; io non sono ancora riuscito ad andare da lui, in Archivio, come più volte ho promesso di fare. E mi ha portato il libro. Il titolo mi colpisce TERREEMOTI DEL CUORE Il racconto del ricordo. CINQUE PAROLE CHIAVE cinque tag fondanti. E dentro nella prima pagina di copertina anche una dedica “significante” che recupera alcuni lemmi e spinge me ad inoltrarmi fra le altre pagine. Ritrovare “fatti, persone e moti del cuore” perché risveglino in me “ricordi mai cancellati”: è questo l’auspicio di Oscar. Con affanno e voracità scorro rapidamente il libro con gli occhi e col cuore innanzitutto alla ricerca di nomi e volti noti collegati ad esperienze comuni, tutte amiche ed amici della “bella gioventù”.
Il bradisismo, quello del 1970, sconvolse i nostri destini con una diaspora tentacolare: era, quello, un tempo difficilmente spiegabile a chi soprattutto è nato e vissuto dopo quegli anni. Come si fa a raccontare ai nostri giovani cybernauti e sacerdoti di Android che, per nessun motivo al mondo avremmo avuto modo allora di relazionarci costantemente – come riusciamo a fare adesso – con le amiche e gli amici con cui fin a qualche giorno od ora prima avevamo vissuto gomito a gomito. Anche le diverse lontananze incisero creando storie nuove, nuove amicizie, nuove solitudini e qualche volta nuovi amori. L’evento di bradisismo del 1983 mi ha visto già cittadino di altra Regione, dal 1975 ero andato via da Pozzuoli, dove nel 1972 avevamo festeggiato i 2500 anni dalla sua fondazione, e nel 1983 ho vissuto le “storie”, di cui ho letto nel libro, anche dai racconti dei “miei”, che erano ritornati a Mondragone ma non nella casa dove ero stato con loro nel 1970, quando avevamo abbandonato la nostra abitazione di via Girone soltanto per prudenza.
Ma non voglio aggiungere un capitolo al libro che ho trovato estremamente vario e ricco e mi ha consentito davvero di ritrovare in un solo unico contesto quelle sensazioni comuni ma diverse che ciascuno dei protagonisti lì dentro presenti ha vissuto; di ritrovare nomi e volti a volte provvisoriamente dimenticati ma che – ora – vorresti incontrare nuovamente per intrecciare percorsi fertili comuni. Tanti nomi; non posso sceglierne solo alcuni; farei torti incomprensibili, ingenerosi ed ingiusti. Ho una matrice culturale di tipo “antropologico” che mi spinge ad indagare sulle “storie” umane e questa raccolta di “storie” mi ha coinvolto appassionatamente. Non amo da qualche tempo l’approccio meramente politico; lo trovo sempre più arido e colmo di ipocrisie. Ad ogni buon conto concluderei questo “racconto” sotto forma di “commento” (o commento sotto forma di racconto, fate voi!): nel 1972 pubblicai, a mie spese, un lungo racconto accanto ad uno breve, bellissimo ed intenso, del mio amico Raffaele Adinolfi. Era, quello mio, un racconto anomalo fatto di un pretesto di partenza (un breve viaggio a Ponza) ma con una lunghissima serie di rimandi “logici” (per me lo erano di certo, per gli altri ho qualche dubbio lo fossero). In una di queste pagine c’è la mia “memoria” di quel distacco del 1970.

J.M.
Immagine mia

LE MIRACLE DELLE OSTRICHE DEL LAGO FUSARO – Real Casino Borbonico del Lago Fusaro (Casina Vanvitelliana) domenica 9 novembre ore 16.00

Le mie carissime amiche de “IL DIARIO DEL VIAGGIATORE” insieme ad un’altra Associazione (Corto lieto) che ancora non conosco organizzano questa interessante iniziativa. Ahimè, per diversi e seri motivi non sarò nei Campi Flegrei per queste prossime occasioni che vivrò attraverso il loro racconto.

