UN CONTRIBUTO A reloaded – PRATO UN CASO DI “ANALFABETISMO” INDUSTRIALE DI RITORNO?

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Lo scorso 30 luglio pubblicavo un reloaded di un mio articolo su politicsblog.it nel quale si assegna la crisi del tessile e dell’economia del Distretto di Prato ad una incapacità culturale degli imprenditori che hanno preferito trasformarsi in immobiliaristi accreditando a tale funzione una maggiore possibilità di guadagno. Anche per questo negli ultimi anni si continua a costruire in modo dissennato consumando suolo e cementificando gli spazi. Un lettore che non conosco (lo scrive nella parte introduttiva) interviene consigliando anche la lettura di un commento ad un articolo de “L’Intraprendente” dedicato a Edoardo Nesi. Per completezza e così come proposto dal lettore di questo Blog aggiungo sia il link dell’articolo sia il commento copiato ed incollato di un certo Giovanni.

Caro Giuseppe, non ci conosciamo e, probabilmente, non ci conosceremo mai, vista la nostra distanza fisica e professionale Questo tuo post (il cui contenuto di analisi mi trova d’accordissimo), spiace dirlo, arriva in ritardo: il più è fatto e quel che ci sarebbe da fare richiederebbe anni di impegno totale, impegno di cui non vedo assolutamente alcuna consistente fiammella. L’arretratezza italiana, culturale e produttiva, è evidente ed in una situazione di concorrenza globale in cui Paesi ben più solidi del nostro arrancano, l’epilogo è immaginabile. A questo la stessa “opposizione” non pone né attenzione (vedi il peloso “buonismo” nei confronti dei cinesi che certo non scaturisce da analisi seria) né conseguente azione che non sia lo scimmiottare, in salsa sinistrese, i vari sceriffi (legalità! legalità! Grido che, urlato dagli italiani, non può che suscitare fragorose risate) o per lo più patetiche trovate sul prodotto “tipico”. E’ quella stessa “opposizione” che singhiozza sulla piccola e media impresa “che da lavoro”, che deve essere salvata, che è il made in italy, etc. Bisognerebbe dire che QUESTA piccola e media impresa deve chiudere e deve essere almeno sostituita da tutt’ altra PMI. Il pratese (e l’italiano) medio, con tutta l’arroganza del provinciale, senza oramai alcun particolare merito, continua a credere di aver diritto ad un posto al sole per decreto divino, rimpiangendo i bei vecchi tempi in cui, grazie anche alla globalizzazione delle merci (a cui ancora non si era aggiunta ancora la globalizzazione della finanza) poteva importare materie prime a due soldi e rivendere tessuti non certo pregiati a venti soldi. Questo pratese (e questo italiano) è convinto che la Cina, il Pakistan, l’India, l’Indonesia o la Nigeria siano rappresentati dai poveracci che arrivano in “casa nostra” e ignora che si avviano ad essere potenze economiche e scientifiche continentali o mondiali, con università, centri di ricerca, studenti e docenti che girano per il mondo. Sarebbe troppo impopolare basare su questo un programma politico; sarebbe troppo doloroso dire non ai politici, ma ad amministratori, imprenditori, intellettuali, semplici “cittadini” (e di tutti loro i “politici” sono stati e sono il facile capro espiatorio o il consolatore sollecito) di “andare a casa”, di cambiare vita ed abitudini in tempi, oramai, brevissimi.
La meritocrazia senza un obiettivo che faccia da parametro al merito è un ulteriore modo per addossare la colpa ai “cattivi”. Nonostante tutto, il merito conta, non da solo, ma conta. Il problema è che bisognerebbe chiedersi se è “meritevole” il pratese che assume l’operaio disposto, meritevolmente, a lavorare giorno e notte per produrre “pezze”, ma non assume (a che gli servirebbe?) il nanotecnologo meritevolissimo.
Ai giovani che ancora oggi la scuola (contro ogni pretesa delle famiglie che “tanto serve solo il pezzo di carta”) forma spesso bene, il consiglio da dare è quello di andare via finchè sono ancora in tempo, prima che il mercato del lavoro, ad esempio, europeo non si saturi con teste e mani specializzate e provenienti da altri Paesi extracomunitari (che vengono accolti a braccia aperte, se altamente specializzate). Tutto questo fino a quando la finanza “cattiva” che fino a pochi anni addietro ha fatto la fortuna di tantissimi correntisti pratesi ed italiani, non scoppi definitivamente

Se hai ancora pazienza, ti consiglio di leggere questo commento che lessi parecchio tempo fa qui http://www.lintraprendente.it/2013/12/nesi-difende-i-capannoni-di-prato-dai-cinesi-la-sua-famiglia-glieli-affitta/
e che ora copio/incollo:

