Gallerie

DI NUOVO GIOIE E DOLORI

rione terra1pozzuoliVicienzo a mmare
GiuseppeMaddaluno-150x150

DI NUOVO GIOIE E DOLORI
Ritornare nei Campi Flegrei, che sono la mia terra, è fonte di grande piacere e riproposizione di immensi dolori. Il piacere di percorrere una terra piena di Storia, di Cultura, di Arte e di Amore; il dolore per dovermi rassegnare dopo quaranta anni di assenza a verificare che nulla è cambiato e che, pur operando un calcolo di costi e ricavi, i risultati tendono al negativo. . Non vorrei sentirmi accusato di aver abbandonato queste terre rinunciando a cambiarne in senso positivo il corso della sua civiltà; non ho una statura così elevata da essere titolato a realizzare tali “miracoli” ed in risposta a questi rilievi, che a volte ho avvertito – in senso generale – espressi con profonda ipocrisia e, forse, malafede, vorrei alzare il tiro avanzando una proposta molto alta ed importante: perché non provare a portare a valore, come rendita a cui attingere proposte ed idee, proprio le esperienze formative di tipo professionale ed amministrativo che i tanti figli (donne ed uomini) di questa terra hanno accumulato negli anni lontano da essa. Come e cosa fare non spetta di certo a me dirlo; anche perché non è più il tempo di operare da soli, non c’è più spazio per posizioni leaderistiche, autopromozionali ed autoreferenti. Occorre lavorare in equipe: lo dico anche ai miei amici che si arrendono troppe volte ad essere isolati mentre occorre rispondere con generosità ed apertura inclusiva anche a coloro che ti snobbano, spesso per paura o per avvertenza dei propri limiti.
Ma, come ho detto nel post dell’altro ieri, non intendo soffermarmi soltanto sugli aspetti negativi ed, avendo conosciuto una vivacità culturale straordinaria della quale sono protagoniste soprattutto le forze giovani, ne ho già parlato in altri post (“La prima cosa bella” innanzitutto!) e continuerò a parlarne. Ma avviamoci sui crinali degli elementi negativi, che non possono essere taciuti. Accennavo a posizioni prevalenti di alcuni Gruppi che si occupano di Cultura e che non si aprono alle contaminazioni positive; spesso si assiste a reciproche esclusioni per cui molti sforzi che potrebbero fornire risultati eccellenti finiscono per navigare nella mediocrità o nella stretta sufficienza. E questo è un difetto grandissimo soprattutto in tempi di “vacche magre” come i nostri. E, poi, vi sono innumerevoli incertezze in relazione agli spazi da riservare alla Cultura; c’è uno “spreco” di risorse e di tempo sia per le vicende del complesso “Toledo” (alcuni spazi interni al Palazzo sede della Bibilioteca, come quelli “aperti” adiacenti alla proprietà Falanga (?!?) sono ricettacolo di erbacce frammiste a reperti archeologici abbandonati dentro cassette di plastica accumulate l’una sopra l’altra; la Torre che era stata restaurata ed era pronta ad un uso incerto risulta essere abbandonata dopo il passaggio di vandali); c’è uno spreco di risorse ed un’incertezza sull’utilizzo futuro nella parte già restaurata del Rione Terra, a partire dal Palazzo De Fraja Frangipane; c’è un altro spreco di spazi rappresentato dal Mostro di cemento ex Vicienzo ‘a mmare sul cui futuro si addensano nubi minacciose (perché non riproporne un restauro che riporti la struttura nella forma che aveva negli anni Sessanta così come si vede dalla fotografia allegata?). E, poi, un nuovo aspetto negativo che si insedia su una positività è rappresentato dall’incuria, dovuta ad una scarsa manutenzione, in cui versa il bellissimo Lungomare Yalta. Altro elemento negativo molto importante che è da addebitare a responsabilità vicine e lontane da parte della Politica locale è la non utilizzazione delle risorse naturali geotermiche di cui la Natura ha fatto dono a queste nostre terre: gli stabilimenti termali che fino agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso risiedevano a Pozzuoli sono progressivamente scomparsi e l’ultimo, a parte le Stufe di Nerone che sono a Lucrino e che godono di buona salute, vive a stento (le Terme Puteolane in Corso Umberto I che sono state pochi giorni fa funestate da un crollo). Eppure la Storia ricorda che Pietro da Eboli, uno dei grandi collaboratori di Federico II di Svevia, il grande Imperatore laico, aveva scritto “De balneis puteolanis” un vero e proprio trattato sugli effetti benefici della geotermia. Non sarà un caso che l’ unica struttura funzionante (a parte le Stufe di Nerone di cui parlerò in altro post) in tal senso è condotta da “privati” cui deve essere data grande riconoscenza: si tratta del complesso “La Solfatara”. Ecco, questo può essere un elemento positivo da prendere in considerazione: si tratta di un luogo molto frequentato da turisti provenienti da ogni parte del mondo. Eh sì, i turisti! Ci vuole un bel coraggio ad avventurarsi fra difficoltà infrastrutturali e fregature varie; qui l’Amministrazione comunale ha delle grandi responsabilità: perché, ad esempio, non forma il Corpo della Polizia Municipale pretendendo da loro la conoscenza perlomeno di una lingua straniera (l’inglese soprattutto) e di un’adeguata preparazione per fornire le informazioni minime indispensabili a chi, italiano o straniero, transiti per i nostri luoghi? Chi opera al pubblico in qualsiasi sede dovrebbe – in particolar modo le “nuove leve” – essere in grado di svolgere funzioni rassicuranti per tutti. E, poi, vogliamo chiederci una volta per tutte come mai il turismo preferisce sempre più mete estere come la Croazia, il Portogallo, la Grecia, la Turchia? E’ solo per moda? O perché esiste un rispetto più elevato degli standard minimi di accoglienza per chi si reca in vacanza?
Ahimè, intendevo parlare degli aspetti positivi ed ho posto in evidenza ancora quelli negativi; ma… se osservate fra le righe ci troverete tanti elementi su cui riflettere e da cui prendere il via. Suvvia, parliamone!
9808491402_4_pozzuoli-lungomare-peopleterme puteolane1

GIOIA E DOLORE ( ritornando a Pozzuoli )