Il diario

Domenica 9 novembre alle ore 16.00

l’Associazione CortoLieto insieme all’associazione Il Diario del Viaggiatore

Real Casino Borbonico sul lago Fusaro

“Le miracle del lago Fusaro”
Visita con letture tratte da lettere di Ferdinando IV alla moglie Carolina, e ai vigneti “La Sibilla” prospiciente al Parco monumentale di Baia.

Ho veduto molte cose al mondo, ma nulla di più bello e insieme di soddisfacente per l’anima e per i sensi” … Il sole spariva in maree sfolgoranti di colori, i canti ed i suoni d’orchestrine deliziose offrivano i momenti più spettacolari. (Principe Metternich)

La palazzina settecentesca, progettata da Carlo Vanvitelli nel 1782 fu edificata su un preesistente isolotto, e come una ninfea si apre alla natura circostante con terrazzi e ampie finestre. Ancora oggi, offre al visitatore la sensazione di trovarsi sospesi sulle acque del lago e di grande suggestione sono si presenta al tramonto con l’architettura dei riflessi.
Su richiesta e al raggiungimento di min. 15 persone possibilità anche di cenare.

Quota associativa + ingresso: 8€ oppure con
degustazione alle Cantine la Sibilla: 15€

Prenotazione obbligatoria

Info e contatti Dario Sebastiani cell.: 3385461974
cell: 3490965189 Gabriella

Associazione Il Diario Del Viaggiatore
Casina Vanvit

reloaded “BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” di Federica Nerini

Federica Nerini

Pasolini

 

“BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” (Pasolini)

Di Federica Nerini

“Malinconia” di Eduard Munch rappresenta la prima opera simbolista del pittore norvegese. Il quadro è stato dipinto nel 1892 dopo una difficile delusione d’amore, la quale procurò all’artista una delle tante crisi depressive e di panico. L’uomo in primo piano rappresenta l’eroe moderno per eccellenza, che patisce le sofferenze e i sentimenti provati ogni giorno dall’intera umanità. I pensieri si tramutano in sassi pesantissimi, che circondano in modo asfissiante il protagonista; i granelli di sabbia simboleggiano il “tempo incalcolabile”: ore, minuti e secondi indistinguibili gli uni dagli altri, una volta bagnati e miscelati dalla spuma marina. La spiaggia si confonde con la riva, fondendosi con essa diventa un’unica sostanza e forma. Il cielo riprende gli stessi colori delle acque nordiche e glaciali, riecheggiando l’algida amarezza che il pittore aveva nei confronti della vita e del destino. Munch era un uomo che aveva sofferto tanto: solitario, infelice, inerme e sfibrato, aveva provato fino alla morte a realizzare il desiderio di rottura con quella “Solitudine” tanto odiata ed agognata, non riuscendoci. Ecco perché il Pensatore “munchiano”, come la statua “rodiniana” è avvolto da un flusso cementario, che non gli permetterà mai di raggiungere una dinamicità flessibile, per cogliere l’effimera felicità dei due personaggi appena percettibili sullo sfondo.

Ed è proprio la solitudine la condizione ineffabile che trascina l’uomo nel mondo della sofferenza e della drammaticità. La solitudine si sa, non possono assaporarla tutti allo stesso modo, ognuno reagisce in maniera diversa: per alcuni è rigenerativa, si pensi (ad esempio) agli “anacoreti zarathustriani”; per altri è insopportabile, basti ricordare i depressi colpiti dal disturbo bipolare. Ovviamente, la domanda sorge spontanea: “Come è possibile che una condizione dell’anima donata dal Signore, nella sua più complessa ed inverosimile “unicità relativa” non è uguale per tutti?”. La risposta è molto semplice, perché come dice Pasolini: “bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune”. È necessario “avere buone gambe”, poiché l’uomo deve camminare “solo et pensoso i più deserti campi” sempre con “passi tardi et lenti”, fino a percorrere le zone più sconosciute di questo universo impercettibile, pur di far staccare la solitudine dall’anima, come un’ostrica da una conchiglia. Inoltre, è giocoforza avere “una resistenza fuori dal comune”: solo “resistendo”, si può sopportare ed amare l’emarginazione volontaria.