Un abbozzo di narrazione alternativa su Prato (ma anche su Faenza, Matera, etc.)
A Prato il “nero” NON è esistito fino a 30 anni fa, ma dall’inizio del tessile “modello Prato” (anni ’60 circa) ad OGGI. Il “modello Prato” nacque con la chiusura delle grandi aziende tessili e la nascita dei “padroncini”, piccole e piccolissime aziende dove l’aumento dei guadagni poteva poggiare su autosfruttamento e “risparmi” di vario genere e non certo su innovazione e ricerca (come è di moda dire oggi). Questo meccanismo incocciò, per altro, in una fase di crescita generale dei consumi e di “piena occupazione” per cui anche i salari non erano comprimibili più di tanto. Ci furono delle crisi nel corso di quegli anni, piuttosto ricorrrenti, ma praticamente nulla cambiò nel “distretto: i telai, l’organizzazione, gli operai, rimasero praticamente gli stessi. Alla fine degli anni 80 il sistema cominciò ad arrivare ai limiti: il globo era in affanno e si chiedevano prezzi sempre più bassi. In quel periodo il crack della Cassa, la “mamma di Prato” come qualcuno la definiva: 1600 miliardi di sofferenze, un buco di 400 miliardi di lire, qualcuno dice di più, di più ancora dell’Ambrosiano; qualcun altro disse (e dice) che molti soldi andarono in poche ed inaffidabili mani. Crediti facili. Parallelamente era iniziata la smobilitazione: si iniziava ad andare all’estero (Tunisia, Turchia, Sud-America, etc.). Si mandavano macchine e relativo tecnico che in 20-30 giorni o anche meno (alla faccia del know-how) istruiva i nuovi operai. Alla fine il gioco era sempre quello: lavorare di più a meno. Per fortuna c’era aria di de-regulation a giro, anche i pratesi fissi davanti ai monitor esterni delle banche a guardarsi i numeretti dei titoli che creavano danaro dal nulla, danaro che reggeva i consumi USA ed Europei (quella sì che erano globalizzazione e finanza fatta come si deve!) e rivolava fino al “mattone”. Ve lo ricordate il boom edilizio pratese anni ’80 e ’90? E poi c’era sempre il telaio in garage, una specie di garanzia per il futuro, sempre quello da 10-15-20 anni, sistemato accanto all’auto nuova di zecca, vecchia al massimo di 5 anni. Magari la Ferrari, chè ne abbiamo più noi che i milanesi. La grande famiglia pratese dormiva sonni tranquilli, nessuno sciopero, casa al mare per tutti, godersi la vita. Per i figli che avevano un po’ voglia di studiare il Buzzi, gli altri a prendere il caffè a Milano la sera con la macchina del babbo, quella continua “fuga da fermo” di una generazione che proprio di fuggire non aveva per nulla voglia. Nessuno voleva davvero smuovere le acque, tantomeno affliggere con “lacci e lacciuoli” chi produceva ricchezza e, magari, voleva lasciare qualcosa “al sicuro”. Oddio, c’era qualcuno che parlava di “società della conoscenza”, di “nuova divisione internazionale del lavoro”… e son chiacchiere, noi s’è gente che si lavora. E poi non lo sapete che il mondo, il mondo intero finisce a Prato “A Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l’onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo”? Lo diceva il Malaparte, quel Kurt Suckert lì. Prato detta, il mondo copia.
E poi arrivarono i cinesi. Ed erano tanti: la popolazione dell’ Europa intera sommata a quella degli USA, il tutto moltiplicato due. A dire il vero mica solo loro. Indiani, russi, asiatici assortiti, brasiliani, persino parecchi africani. Una metà del mondo che offre salari bassi, territori produttivi praticamente vergini. E che di Prato non sanno nemmeno dov’è. Però e son tanti e un po’ ne arrivano fino a qui di cinesi, contadini ignoranti e maleducati che manco si capiscono con gli altri cinesi. Ma lavorano come ciuchi, come schiavi, con il sogno di tutti gli emigranti: farselo così per un po’ di tempo e poi tornare al paese, ricco ed invidiato da tutti, aprire il bar in piazza e farsi la casa “a solo” col giardino. Nesssuno se ne ricorderà più di quello che hai passato quando ci avrai gli sghei in saccoccia. Non sono mica angioletti, i cinesi. Vanno dove possono adattarsi rapidamente, dove non c’è da imparare granchè per iniziare a fare soldi subito, ma dove c’è da lavorare tanto ed a poco, chè è una cosa che sanno fare. E dove non ci sono molti “lacci e lacciuoli”. Nemmeno edilizi: guardano il Cantiere, costruito interamente su terreni delle Ferrovie dello Stato e capiscono. Non si mettono neanche ai telai, a fare filati o tessuti che conviene di più comprare in Cina a prezzi da sbanco: non è nemmeno una idea loro: hanno, come sempre, copiato. E’ una moda che si diffonde: le aziende hanno la testa in Europa o in USA ed il resto in Cina (o india, o Russia, o Moldavia). I computer si progettano e, magari, assemblano all’Ovest, ma si fabbricano (e smaltiscono) all’Est. Le auto idem con patate. E i sandalini. E la tuta da sub. Persino il fucile per anda’ a sparare ai cignali. E la bandierina della Fiorentina e della Juve. Ed è andata bene a tutti: il mondo intero si accapiglia, poi fa pace, scopre tradizioni locali e piatti tipici, si insulta, cerca sesso, mostra la foto del gattino, si straccia le vesti sui diritti umani negati, tutto su affari elettronici Made in China (o territori limitrofi) a prezzi in calo costante ed il cui numero pare supererà quest’anno di grazia 2013, il numero degli abitanti della Terra. “Pronto…? Cosa vuoi per cena? Il filetto o le ova? Oh, guarda ‘ste cinesi al supermercato m’hanno bell’…”.
Ma la colpa, si sa, è dei politici.

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