pozzuoli
Foto pozzuoli 2
San Celso, vista da Via Pesterola
PICT0018

La gioia del ritorno ed il dolore nel vedere che (quasi) nulla è cambiato!
Ritornare nei Campi Flegrei, che è la mia terra, dopo tanti anni di “esilio” lavorativo durante i quali non sempre avevo voglia di riannodare antichi rapporti e costruirne di nuovi ad ogni mio ritorno, preso – come di norma deve essere – da affari piccoli e grandi di “famiglia”, deve essere un “piacere”. E, per tanti motivi, di cui ho già più volte parlato, soprattutto afferenti alla vivacità culturale che vi si respira, un “piacere” lo è. Ma qui, oggi, ahimè, voglio affrontare gli aspetti negativi collegati all’incuria che permane diffusa su tanta parte del territorio e che non può essere sempre e solo accreditata allo scarso senso civico della gente “comune” ma va assegnata alla classe dirigente politica ed amministrativa di questo paese, che troppe volte ritiene di poter rappresentare la propria città solo attraverso momenti di esteriorità mondana arricchiti da sermoni accattivanti e solenni che si mantengono lontani dai problemi della gente e soprattutto dalla dilagante maleducazione travestita da aspetti etnici.
Parlo di Pozzuoli. Ci ritorno più frequentemente e riesco a cogliere alcune piccole trasformazioni positive che tuttavia finiscono per scomparire di fronte al peggioramento (negli anni Sessanta e Settanta della mia adolescenza molti aspetti di sciatteria e maleducazione venivano già denunciati) del livello educativo soprattutto nei rapporti sociali. Alcuni di questi difetti forse appartengono al “mondo” ma dalle nostre parti si avvalgono di molti “bonus” peggiorativi. E le Amministrazioni si impegnano, con la loro assenza o con la loro presenza a facilitarne la diffusione. Comincio con un esempio: inizio Agosto, torno a Pozzuoli con l’auto (per fortuna, in autunno ci ritornerò con il treno); risparmio i lettori dall’accanirmi verso i colleghi conducenti che mi hanno accompagnato llungo la Tangenziale (un miglioramento c’è, ma è dovuto alle multe salatissime comminate ai “piloti” di Formula 01 che zigzagavano imperturbati fra gli inermi timidi conducenti rispettosi dei limiti e dei vincoli civili) ma, usciti a via Campana, imbocco la rotonda che mi fa tornare indietro verso la variante Solfatara. Che dire? Sono esterrefatto dalla grande confusione della segnaletica di fronte ad un Progetto che sicuramente ha grande valore ma che evidenzia in questa fase l’incapacità (perlomeno l’incapacità) di far interloquire amministratori e progettisti, progettisti e realizzatori: la “logica” acclarata dai fatti è che si deve procedere in una direzione che viene negata dalla segnaletica per cui procedendo si corre l’enorme rischio di incontrare una vettura di fronte che vanti i medesimi tuoi diritti. Mentre procedo a tentoni (le indicazioni sono carenti e testimoniano sciatteria ed incuria di chi deve amministrare, cui tocca il compito di verificare “scientificamente” – ma forse è chiedere troppo! – sulla carta e sul terreno le modalità di attuazione dei Progetti, ancor più in una strada ad elevato scorrimento come quella di cui si parla) e riesco a sfangarla indenne noto poco più avanti uno strano individuo davanti ad un cassonetto della spazzatura estrarre dal cofano della sua auto e riversare in quello ogni ben di Dio, ivi compreso un televisore maxischermo che certamente non era funzionante. Non doveva essere il primo visto che i cassonetti erano già stracolmi grazie alle “donazioni” di altri “passanti”. Mi sono chiesto quali motivi potessero condurre a tale gesto e sono addivenuto al numero di tre: ignoranza, maleducazione, strafottenza. A pochi metri dal “fattaccio” c’è una splendida isola ecologica in via Vecchia delle Vigne e poi si può contattare direttamente chi si occupa di “RIFIUTI INGOMBRANTI” ai numeri di telefono 0813009111 e 0813000023 o su Internet consultare il sito http://www.elenchi.com/aziende/manutencoop-facility-management-spa-pozzuoli
Dimenticavo di aggiungere che il giovanotto che ha commesso il “reato” se denunciato con documentazione fotografica dovrebbe essere perseguito dall’Amministrazione. A Prato, dove io abito, chi si permette di trasgredire viene redarguito dai cittadini ma perseguito a dovere dalla pubblica Amministrazione. In tutta evidenza ci sono più Italie ed a me dispiace constatarlo. Tuttavia allo stesso modo andrebbero redarguiti e sanzionati quei Dirigenti ed Amministratori “incapaci” di compiere il loro dovere. E non è consolazione per me giustificarsi con “Il pesce puzza dalla testa” perché lo Stato è un “corpus” unico nel quale i diritti ed i doveri di ciascuno devono trovare la loro realizzazione. PURTROPPO non è finita qui! Ma toccherò anche elementi “positivi” che appaiono evidentemente tali a chi, come me, ritorna; mentre sembra che chi su quella terra “felice” vive da anni non se ne accorge o “NON” se ne vuole accorgere (il rapporto con la Cultura mette – forse – in evidenza le contraddizioni?).

GLI ESAMI (DI STATO) NON FINISCONO MAI – un libro su Francesco di Marco DATINI

Frontespizio libroArchivio DatiniRodari PratoMario Di CarloFOTO per Blog

 

Foto nell’ordine: 1) Frontespizio libro; 2) Palazzo Datini sede Archivio; 3) Sede del Liceo Socio Psico Pedagogico “Rodari”; 4) Dirigente scolastico prof. Mario Di Carlo; 5)  Giuseppe Maddaluno

 

GLI ESAMI (DI STATO) NON FINISCONO MAI: un libro scritto da alcune docenti del RODARI su Francesco di Marco DATINI

Sin dalla prima volta che ho partecipato in qualità di docente commissario esterno ad Esami di Stato a metà anni Settanta, essi mi hanno concesso occasioni impagabili di conoscenza e confronto con realtà che non conoscevo e che, se conoscevo, consentivano degli approfondimenti sostanziali che hanno contribuito a farmi crescere. Lo dico in modo particolare a coloro che credono di essere arrivati alla perfezione dopo cinque, dieci, venti o trenta anni di studio eo lavoro: non si smette mai di imparare. E se l’affermazione è per voi banale, superficiale ed inconsistente, meglio. Eh già la prima volta! Fu all’ITI “Giordani” di via Caravaggio a Napoli dove ebbi come Presidente della mia Commissione un docente di Matematica che era stato uno dei più temuti al tempo in cui frequentavo la Scuola Media “Giacinto Diano” a Pozzuoli. Ovviamente ero emozionatissimo; ma, a dire il vero, lo sono ancora adesso. Ed è così che dopo quasi quaranta anni l’esperienza di questo 2014 mi ha concesso nuovi incontri, nuovi stimoli, alcuni dei quali ho già trattato su questo Blog in modo diretto http://www.maddaluno.eu/?p=228 del 4 luglio http://www.maddaluno.eu/?p=429 del 24 luglio
http://www.maddaluno.eu/?p=485 del 27 luglio ed in modo indiretto http://www.maddaluno.eu/?p=497 del 28 luglio. Certamente sapete che durante l’effettuazione delle prove scritte la Commissione che si trova ad operare su sedi diverse ha la necessità di avvalersi di docenti interni per la vigilanza. Il Presidente ne fa apposita richiesta al Dirigente e quest’ultimo provvede alle nomine temporanee. In uno scambio di idee con alcune docenti “di sorveglianza” presso il Liceo Socio Psico Pedagogico “Rodari” di Prato mi viene accennato ad una recente pubblicazione curata da un gruppo di loro e viene promesso il dono di una copia. Anche se il tema (il Mercante di Prato Francesco di Marco Datini) appare per un “pratese”, anche se non proprio “doc”, già più e più volte trattato, come un nuovo libro su Francesco di Marco Datini, fa sempre piacere di potervi dare un’occhiata. La promessa tardava a concretizzarsi e, così, l’ultimo giorno, prima di chiudere tutte le operazioni con quella “faccia tosta” che in fondo mi ritrovo ad avere sono io stesso a chiedere ad una collega di poterne avere una copia. Il libro mi viene consegnato, finalmente! E’ in un formato quasi tascabile (15 x 21) molto maneggevole con una copertina graficamente impostata in modo gradevole con pagine di un colore grigio giallastro avorio che rende l’idea di una carta ingiallita dal tempo collegata ai documenti dell’Archivio “Datini” di cui il libro tratta. E’ composto da 120 pagine. L’argomento è, come già dicevo, “ Francesco di Marco Datini – Affari e affetti nella Prato del tardo Trecento” e l’edizione è di una storica casa editrice fiorentina, la Nerbini, nata nel 1897 e molto attenta a produzioni divulgative colte e popolari allo stesso tempo (classico è il rimando alla pubblicazione di molti fumetti, come il primo “Topolino”). Gli aspetti formali sono molto importanti per rendere appetibile alla vista ed al tatto oltre che all’olfatto (il profumo della carta fresca stampata è stato sempre per me elemento di apprezzamento) un volume. Avendo chiuso le operazioni di Esame mi apparto con il libro per scorrerne le pagine e mi soffermo sull’Indice. L’originalità del libro consiste, dopo una serie di incontri presso l’Archivio di Stato di Prato di alcune classi (III B, III C e III E a.s. 20122013) e di un gruppo di docenti sotto la guida di Chiara Marcheschi, “giovane profonda conoscitrice dell’Archivio Datini” come rileva la Direttrice dell’Archivio di Stato di Prato, M. Raffaella de Gramatica nella Presentazione3, nell’aver messo insieme competenze, professionalità, sensibilità diverse ma tutte al femminile. L’unica presenza maschile, oltre quella del Mercante di Prato, è esterna al Gruppo di lavoro ed afferisce al Dirigente Scolastico, prof. Mario Di Carlo che, nella Presentazione2, sottolinea “l’esigenza delle ragazze e dei ragazzi di approfondire la conoscenza storico-culturale del territorio e delle sue risorse, per essere maggiormente consapevoli delle proprie radici e per chiarire la progettualità futura”.
Si tratta di un “libro aperto” e disponibile ad essere ampliato con nuovi capitoli e nuove ricerche da docenti, studenti o studiosi. E’ un libro utile per chi, pur conoscendo già un minimo di Storia della mercatura e di Storia di Prato, voglia avere un orientamento più preciso sugli “strumenti” a disposizione. Come si diceva, si tratta di un libro collettivo nel quale le docenti Maddalena Albano, Elisabetta Cocchi, Manuela Giusti, Eva Nardi, Paola Riggio e Rosa Rossi, coadiuvate dall’esperta Chiara Marcheschi si dividono i compiti ed elaborano le varie parti. Oltre alla Presentazione1 di taglio istituzionale (la vice presidente della Provincia Ambra Giorgi auspica un utilizzo del testo da parte soprattutto degli studenti), il libro si struttura in tre parti. La prima, “Per conoscere…”, ad opera di Eva Nardi, Rosa Rossi e Paola Riggio, compie un excursus storico e biografico su Prato e su Francesco di Marco Datini; la seconda, “Per documentare…” è maggiormente specialistica e tecnica e tratta dell’Archivio, che consta di 150.000 documenti sciolti e circa 600 registri, e poi dell’attività economica del Mercante di Prato e della dimensione del vivere quotidiano nella Prato del tardo Trecento vista attraverso le testimonianze (la “corrispondenza epistolare”) della moglie di Datini, Margherita Bandini; ad operare su questa sezione, oltre a Chiara Marcheschi sono Elisabetta Cocchi, Manuela Giusti, Maddalena Albano ed Eva Nardi. La terza parte, “Per approfondire…”, curata da Paola Riggio, si sofferma su alcuni aspetti della vita familiare in una città del Trecento basandosi ovviamente sull’ampia documentazione archivistica a disposizione (La struttura familiare. La rete di rapporti sociali. Le occasioni di festa. Le case e gli arredi. Il cibo. L’abbigliamento). Ne consiglio la lettura non solo agli studenti; è un testo che potrebbe (dovrebbe) essere tradotto nelle lingue più importanti ed essere posto a disposizione dei turisti che vengono a visitare la nostra città.