Ma dopo “una camminata senza fine per le strade povere”, declama Pasolini, “bisogna essere disgraziati e forti” come i “fratelli dei cani”. Proprio nell’ultimo verso, il poeta bolognese utilizza il simbolo emblematico del “cane”, l’animale per antonomasia che personifica con grande orgoglio e condanna l’imperitura solitudine. Ed ecco che il mondo governato dall’umanità si trasforma nel canile più insopportabile, dove ogni “disgraziato” ama fugare dal proprio corpo, quando invece ognuno deve elaborare i pensieri per essere libero (o forse no).

Francesco Petrarca nella sua celeberrima poesia “Solo et pensoso” afferma che nonostante non sappia cercare “sì aspre vie né sì selvagge”, non c’è nessun luogo “ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co llui”. Sebbene ricerchiamo la solitudine in ogni piccolo attimo della nostra esistenza e in ogni luogo, è umanamente impossibile abbandonare i pensieri che ci affliggono quotidianamente, poiché ci sono forze psichiche ben più forti dell’isolamento, come l’amore (che tanto tormenta il Petrarca), o semplicemente la straordinaria essenza della riflessione della nostra mente. Per sillogismo aristotelico, quindi, non siamo mai soli, pensiamo di esserlo, mentre non lo siamo minimamente.

Ci solo alcuni poeti, scrittori e filosofi famosi che se non fossero stati soli per tutta la vita, non avrebbero ricevuto quella sfavillante “eternità letteraria” che tengono ben stretta tra le mani, le stesse con cui hanno scritto fiumi di parole memorabili. Non conoscendo la solitudine, non avrebbero mai capito chi erano veramente. “Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”, questi versi che appartengono a  Giacomo Leopardi urlano di dolore, un dolore: esistenziale, interno, immenso, pieno di angoscia libidica e ricco di un tormento spaesante. Attraverso l’isolamento esistenziale c’è la scissione tra l’istanza del suo “Io” fragile e la sua essenza; Leopardi si è perso nei meandri concentrici della sua anima vulnerabile, per questo non conosce più se stesso. Allora può la solitudine creare questo effetto? Prima ci demolisce e poi ci ordina di capire chi siamo veramente? Io penso di sì, altrimenti un genio indiscusso come Leopardi non si interessava mai a lei. D’altronde è un modo non facile per conoscersi.

Cosa si può trovare attraverso la solitudine? Proust ha ricercato il suo “tempo perduto”, Kafka il suo “silenzio rigeneratore”, Joyce il suo “flusso di coscienza”, Flaubert le sue bramate “metafore”, Tasso la sua “follia”, Ariosto il suo “Orlando”, Dante la sua “Commedia”, Shakespeare il suo “Amleto”, Schnitzler il suo “doppio sogno”, Conrad il suo “cuore di tenebra”, Bulgakov la sua “Margherita”, Stevenson il suo “doppio”, Woolf il suo “suicidio”, Baudelaire il suo “Spleen”, Sartre la sua “nausea”, Pirandello sua “moglie”, D’Annunzio la sua “vecchiaia”, Svevo la sua “ultima sigaretta”, Nabokov la sua “Lolita”, Dostoevskij la sua “bellezza conquistatrice”, Tolstoj la sua “Anna”, Goethe il suo “Mefistofele memorabile”, Foscolo la sua “Patria”, Petrarca la sua “Laura”, Leopardi il suo “Ego”, ed io la mia fine, perché: sto “sola sul cuor della terra trafitta da un raggio di sole”. Sarà subito sera.

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Auguste Rodin ed “Il pensatore”

 

Leggi il contributo di Massimo Sannelli su      pasolini.net

http://www.pasolini.net/contr_sannelli-solitudine.htm

Pierpaolo Pasolini
Senza di te tornavo
Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

PASSIONE VIGOTRUFFAUT – PozzuoliPrato – L’analisi di Federica Nerini

A Pozzuoli l’iniziativa che abbiamo svolto presso l’Associazione “Lux in Fabula” ha visto la partecipazione e l’intervento di Germana Volpe, Roberto Volpe e Emma Prisco (autrice di un video che presenterò anche a Prato giovedì prossimo 30 ottobre ore 15.00 presso il Liceo “Cicognini”). L’intervento conclusivo è stato quello di Federica Nerini, la più giovane del Gruppo. Ve lo propongo.

Federica Nerini

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Germana Volpe

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Roberto Volpe

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Emma Prisco

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CONFERENZA: “Passione Vigo/Truffaut”.
Il mio studio non è una apologia della Psicoanalisi freudiana, né un lavoro scientifico, ma un elaborato creato per farvi capire come le nostre azioni siano condizionate da eventi, esperienze, attimi e soprattutto da traumi, che l’uomo ha vissuto nel corso della sua esistenza. A volte siamo malinconici, talvolta felici, in altri tempi nostalgici, sebbene non riusciamo a capire il perché. Noi siamo dotati di una FORZA OSCURA (inconscio), che manovra le nostre azioni grazie a delle istanze psichiche guidate dalla rimozione: i RICORDI RIMOSSI ci governano. NOI SIAMO CIO’ CHE VIVIAMO. Quindi siamo totalmente schiavi di noi stessi, solo che non ce ne accorgiamo. Ho studiato libri che raccontavano la biografia di questi due registi francesi, ho analizzato i film scoprendo le diverse tecniche e sfumature cinematografiche, dopo aver letto le sceneggiature sono poi arrivata ad una conclusione: l’INFANZIA e la FIGURA del PADRE sono entrambe fondamentali per aver segnato psicologicamente l’attività d’astrazione dei due cineasti. Ora analizzeremo questi due aspetti affascinanti per capire i loro concepimenti creativi:
L’infanzia di François Truffaut è un’infanzia difficile. La madre partorirà a diciotto anni, in un primo momento lo alleverà una balia, poi verrà cresciuto dalla nonna materna. Sarà lei ad accudirlo e a insegnargli l’educazione infantile. Successivamente la madre si sposerà con un certo Roland Truffaut, un designer industriale che darà il cognome al bambino nonostante non sia il padre biologico. Il piccolo François quindi crescerà con il malessere e la consapevolezza di non aver mai conosciuto il suo vero padre biologico, e di non essere un bambino come gli altri. La madre non l’allatterà mai “mostrando la più alta forma d’amore verso il figlio dando in dono se stessa”. La madre ama il suo bambino perché è la sua creatura e non perché abbia fatto qualcosa per meritarselo (archetipo junghiano). L’amore materno è incondizionato, mentre l’ amore paterno è condizionato. La concezione dell’amore materno può essere spiegata con la storia biblica della creazione. La terra promessa (simbolo di madre) è descritta come “traboccante di latte e miele”. Il LATTE è simbolo delle cure che la madre dà al bambino, mentre il MIELE allude alla dolcezza della vita, la felicità di sentirsi vivi. Quindi per essere una brava mamma bisogna dare sia del latte, sia del miele. Ma non sempre è così. Se il bambino non vive questo meccanismo, sarà turbato da un trauma per tutta la vita. Possiamo studiare varie scene de “I 400 colpi” (capolavoro autobiografico), in cui il piccolo Antoine è sofferente, non vivendo un’infanzia normale. Antoine alla psicologa in riformatorio dice: “All’inizio mi avevano affidato ad una balia; poi quando sono mancati i soldi, mi hanno mandato da mia nonna… quando lei è diventata troppo vecchia per tenermi, allora sono tornato dai miei genitori, in quel momento, avevo già otto anni, mi sono accorto che mia madre non mi voleva bene, lei avrebbe voluto abortire”. E ancora in “Non drammatizziamo è solo questione di corna” egli afferma ad un amico: “Io non mi innamoro di una ragazza in particolare, io mi innamoro di tutta la famiglia: il padre, la madre… mi piacciono le ragazze che hanno genitori gentili. Adoro i genitori degli altri, insomma!”.