UN CONTRIBUTO A reloaded – PRATO UN CASO DI “ANALFABETISMO” INDUSTRIALE DI RITORNO?

Threads for the bindingCiminierepratoFabbriche-cinesi-in-Italia

Lo scorso 30 luglio pubblicavo un reloaded di un mio articolo su politicsblog.it nel quale si assegna la crisi del tessile e dell’economia del Distretto di Prato ad una incapacità culturale degli imprenditori che hanno preferito trasformarsi in immobiliaristi accreditando a tale funzione una maggiore possibilità di guadagno. Anche per questo negli ultimi anni si continua a costruire in modo dissennato consumando suolo e cementificando gli spazi. Un lettore che non conosco (lo scrive nella parte introduttiva) interviene consigliando anche la lettura di un commento ad un articolo de “L’Intraprendente” dedicato a Edoardo Nesi. Per completezza e così come proposto dal lettore di questo Blog aggiungo sia il link dell’articolo sia il commento copiato ed incollato di un certo Giovanni.

Caro Giuseppe, non ci conosciamo e, probabilmente, non ci conosceremo mai, vista la nostra distanza fisica e professionale Questo tuo post (il cui contenuto di analisi mi trova d’accordissimo), spiace dirlo, arriva in ritardo: il più è fatto e quel che ci sarebbe da fare richiederebbe anni di impegno totale, impegno di cui non vedo assolutamente alcuna consistente fiammella. L’arretratezza italiana, culturale e produttiva, è evidente ed in una situazione di concorrenza globale in cui Paesi ben più solidi del nostro arrancano, l’epilogo è immaginabile. A questo la stessa “opposizione” non pone né attenzione (vedi il peloso “buonismo” nei confronti dei cinesi che certo non scaturisce da analisi seria) né conseguente azione che non sia lo scimmiottare, in salsa sinistrese, i vari sceriffi (legalità! legalità! Grido che, urlato dagli italiani, non può che suscitare fragorose risate) o per lo più patetiche trovate sul prodotto “tipico”. E’ quella stessa “opposizione” che singhiozza sulla piccola e media impresa “che da lavoro”, che deve essere salvata, che è il made in italy, etc. Bisognerebbe dire che QUESTA piccola e media impresa deve chiudere e deve essere almeno sostituita da tutt’ altra PMI. Il pratese (e l’italiano) medio, con tutta l’arroganza del provinciale, senza oramai alcun particolare merito, continua a credere di aver diritto ad un posto al sole per decreto divino, rimpiangendo i bei vecchi tempi in cui, grazie anche alla globalizzazione delle merci (a cui ancora non si era aggiunta ancora la globalizzazione della finanza) poteva importare materie prime a due soldi e rivendere tessuti non certo pregiati a venti soldi. Questo pratese (e questo italiano) è convinto che la Cina, il Pakistan, l’India, l’Indonesia o la Nigeria siano rappresentati dai poveracci che arrivano in “casa nostra” e ignora che si avviano ad essere potenze economiche e scientifiche continentali o mondiali, con università, centri di ricerca, studenti e docenti che girano per il mondo. Sarebbe troppo impopolare basare su questo un programma politico; sarebbe troppo doloroso dire non ai politici, ma ad amministratori, imprenditori, intellettuali, semplici “cittadini” (e di tutti loro i “politici” sono stati e sono il facile capro espiatorio o il consolatore sollecito) di “andare a casa”, di cambiare vita ed abitudini in tempi, oramai, brevissimi.
La meritocrazia senza un obiettivo che faccia da parametro al merito è un ulteriore modo per addossare la colpa ai “cattivi”. Nonostante tutto, il merito conta, non da solo, ma conta. Il problema è che bisognerebbe chiedersi se è “meritevole” il pratese che assume l’operaio disposto, meritevolmente, a lavorare giorno e notte per produrre “pezze”, ma non assume (a che gli servirebbe?) il nanotecnologo meritevolissimo.
Ai giovani che ancora oggi la scuola (contro ogni pretesa delle famiglie che “tanto serve solo il pezzo di carta”) forma spesso bene, il consiglio da dare è quello di andare via finchè sono ancora in tempo, prima che il mercato del lavoro, ad esempio, europeo non si saturi con teste e mani specializzate e provenienti da altri Paesi extracomunitari (che vengono accolti a braccia aperte, se altamente specializzate). Tutto questo fino a quando la finanza “cattiva” che fino a pochi anni addietro ha fatto la fortuna di tantissimi correntisti pratesi ed italiani, non scoppi definitivamente