Il personaggio di Truffaut, Antoine avrà sempre la mancanza di non essere stato amato nella prima parte della sua infanzia, generando un disturbo della sfera affettiva. “L’uomo che amava le donne” in realtà non ne amava neanche una, poiché non avendo avuto l’amore necessario nell’infanzia (periodo fondamentale per la formazione della personalità individuale) vorrà o conquistarsi l’amore degli altri, oppure realizzare il desiderio insoddisfatto di essere amato sempre in ogni singolo momento della propria esistenza. LA MANCANZA DEVE ESSERE COLMATA DALL’AMORE. Antoine (l’alter ego di Truffaut) non amerà mai le donne, ma sarà innamorato solamente dalla loro immagine. Pessoa infatti afferma: “Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo”. Non sarà mai convinto pienamente del proprio amore, poiché è incapace di amare una donna. Quando l’uomo è innamorato sogna la perfezione e si illude di averla sfiorata con la propria partner. In realtà non è mai così. Io faccio sempre l’esempio dei templi Aztechi che non puntavano alla perfezione, solo per la paura di non competere con la grandezza di Dio. Gli operai lasciavano sempre un angolo incompiuto, affinché il tempio fosse imperfetto. Ecco l’amore è così, prima pensiamo di aver toccato il cielo con un dito, poi scopriamo dopo l’infatuazione l’effettiva imperfezione del nostro partner, esplorando l’angolo oscuro.
È famosa la frase pronunciata da Antoine in “Non drammatizziamo è solo questione di corna”, quando dopo aver tradito la moglie Christine egli dice con una battuta di tipo felliniano: “Tu sei la mia sorellina, tu sei mia figlia, tu sei mia madre…”; Christine risponde: “Avrei voluto essere anche tua moglie”. Questi cinque film rappresentano la formazione o disgregazione di un personaggio dall’infanzia ai trent’anni. Fitzgerald diceva “la vita intera è un processo di demolizione” e aveva ragione. Poiché un personaggio in fuga non riesce a convivere con se stesso e con gli altri, avendo il terrore di amare e di essere amato.
Con Jean Vigo si ha la mancanza di una figura paterna effettiva, fino ad arrivare a “mitizzarla” a sua volta. Miguel Almereyda era una anarchico scomodo, ha cercato di diventare chiunque nella sua vita, tutto tranne che un padre. Il piccolo Jean è macchiato dalla colpa di essere il figlio di un rivoluzionario, che non conoscerà mai. Morto il padre, la madre non avendo i mezzi per mantenerlo lo affidò a Gabriel Aubès, il marito della nonna paterna. In altre parole il signor Aubès non era neanche suo nonno, ma fu l’unico che si occuperà di lui. Vigo sarà tormentato sempre dall’idea dell’abbandono della madre per tutta la vita. Infatti nel suo diario scriveva: “Penso che io non sia mai stato amato da mia madre, per questo sono stato abbandonato”. Successivamente passerà da un Collegio francese all’altro, nascondendo anche la sua identità, questo lo turberà profondamente per sempre. Il corto “Zero in Condotta” rappresenta l’esorcizzazione di un’infanzia: triste, malinconica, difficile e nostalgica. Voleva avere al di là del Collegio anche lui una famiglia normale, come tutti. Inoltre, sarà tormentato dall’idea della morte in tutto il corso della sua esistenza; il padre è morto in circostanze misteriose, ucciso da alcuni cospiratori. Molti pensano che sia stato soffocato con dei lacci delle scarpe, facendo pressione con la spalliera del letto. Questa mancanza affettiva paterna verrà cercata spesso in qualunque uomo, pur di riempire il ricordo. Possiamo ritrovare una figura del padre nel personaggio di “père Jules” dell’Atalante in tutta la sua polimorfica potenzialità espressiva. Personaggio malinconico, ricco di esperienze, estremo viaggiatore, si occuperà di Jean quando Juliette scapperà dalla chiatta e non riuscirà più a vivere per la tristezza. Sarà père Jules ad andare a riprendere Juliette per riportarla sull’Atalante.
Ciò che ci deve maggiormente far riflettere è che anche qui nel capolavoro di Vigo la concezione dell’amore viene idealizzato all’interno di un’ immagine. Mi riferisco per esempio alla sequenza in cui i due sposi separati spazialmente – lei in una stanza d’albergo sulla terraferma e lui nella cabina della chiatta che scorre sull’acqua si cercano a colpi di dissolvenze incrociate. Lo sposo riuscirà a superare la solitudine immergendosi nell’acqua del fiume per rivedere la donna amata. Ed ecco che c’è un connubio di immagini, sensazioni ed idee, che nascono dalla spinta di Jean di cercare l’immagine sensuale ed erotica di Juliette. Gettandosi nel fiume inconsciamente aumenterà il suo spirito narcisistico, guardando la sua immagine riflessa.
Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo. (Pessoa).