Se hai ancora pazienza, ti consiglio di leggere questo commento che lessi parecchio tempo fa qui http://www.lintraprendente.it/2013/12/nesi-difende-i-capannoni-di-prato-dai-cinesi-la-sua-famiglia-glieli-affitta/
e che ora copio/incollo:

Un abbozzo di narrazione alternativa su Prato (ma anche su Faenza, Matera, etc.)
A Prato il “nero” NON è esistito fino a 30 anni fa, ma dall’inizio del tessile “modello Prato” (anni ’60 circa) ad OGGI. Il “modello Prato” nacque con la chiusura delle grandi aziende tessili e la nascita dei “padroncini”, piccole e piccolissime aziende dove l’aumento dei guadagni poteva poggiare su autosfruttamento e “risparmi” di vario genere e non certo su innovazione e ricerca (come è di moda dire oggi). Questo meccanismo incocciò, per altro, in una fase di crescita generale dei consumi e di “piena occupazione” per cui anche i salari non erano comprimibili più di tanto. Ci furono delle crisi nel corso di quegli anni, piuttosto ricorrrenti, ma praticamente nulla cambiò nel “distretto: i telai, l’organizzazione, gli operai, rimasero praticamente gli stessi. Alla fine degli anni 80 il sistema cominciò ad arrivare ai limiti: il globo era in affanno e si chiedevano prezzi sempre più bassi. In quel periodo il crack della Cassa, la “mamma di Prato” come qualcuno la definiva: 1600 miliardi di sofferenze, un buco di 400 miliardi di lire, qualcuno dice di più, di più ancora dell’Ambrosiano; qualcun altro disse (e dice) che molti soldi andarono in poche ed inaffidabili mani. Crediti facili. Parallelamente era iniziata la smobilitazione: si iniziava ad andare all’estero (Tunisia, Turchia, Sud-America, etc.). Si mandavano macchine e relativo tecnico che in 20-30 giorni o anche meno (alla faccia del know-how) istruiva i nuovi operai. Alla fine il gioco era sempre quello: lavorare di più a meno. Per fortuna c’era aria di de-regulation a giro, anche i pratesi fissi davanti ai monitor esterni delle banche a guardarsi i numeretti dei titoli che creavano danaro dal nulla, danaro che reggeva i consumi USA ed Europei (quella sì che erano globalizzazione e finanza fatta come si deve!) e rivolava fino al “mattone”. Ve lo ricordate il boom edilizio pratese anni ’80 e ’90? E poi c’era sempre il telaio in garage, una specie di garanzia per il futuro, sempre quello da 10-15-20 anni, sistemato accanto all’auto nuova di zecca, vecchia al massimo di 5 anni. Magari la Ferrari, chè ne abbiamo più noi che i milanesi. La grande famiglia pratese dormiva sonni tranquilli, nessuno sciopero, casa al mare per tutti, godersi la vita. Per i figli che avevano un po’ voglia di studiare il Buzzi, gli altri a prendere il caffè a Milano la sera con la macchina del babbo, quella continua “fuga da fermo” di una generazione che proprio di fuggire non aveva per nulla voglia. Nessuno voleva davvero smuovere le acque, tantomeno affliggere con “lacci e lacciuoli” chi produceva ricchezza e, magari, voleva lasciare qualcosa “al sicuro”. Oddio, c’era qualcuno che parlava di “società della conoscenza”, di “nuova divisione internazionale del lavoro”… e son chiacchiere, noi s’è gente che si lavora. E poi non lo sapete che il mondo, il mondo intero finisce a Prato “A Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l’onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo”? Lo diceva il Malaparte, quel Kurt Suckert lì. Prato detta, il mondo copia.
E poi arrivarono i cinesi. Ed erano tanti: la popolazione dell’ Europa intera sommata a quella degli USA, il tutto moltiplicato due. A dire il vero mica solo loro. Indiani, russi, asiatici assortiti, brasiliani, persino parecchi africani. Una metà del mondo che offre salari bassi, territori produttivi praticamente vergini. E che di Prato non sanno nemmeno dov’è. Però e son tanti e un po’ ne arrivano fino a qui di cinesi, contadini ignoranti e maleducati che manco si capiscono con gli altri cinesi. Ma lavorano come ciuchi, come schiavi, con il sogno di tutti gli emigranti: farselo così per un po’ di tempo e poi tornare al paese, ricco ed invidiato da tutti, aprire il bar in piazza e farsi la casa “a solo” col giardino. Nesssuno se ne ricorderà più di quello che hai passato quando ci avrai gli sghei in saccoccia. Non sono mica angioletti, i cinesi. Vanno dove possono adattarsi rapidamente, dove non c’è da imparare granchè per iniziare a fare soldi subito, ma dove c’è da lavorare tanto ed a poco, chè è una cosa che sanno fare. E dove non ci sono molti “lacci e lacciuoli”. Nemmeno edilizi: guardano il Cantiere, costruito interamente su terreni delle Ferrovie dello Stato e capiscono. Non si mettono neanche ai telai, a fare filati o tessuti che conviene di più comprare in Cina a prezzi da sbanco: non è nemmeno una idea loro: hanno, come sempre, copiato. E’ una moda che si diffonde: le aziende hanno la testa in Europa o in USA ed il resto in Cina (o india, o Russia, o Moldavia). I computer si progettano e, magari, assemblano all’Ovest, ma si fabbricano (e smaltiscono) all’Est. Le auto idem con patate. E i sandalini. E la tuta da sub. Persino il fucile per anda’ a sparare ai cignali. E la bandierina della Fiorentina e della Juve. Ed è andata bene a tutti: il mondo intero si accapiglia, poi fa pace, scopre tradizioni locali e piatti tipici, si insulta, cerca sesso, mostra la foto del gattino, si straccia le vesti sui diritti umani negati, tutto su affari elettronici Made in China (o territori limitrofi) a prezzi in calo costante ed il cui numero pare supererà quest’anno di grazia 2013, il numero degli abitanti della Terra. “Pronto…? Cosa vuoi per cena? Il filetto o le ova? Oh, guarda ‘ste cinesi al supermercato m’hanno bell’…”.
Ma la colpa, si sa, è dei politici.