reloaded POZZUOLI – CIRCOLO NAUTICO SAN MARCO – alla ricerca di vecchi amici

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Pozzuoli – CIRCOLO NAUTICO SAN MARCO – alla ricerca di vecchi amici
LE NUOVE PASSEGGIATE NEI CAMPI FLEGREI (dopo più di quaranta anni)

Chi arrivava al porto di Pozzuoli scendendo dall’Annunziata e percorrendo il bordo dei resti del Tempio di Serapide si trovava di fronte fino a pochi anni fa una zona tutta dedicata a “mercato”: frutta, verdura a sinistra, pesce a destra. A dire il vero ancora prima ricordo che i mercati erano tutti un po’ spostati verso la sinistra dell’area portuale ma al di là della banchina c’era un mare che assomigliava molto più ad uno stagno acquitrinoso e melmoso con residui di ogni specie e stazza nel fondo. Negli ultimi anni in modo altalenante le Amministrazioni, oberate anche da vicende che hanno ricevuto una certa attenzione da parte della Magistratura, si sono impegnate a realizzare progetti che dessero decoro a quella parte di città maggiormente nota ai “turisti” nel loro transito da e per le isole ed ai frequentatori dei locali più rinomati del lungomare. Non molti però si sono accorti che un lembo di quel territorio sulla destra ed al disotto del Mercato all’ingrosso del pesce, che fino a pochi anni fa era ricettacolo di sporcizia varia, è stato messo in ordine ed è diventato un luogo piacevole. Certo anche io non lo avevo notato e devo dire che anche mio cognato che è un acclarato “lupo di mare” non ne era a conoscenza; ma con il mio ritorno sulle mie terre flegree alla ricerca di vecchi amici è accaduto che, chiedendo notizie di Giuseppe La Mura, con il quale negli anni Settanta avevamo messo in piedi un Collettivo (era l’epoca dei “collettivi”!) Teatrale di Ricerca (che oggi chiamerei “antropologica”) ed avevamo lavorato nella messa in scena di una “Cantata dei pastori” interamente in dialetto puteolano (“Cca’ puntey ll’arbe”), un amico comune si pose a disposizione per indicarmi dove trovare La Mura, anzi si propose di accompagnarmici. Mentre ci spostavamo dalla Piazza della Repubblica verso il lungomare mi accennava al lavoro che era stato fatto su quella piccola parte di territorio costiero ma non riuscivo ad immaginare dalle sue parole ancorchè entusiastiche quello che avrei di lì a poco visto. Dopo la parte di lungomare che viene – di mattina – occupato dai mercatini, che dalle ex Palazzine sono stati molto opportunamente lì insediati, c’è una transenna (per i mezzi automobilistici), superata la quale, si discende verso la banchina che si stende poi sul mare in posizione perpendicolare rispetto alla spiaggia. Sulla destra, scendendo, un considerevole lembo di questa spiaggia è stato bonificato e curato trasformandolo, anche con opportuni innesti di terreno, in prato verde: in fondo, poi, è stata posta una struttura abitativa prefabbricata per gli uffici ed una parte coperta per custodire gli attrezzi utili al mantenimento degli spazi. Un bel lavoro, dico io; ma di La Mura non vedo traccia. Scendiamo due scalini in legno per superare il dislivello fra la strada della banchina e la sabbia ed avanziamo verso il casotto. Io sono sfacciato come se si trattasse di un luogo a me già noto (ho fatto sempre così già da ragazzo: imparavo le cose fingendo già di saperle) e mi dirigo verso l’ingresso del