IO SONO UN PAZZO CINEFILO

Anfiteatro di Nimes
Les Mistons  e BernadetteLes Mistons ed anfiteatroTruffaut

Io sono un pazzo cinefilo. Sono nato con il Cinema nel sangue e quindi capita sovente che molti argomenti evochino in me rimandi cinematografici, ancor più se si tratta di storie francesi come quella di Aigues-Mortes di cui ho trattato nel post precedente. Merito, anche se non solo (e poi forse in fondo svelerò anche questo piccolo segreto), degli Esami di Stato e dell’incontro con l’allievo Niccolò Lair è questo approfondimento su un luogo che è la città di Nimes, capoluogo del dipartimento del Gard nella regione della Linguadoca-Rossiglione. In questa città risiede la nonna paterna di Niccolò e la classe è andata in quest’ultimo anno a visitare quella regione della Provenza e la stessa cittadina. Sotto la guida della nonna hanno potuto visitare l’Anfiteatro romano ed i resti del Tempio di Diana, oltre ad apprezzare la vivacità culturale della città moderna. Ma andiamo pure ai “rimandi cinematografici” del folle cinefilo che è in me. Ho visto decine di volte l’Anfiteatro di Nimes senza mai esserci stato e non in uno dei possibili documentari sulla Provenza e la Linguadoca ma nel film d’esordio di uno dei più grandi autori cinematografici, cinefilo anch’egli ed organizzatore di cineclub, Francois Truffaut. Non posso nascondere la mia predilezione per il grande regista francese che è stato il mio virtuale educatore prendendomi per mano con le sue storie ed accompagnando la mia vita dal 1957 al 1984. Truffaut per il Cinema è stato “tutto”: da bambino è stato precoce spettatore quasi sempre “clandestino” (si intrufolava dall’uscita); ma non gli bastava vederli (ne ha visti a migliaia fra i 14 ed i 24 anni): doveva scriverne e parlarne. Quindi amava proporsi come “critico militante”ed insieme ad altri giovani, come Godard, Rohmer, Chabrol, Rivette, iniziò quella rivoluzione del Cinema francese che si chiamerà “Nouvelle Vague”. Tutto inizia con un articolo sui “Cahiers du cinema” dal titolo “Une certaine tendance du cinéma francais” del gennaio 1954. Dalla critica militante all’elaborazione di nuove idee contro l’artificiosità e l’innaturalezza dei vecchi bacucchi il passo fu logico e conseguenziale. Attratti dal Neorealismo italiano i giovani futuri grandi cineasti cominciarono a girare in strada con attrici ed attori di nuovissima leva, utilizzando l’illuminazione naturale e la presa diretta. Truffaut, e qui torniamo a Nimes, dopo un primo timido approccio al Cinema con un prodotto in 16 mm del quale, complice l’autore, non abbiamo traccia, nel 1957 girerà il suo primo vero film tratto da un racconto di Maurice Pons, “Les Mistons” (letteralmente “I monellacci”), nel quale inserisce sia il passato cinematografico (“L’arroseur arrosé” dei fratelli Lumière) che alcuni richiami al cinema americano con la finta sparatoria che, per l’appunto, si svolge fra questi cinque protagonisti, i monellacci del titolo, nell’anfiteatro di Nimes. Questo sito archeologico viene ripreso nella sua interezza per seguire le vicende di una giovane, Bernadette, che stimola con le sue forme perfette le fantasie dei ragazzi nei loro primi loro turbamenti sessuali. Si impegneranno a fondo per disturbare la storia d’amore di Bernadette e Gerard fino a quando non scopriranno poi una drammatica tragica verità: Gerard è morto in un incidente e questo evento sancirà anche, forse, la loro maturazione. “Les Mistons” è anche caratterizzato da una certa ansia cinefiliaca, come dicevo prima, per cui Truffaut inserisce nel mediometraggio (26’) oltre alle passioni citate alcuni richiami ad un altro mito (suo ma anche mio) della Storia del Cinema e della malattia “cinefiliaca” che è Jean Vigo, acquisendone i movimenti dei corpi dei ragazzini che richiamano una profonda anarchia libertaria come in “Zero de conduite”. Inoltre “Les Mistons” anticipa tutta la serie successiva dedicata all’educazione ed alla crescita di Antoine Doinel, figura alter ego di Truffaut, del quale ricalca molti aspetti autobiografici. Il film ancora oggi, benché Truffaut non lo amasse in modo particolare, esprime una straordinaria freschezza, non fosse altro per la bellezza del corpo di Bernadette e per la straordinaria vitalità dei ragazzini (il personaggio di Gerard è opaco e non rimane impresso nella mente degli spettatori). Truffaut in effetti, come ha poi continuato a fare in seguito, si pone dal punto di vista dei “monellacci” sentendosi molto a suo agio nella descrizione delle loro intime tempeste, delle loro esuberanze. Anche il regista era attratto da Bernadette Lafont, interprete del personaggio femminile suo omonimo. “E’ sempre con emozione che ritrovo Bernadette Lafont, il suo nome o il suo viso, il suo mprofilo stampato su una rivista o il suo corpo flessuoso in un film, perché, anche se sono più vecchio di lei, abbiamo debuttato lo stesso giorno dell’estate del 1957, lei davanti alla macchina da presa, io dietro….Quando penso a B.L. artista francese, vedo un simbolo in movimento, il simbolo della vitalità, dunque della vita” dirà Truffaut in occasione di una retrospettiva dei film dell’attrice, alla quale nel 1972 aveva consegnato il ruolo di protagonista in un altro film “Une belle fille comme moi”.
Ed ora il film, dove si possono vedere le strade di Nimes, i boschi ed i corsi d’acqua che circondano quella città ed i reperti archeologici come l’Anfiteatro, va guardato per intero (lo troverete allegato a questo articolo). Rendiamo omaggio a chi ci ha stimolato a parlarne: l’allievo Niccolò Lair.
In definitiva vi svelerò il segreto: sto lavorando ad una presentazione di questi miei “amori” che sono Jean Vigo e Francois Truffaut di cui ad ottobre ricorrono rispettivamente gli 80 ed i 30 anni dalla morte. Grazie.
Continuerò a commentare altri stimoli sopravvenuti “grazie” agli Esami di Stato di quest’anno nei prossimi giorni.

“EN ATTENDANT” la riflessione di Federica

PasoliniLeo FerrèGABER

“EN ATTENDANT” la riflessione di Federica Nerini che fra poco pubblicherò vi anticipo, dietro i formidabili stimoli che essa contiene, alcuni elementi. Il titolo del suo intervento è basato sul primo verso di una poesia di Pier Paolo Pasolini “BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” ed è piena di rimandi culturali, artistici e filosofici che non dovrebbero mancare di essere approfonditi anche da altri lettori. Come son solito fare, arricchisco con video ed immagini i nostri post, col rischio di soffocarli. A questo punto, mi sono detto: “Perché non anticipare con video, scritti ed immagini alcuni di questi rimandi coinvolgendo dei “miti” che appartengono a generazioni diverse oltre la mia?” Ed è questo il senso della proposta che vi sto facendo. Sono solo degli esempi: oltre al testo di Pasolini letto da me (ne riproporrò un altro in coda all’articolo di Federica), ho inserito Leo Ferré, chansonnier poeta e scrittore che amava le contrade toscane (dal 69 all’83 anno della sua morte visse fra Firenze, San Casciano e Castellina in Chianti) e Giorgio Gaber su cui non si dirà mai troppo vista l’incommensurabile grandezza del suo stile. A più tardi. (G.M.)

Bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
– e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente, o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia solo una traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo.
E’ il mondo così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;
l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque
la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.
Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente: allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe essere più soddisfatto
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.


Je suis d’un autre pays que le vôtre, d’un autre quartier, d’une autre solitude.
Je m’invente aujourd’hui des chemins de traverse. Je ne suis plus de chez vous.
J’attends des mutants. Biologiquement je m’arrange avec l’idée que je me fais de la biologie: je pisse, j’éjacule, je pleure.
Il est de toute première instance que nous façonnions nos idées comme s’il s’agissait d’objets manufacturés.
Je suis prêt à vous procurer les moules. Mais…

La solitude…

Les moules sont d’une testure nouvelle, je vous avertis.
Ils ont été coulés demain matin.
Si vous n’avez pas dès ce jour, le sentiment relatif de votre durée, il est inutile de regarder devant vous car devant c’est derrière, la nuit c’est le jour. Et…

La solitude…

Il est de toute première instance que les laveries automatiques, au coin des rues, soient aussi imperturbables que les feux d’arrêt ou de voie libre.
Les flics du détersif vous indiqueront la case où il vous sera loisible de laver ce que vous croyez être votre conscience et qui n’est qu’une dépendance de l’ordinateur neurophile qui vous sert de cerveau. Et pourtant…

La solitude…

Le désespoir est une forme supérieure de la critique. Pour le moment, nous l’appellerons “bonheur”, les mots que vous employez n’étant plus “les mots” mais une sorte de conduit à travers lesquels les analphabètes se font bonne conscience. Mais…

La solitude…

Le Code civil nous en parlerons plus tard.
Pour le moment, je voudrais codifier l’incodifiable.
Je voudrais mesurer vos danaïdes démocraties.
Je voudrais m’insérer dans le vide absolu et devenir le non-dit, le non-avenu, le non-vierge par manque de lucidité.
La lucidité se tient dans mon froc.

LA SOLITUDINE

Io vengo da un altro mondo, da un altro quartiere, da un’altra solitudine.
Oggi come oggi, mi creo delle scorciatoie. Io non sono più dei vostri.
Aspetto dei mutanti; Biologicamente me la cavo con l’idea che
mi sono fatto della biologia: piscio; eiaculo; piango.
Innanzi tutto noi dobbiamo lavorare le nostre idee come se fossero dei manufatti.
Io sono pronto a procurarvi gli stampi. Ma…

la solitudine…

Gli stampi sono di una materia nuova, vi avverto.
Sono stati fusi domani mattina.
Se voi non avete di questo giorno il senso relativo della durata, è inutile guardare davanti a voi perché il davanti è il dietro, la notte è il giorno. E…

la solitudine…

Innanzi tutto le lavanderie automatiche, agli angoli delle strade, sono imperturbabili così come il rosso o il verde dei semafori.
I poliziotti del detersivo vi indicheranno dove vi sarà possibile lavare ciò che voi credete sia la vostra coscienza e che non è altro che una succursale di quel fascio di nervi che vi serve da cervello. E pertanto…

La solitudine…

La disperazione è una forma superiore di critica. Per ora, noi la chiameremo “felicità”, perché le parole che voi adoperate non sono più “parole”, ma una specie di condotto attraverso il quale gli analfabeti hanno la coscienza a posto. Ma…

la solitudine…

Del Codice Civile ne parleremo più tardi.
Per ora, io vorrei codificare l’incodificabile.
Io vorrei misurare il pozzo di San Patrizio delle vostre democrazie.
Vorrei immergermi nel vuoto assoluto e divenire il non detto, il non avvenuto, il non vergine per mancanza di lucidità.
La lucidità me la tengo nelle mutande.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Uno c’ha tante idee
ma di modi di stare insieme
ce n’è solo due
c’è chi vive in piccole comuni o in tribù
la famiglia e il rapporto di coppia
c’è già nei capitoli precedenti,
ormai non se ne può più.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Certo, vivendo insieme
se chiedi aiuto
quando sei disperato e non sopporti
puoi appoggiarti.
Un po’ di buona volontà
e riesco pure a farmi amare
ma perdo troppi pezzi e poi
son cazzi miei, non mi ritrovo più.

[parlato] Vacca troia!… dove sono?… Eccoli lì che se li mangiano i miei pezzi… cannibali!… Troppa fame, credimi… gli dai una mano ti mangiano il braccio… Ve la dò io la comune!… Cannibali… Credimi, da soli si sta bene… In due? È già un esercito.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Uno fa quel che può
per poter conquistare gli altri
castrandosi un po’
c’è chi ama o fa sfoggio di bontà, ma non è lui
è il suo modo di farsi accettare di più
anche a costo di scordarsi di sé
ma non basta mai.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Certo l’eremita
è veramente saggio
lui se ne sbatte e resta in piedi
senza appoggio.
Ha tante buone qualità
ma è un animale poco sociale.
Ti serve come esempio e poi
son cazzi suoi, non lo rivedi più.

[parlato] Vecchia troia!… Se ne frega lui… che carattere… Sì, va bene, ci ha del fascino, ma è un po’ coglione, credimi… Che provi, che provi lui a fare un gruppo… come noi! Giù dal monte… porca vacca!… No, eh… si rifiuta… che individuo. Meglio noi… credimi: sempre insieme, che costanza, uniti… attaccati… sempre attaccati… come i ciglioni…

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

DUOMO DI SAN PROCOLO MARTIRE al Rione Terra di Pozzuoli (NA).

 

 

Stemma Pozzuoli 2

 

Stemma araldico di Pozzuoli

Foto pozzuoli 2

Palazzo Migliaresi

 

Foto pozzuoli 3

Fianco Est del Tempio d’Augusto – Duomo

 

Foto pozzuoli 4

Via Vescovado – parallela

 

Foto Pozzuoli 5

Via Vescovado

 

Foto Pozzuoli 6

Il Seminario con la chiesetta del Coretto

Foto Pozzuoli 7

Lato Est con le colonne Corintie

Foto Pozzuoli 8

Interno con colonne Corintie – Lato Ovest

 

Foto Pozzuoli 9

Interno, controfacciata in cristallo con serigrafie delle colonne mancanti e soffitto a cassettoni
Foto Pozzuoli 10

Interno restaurato, con soffitto a cassettoni
Foto pozzuoli 11

Interno con volta a botte e lunette unghiate, con Coro e Presbiterio

 

Foto pozzuoli 13

Resti del Portale d’ingresso originale

 

San Procolo- A. Gentileschi

San Procolo_A. Gentileschi       

Foto Pozzuoli 12

Decollazione di San Gennaro, Agostino Beltramo 1635

Ringrazio Enzo per questo splendido contributo – fra aprile e maggio scorso ho potuto assistere alla riapertura di questo vero e proprio tesoro dell’arte. Pozzuoli ha una storia plurimillenaria che non può essere annullata dall’incuria – dobbiamo difenderla così come dobbiamo difendere la STORIA di migliaia di altre realtà che ci sono state lasciate dai nostri avi come patrimonio culturale su cui far crescere il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. (J.M.)