prefabbricato chiedendo di Giuseppe La Mura (in effetti avevo già visto una faccia a me nota dalla lontana infanzia) e mi dissero che era dentro. Sapevo di non essere atteso e sapevo anche che sarebbe stata una sorpresa, credo bella, anche per lui; perciò avanzai spedito dentro: era a questionare in polemiche non rilevanti (gli artisti sono polemici di natura e vivono di questo aspetto del loro carattere; la “polemica” è arte e se volete la chiameremo “dialettica”, solo che a differenza della polemica quest’ultima è perlomeno bidirezionale e la “polemica” è appunto “unidirezionale”) con gli altri amici; ma vedendomi tutta la battaglia venne sospesa. E così mi raccontarono di questo loro impegno, del fatto che erano riusciti a farsi dare la “concessione” di quel lembo di arenile da parte dell’Ufficio Circondariale Marittimo e di avere poi fondato il Circolo Nautico San Marco con l’impegno di bonificare e ripulire il tutto riportandolo all’uso pubblico. Con Giuseppe ed alcuni amici d’infanzia “ritrovati” intanto abbiamo rievocato i “vecchi” tempi, riportando alla luce momenti belli ma dimenticati. E poi ci siamo lasciati dopo che mi avevano però invitato – quando lo avessi desiderato – a ritornare. In special modo mi chiesero di passare la mattina di giovedì 15 maggio perché ci sarebbe stata un’iniziativa alla quale tenevano molto.
“Coloriamo in riva al mare” nella sua VI edizione coinvolgeva circa 400 studenti delle classi III – IV – V del I° Circolo Didattico insieme ai loro insegnanti. Ed io ci sono andato: avevano preparato già alle prime luci dell’alba una serie di postazioni utilizzando dei teli blu: anche io ci sono arrivato prestino e così ho potuto cooperare nella prima fase organizzativa ricevendo i gruppi che sciamavano lentamente ma gioiosamente verso l’arenile e si sistemavano in circolo negli spazi predisposti ad hoc. Attraverso gli insegnanti distribuivamo delle cartelline contenenti dei cartoncini sui quali individualmente (ma sono state concesse deroghe ad alcuni che volevano operare in “team”) ciascuno dei partecipanti poteva interpretare temi marini. La Mura, esperto, girava fra gli spazi interloquendo anche con i docenti ed osservando lo stile con cui tutti procedevano nella realizzazione della loro opera. Non sono rimasto per tutta la mattina; avevo impegni da assolvere cui non potevo derogare ma prima che andassi via, mi chiesero di essere parte della commissione giudicatrice. A parte il fatto che le mie competenze sono molto diverse ho dovuto declinare questo “onore” perché ero certo di non poter essere a Pozzuoli in quella fase dell’anno che di norma mi vede impegnato in Esami di Stato. Invece ho dato la mia disponibilità a cooperare in iniziative culturali di vario genere che vogliano intraprendere nei prossimi mesi estivi: ne parleremo.
Intanto, però, se andate o venite a Pozzuoli – anche mentre aspettate i vaporetti – non dimenticate di fermarvi al Circolo Nautico San Marco (poiché non vendono nulla e non vi si compra nulla non ho alcuna remora a postare questa “pubblicità”).

In allegato in alto foto dei partecipanti a “Coloriamo in riva al mare” ed in basso foto di Circolo Nautico San Marco – Peppe La Mura – Lungomare Pozzuoli

Circolo Nautico San MarcoPeppe La MuraLungomare Pozzuoli

 

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