La Cattedrale-Duomo, è dedicata al martire cristiano Procolo, patrono di Pozzuoli, formata dall’unione di tre chiese alquanto vetuste: l’antico Duomo, la chiesa della SS. Trinità e la piccola chiesa del Corpo di Cristo detta anche Coretto adiacente al Tempio, dalla cui Porta Santa si accede al suo interno. Essa fu edificata intorno al VI sec., sui resti dell’antico Capitolium detto “Tempio di Augusto”, e che l’incendio del 1964 portò alla luce le Colonne in stile Corintio, che prima erano coperte dalle mura. L’edificio, in seguito ai terremoti del 1538, (eruzione del Monte Nuovo) fu restaurato nel 1544 e in seguito verso la metà del XVII sec., con la sapiente abilità di Cosimo Fanzago che lo trasformò in uno splendido edificio barocco. Risale a questo periodo l’ampliamento della struttura, a cui veniva annessa l’adiacente chiesa della SS. Trinità (già presente nel sec. XII). L’interno, si presenta maestoso e scenografico, a una sola navata coperta da una volta a botte unghiata e con cappelle laterali. Ospita notevoli capolavori della pittura del ‘600 napoletano – (tra cui dipinti di Massimo Stanzione, Artemisia Gentileschi (San Procolo e la madre, San Gennaro nell’Anfiteatro, Martirio di San Procolo, l’Adorazione dei Magi), , Giovanni Lanfranco (Martirio di Sant’Artema, Arrivo di San Paolo a Pozzuoli), Cesare Fracanzano (l’Adorazione dei pastori, Gesù nell’orto degli ulivi), Agostino Beltramo (Decollazione di San Gennaro e martirio dei suoi confratelli nei pressi della Solfatara, opera posta nell’Abside sull’Altare Maggiore), Giacinto Diano il Pozzolano, (28/marzo/1731- Napoli, 13/08/1803), suoi sono gli affreschi del soffitto dello scalone del seminario di Pozzuoli (1755) , le tele di S. Raffaele (Martirio di s. Caterina, (1758); Incoronazione della Vergine; Guarigione di Tobia, 1760, sul soffitto della sagrestia; nonché il Ritratto di don Domenico d’Oriano, che mostra una stampa tratta dal dipinto di N. M. Rossi del 1749 raffigurante Tobiolo e l’angelo). Il Duomo, venne dichiarato Monumento Nazionale dal 1940 e dal 1949, divenne Basilica Minore Pontificia ad opera di papa Pio XII.
Il vescovo della diocesi di Pozzuoli, Gennaro Pascarella, ha inaugurato domenica 11/maggio/2014, la riapertura e la conseguente restituzione ai fedeli della Cattedrale-Duomo di San Procolo Martire del Rione Terra, a cinquant’anni dall’incendio, che nella notte tra il 16 e il 17/ maggio/1964, la distrusse completamente. Ancora da ristrutturare e recuperare sono la Sagrestia e il Campanile. Il Duomo si presenta con una facciata esastila in stile Corintio, di cui solo 2 colonne (laterali) ci sono pervenute quasi intatte, mentre le altre 4 centrali, sono serigrafie su cristallo, i due fianchi si presentano con un aspetto maestoso e in forma octastila, sempre in Stile Corintio. La parte restaurata anteriore si presenta in bell’aspetto con dei cristalli giganteschi, tenuti magnificamente insieme con delle strutture a tiranti d’acciaio, che ben si sposano con il magnifico restauro. Il restauro è opera progettata dal prof. Marco Dezzi Bardeschi, che vinto il concorso internazionale, bandito dalla Regione Campania e dalla Sovrintendenza, iniziò i lavori. Le prime attività di restauro iniziarono nel 1968, dopo l’incendio divampato tra il 16 e il 17 maggio del 1964 che distrusse l’edificio in stile barocco come precedentemente detto. La costruzione della chiesa, avvenne tra il 1632 ed il 1649, su commissione del vescovo Martín de León y Cárdenas, innalzata sulle rovine dell’antico tempio romano preesistente. Il fenomeno del bradisismo che colpì Pozzuoli nel 1970 e, poi, quello più grave nel 1983, costrinse il governo centrale “all’allontanamento forzato”-(1970)- dell’intera popolazione dalla rocca del Rione Terra, all’insaputa dell’allora sindaco-prof. Angelo Nino Gentile. L’intervento di restauro che, seguendo il principio delle carte internazionali sul restauro del “minimo intervento”, ha consentito la salvaguardia del monumento e la sua corretta conservazione che ha restituito alla chiesa la sua originaria funzione di luogo di culto, e di Monumento di eccezionale valore storico-artistico e culturale. L’apertura del Duomo e del percorso archeologico rappresentano solo una minima parte dell’acropoli puteolana, intervento realizzato grazie ai fondi dello Stato e dell’Unione europea. Una speciale menzione va a Maria Pia Corsale  che ha curato, sotto la direzione dei lavori dell’Ing. Magliulo,  il restauro dei marmi e della conservazione delle tele del Duomo-Tempio. 

Alcune notizie storico-artistiche, sono state tratte da fonti riconducibili alla Treccani editore.

Prof. Vincenzo Neri, docente di Disegno e Storia Dell’arte in pensione.

Alcune notizie storico-artistiche, sono state tratte da fonti riconducibili alla Treccani editore.

Le foto che illustrano il Duomo e le sue opere interne ed esterne, sono di proprietà del sottoscritto, coperte da proprietà intellettuale.

Notizie di carattere informativo:
Il Duomo-Cattedrale di San Procolo Martire di Pozzuoli, potrà essere visitato ogni sabato e domenica (ingresso gratuito). Sabato, dalle 9,30 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 19,00 con la celebrazione della Messa nel Duomo alle 19,00, Domenica, dalle 9,30 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 21,00 con la celebrazione della Messa alle ore 12,00.
La visita all’interno della Rocca del Rione Terra è libera e gratuita.
Se il viaggiatore lo desidera, per le visite guidate, può rivolgersi all’associazione culturale di volontariato NEMEA: telefax 081.853.06.26 – cell. 388.112.71.88 – 388.101.97.12 e-mail: assnemea@hotmail.com .
Per raggiungere la Rocca del Rione Terra di Pozzuoli (NA), si può utilizzare il servizio metropolitano per chi viene da Napoli, mentre, per chi proviene da fuori e munito di mezzo di locomozione privato o pubblico (autobus), è presente sul territorio l’AutoTerminal, sito in via Vecchie delle Vigne, nei pressi della Solfatara dove è possibile parcheggiare.

LA PRIMA COSA BELLA 21 MARZO 2014 – POZZUOLI – (ANTEFATTO) INCONTRO CON G.M.GAUDINO A PRATO

'o valioneGiro di lunealdis1Casina_Vanvitelliana

LA PRIMA COSA BELLA 21 MARZO 2014 – L’ANTEFATTO dell’incontro con Giuseppe Mario Gaudino

“Professore, c’è qui un giovane che la cerca” la segretaria dell’Assessore aveva un tono ilare insolito e lo esplicitò subito dopo. “Ha chiesto di essere ricevuto dall’Assessore Maddaluno”. Ora, a parte la perplessità generica e lo sbandamento relativo al fatto che avrei potuto supporre che l’equivoco fosse stato generato da una mia bugia, mi venne da sorridere. In effetti non ero Assessore e non conoscevo in maniera diretta questo giovane anche se ne avevo sentito parlare negli ambienti culturali e cinematografici come “promessa” della produzione di ricerca: in quegli anni (la metà degli anni Ottanta) più di ora mi occupavo di Cinema seguendo in particolare le giovani generazioni ed ero in contatto con molti fra i rappresentanti dell’arte cinematografica sia nei settori della produzione che in quelli della realizzazione. Avevo già progettato “Film Video Makers toscani” e di questo giovane avevo visto “Aldis”, che mi aveva colpito particolarmente per la fotografia ed il montaggio, oltre che per la scelta di girare la maggior parte del video sul Lago Fusaro e nella Casina vanvitelliana che è collocata su quel Lago dei Campi Flegrei e vi si accede attraverso un pontile. Era chiaro che Giuseppe arrivasse da Roma con un’informazione ricevuta da amici comuni di Pozzuoli che gli avevano segnalato la mia presenza a Prato come “collaboratore” esterno dell’Assessorato alla Cultura e nel passaggio comunicativo si era prodotta una distorsione del tutto evidente. Conoscevo, dunque, alcuni elementi della sua storia e sapevo di avere amici tra i suoi parenti che non sentivo né vedevo da alcuni anni. Avevo lasciato Pozzuoli nel 1975 ed i fratelli Tegazzini (Silvio e Giancarlo), cugini di Giuseppe, erano stati fra i migliori amici che avessi frequentato in modo continuativo. Alla Segretaria (non ricordo se fosse Dori, Carla o Enrica) dissi di farlo attendere, scusandomi per l’equivoco che era stato creato e che – lo ribadii – non dipendeva di certo da me, anche se non saprò mai se fossi stato convincente. In una mezzora fui in via Cairoli (l’Assessorato alla Cultura del Comune era nel Palazzo Buonamici poco prima dell’Hotel Flora); Giuseppe mi aspettava nell’ingresso del Palazzo e, dopo una breve presentazione, mi disse che non poteva trattenersi e mi consegnò un pacchetto che, prima di salutarlo, aprii: c’era la sceneggiatura di un suo film che andava preparando. “Giro di lune tra terra e mare”; già dalle prime pagine che mi apparvero, accompagnate da fotocopie in bianco e nero di fotografie “di scena”, notai che, in continuità con “Aldis”, permaneva lo stile, visionario ed onirico, basato su ricerca ambientale collegata ad un mondo per me “comune” di esperienze vissute. Le immagini descritte per circa trenta pagine appartenevano agli ambienti naturali che ben conoscevo e rievocavano in me sensazioni riposte abbandonate da circa un decennio. Salutai Giuseppe Gaudino e mi ripromisi di ricontattarlo (c’era un indirizzo sul frontespizio, ed un numero di telefono). A dire il vero ho sempre avuto con me quella sceneggiatura ed ho sempre pensato con piacere a Giuseppe ma per molti anni, troppi, non ero riuscito ad incontrarlo; quando scendevo a Pozzuoli i miei impegni erano quelli “di famiglia”: anche gli amici “comuni” e quelli che per me avevano avuto un significato fortissimo nella mia formazione non venivano da me contattati. E non so di certo dire perché mai mi comportassi così; c’era un muro che non riuscivo a valicare, anche perché sapevo di non poter condividere percorsi comuni, dato che il mio lavoro non mi consentiva di spostarmi a piacimento. So bene di ricercare una giustificazione al mio atteggiamento a dir poco superificiali ma i miei impegni professionali, culturali e politici – che erano un tutt’uno con quelli familiari – mi impedivano davvero di poter pensare a costruire qualcosaltro, anche se nel mio luogo di crescita esistenziale. Dal 2013, pur essendo più vecchio, qualcosa è cambiato; con l’età della pensione ho scelto di ritornare a Pozzuoli – non stabilmente ma con maggiore assiduità. In effetti sono stanco della vita politica; è diventata insopportabile! La Cultura per me rimane l’unica ancora di salvezza; e gli antichi amori e le amicizie sono per me elemento di recupero di una dimensione umana necessaria per poter sopravvivere a questo disastro. Ed è venuto dunque il tempo per riprendere contatti. E così, dopo poco meno di trenta anni da quell’incontro, mi lancio alla ricerca del tempo perduto e dei passi smarriti. I recapiti sul frontespizio della sceneggiatura non sono più utili; il tempo anche per Giuseppe Gaudino è passato. Ma sono determinato ad incontrarlo di nuovo, stavolta possibilmente più a lungo. Ho bisogno di sapere quello che non so. Gaudino ha realizzato ovviamente in tutti questi anni non solo “Giro di lune…”, ha lavorato come scenografo, ha costituito una casa di produzione (la Gaundri) con Isabella Sandri, sua compagna di vita e di lavoro, ed il mio desiderio di recuperare parte, anche minima, di quanto avremmo potuto fare è fortissimo.

Gaudino

 

CARO MICHELE SERRA, LA TUA (FORSE) E’ UNA RESA, UN PATETICO TRAMONTO!

Patetico tramonto 2Patetico tramonto Tramonto sul mare

Immagine mia

Caro Michele Serra, la tua (forse) è una “resa”, un patetico tramonto! di J.M. Non è facile, di questi tempi, intrattenere una discussione su “ Le magnifiche sorti e progressive” della gente… in un tempo come quello che ci è toccato in sorte di vivere. C’è una profonda stanchezza di una parte della popolazione che non ha più speranze se non quel timido lumicino della veemenza di una “nuova” classe dirigente che sembra ottenere ampi consensi. Questi sono soltanto delle vere e proprie “cambiali in bianco” difficili da onorare. Sull’ultimo numero del “Venerdì” di “Repubblica” del 18 luglio nella rubrica “Per Posta” Michele Serra risponde ad una lettrice che espone le sue profonde perplessità sulle attività del Governo Renzi soprattutto in materia di “Riforme” affermando che, anche se per lui Renzi incarna, come Berlusconi, un sogno fatto di semplificazione e per questo ne condivide l’alto tasso di “rischio”, nondimeno lo ha votato. E lo ha fatto perché stanco politicamente di se stesso e della sua generazione. Michele Serra riconosce che Renzi è soprattutto “gigione”, possiede un ego sovrastimato e mostra eccessi di disinvoltura ma difende la sua scelta perché stanco del deja vu del deja entendu e gli si abbassano le palpebre. Ora, ecco quel che ci rivela Serra affermandolo solo in parte: stanco di se stesso e dei suoi non trova altra soluzione che affidarsi alla sicurezza delle parole di un demagogo, tale anche se appartiene ad una delle “correnti” che fondarono il PD. Non è diverso da altri, Michele Serra, e per la soddisfazione di chi amministra il Partito sono tanti come lui a sentirsi tranquilli, “sereni” come voleva lo stesso leader che si fosse. Sono tanti che non hanno più tanta voglia di discutere e si affidano con fiducia nelle mani di un leader e di pochi altri; sono tanti coloro che non chiedono altro che l’economia riprenda, a partire dai posti di lavoro ancor meglio se quelli riservati a se stesso o a propri congiunti ed amici, e si pone in attesa fiduciosa, infischiandosene di sapere se verranno rispettati davvero ( a chiacchiere se ne fa gran parlare) i termini di regolarità riferiti soprattutto al merito. Ora, a dire il vero, non c’è da meravigliarsi se tante di queste persone “disperate” (è uno stato molto diffuso, infatti, ed è pericoloso perché si abbina ad “ultima spiaggia”, il richiamo alla quale non mi convince tuttavia ad affidarmi ad un “bamboccio” dispettoso e rancoroso, oltre che profondamente irrispettoso nei confronti di chi non condivide il suo “pensiero”) vogliano affidarsi ad un predicatore capace di trascinare le masse. Lo è, a meno che non si debba pensare ad interessi personali, per uno come Michele Serra. E’ possibile – mi chiedo – che vi sia una “linea editoriale” collegata anche ai rapporti molto forti fra il “padrone” di “Repubblica” ed il Governo Renzi? Ed ancora, quali sono gli interessi che legano queste due entità? Devo pensare che lo stesso “affaire Barca” con quella telefonata misteriosa (c’è stata o non c’è stata?) fra lui e De Benedetti che lo contattava per proporgli un Ministero sia riferibile a qualcosa di molto ma molto misterioso; e la scomparsa, dalle principali colonne editoriali, di Fabrizio Barca, che pure sta portando avanti esperienze in molte parti d’Italia, ne potrebbe essere una riprova. Se la questione è di tipo “personale” credo che quella di Michele Serra sia una vera e propria resa, un patetico tramonto nel quale non intendo essere coinvolto. Per fortuna ci sono personaggi importanti come Gianfranco Pasquino che non si lasciano coinvolgere da questo appiattimento. Su un Blog che credo sia riconducibile a lui stesso il cui link è il seguente (http://www.gazebos.it/ElencoArticoli.aspx?autore=1209) Pasquino scrive un articolo dal titolo “La luna in cielo e la coscienza in Senato” nel quale analizza la situazione caotica che stiamo attraversando rilevandone la pericolosità e denuncia la pretesa di un Governo non eletto nell’ affrontare il nodo delle Riforme di non voler riconoscere la libertà di coscienza ai parlamentari dissenzienti. L’articolo si apre con un riferimento ad un episodio che coinvolse “cento parlamentari laburisti che una decina di anni fa scattarono in piedi uno ad uno a Westminster per negare il voto al loro popolarissimo giovane e veloce Mr Prime Minister che imponeva al Regno Unito di andare in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. No, quella guerra non era stata decisa in nessun Congresso di partito. Non era stata preannunciata in nessuna campagna elettorale. Non era neppure (sic) soltanto un problema di coscienza, che, secondo la vice-segretaria del PD non si può chiamare in causa quando si riforma quel piccolo particolare che si chiama Costituzione. I parlamentari laburisti che, senza ombra di dubbio, ne sanno più di Serracchiani, Guerini e Moretti, sostenevano la loro coscienza con la scienza: non c’erano prove convincenti dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Sarebbero arrivate con gli americani di quel genio di Bush. Non siamo inglesi. Qualcuno, però, potrebbe, studiando, cercare di diventarlo.” Ho riportato la prima parte dell’articolo. Il resto lo potete trovare cliccando il link che vi ho allegato. Buona fortuna!