reloaded “I giardini di via dell’Alberaccio”

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reloaded “I giardini di via dell’Alberaccio”

“Sì, in quella foto che ti ho mostrato ieri ero proprio in questo giardino! Ma, e tu lo hai visto, non c’era ancora. C’era un cantiere e, senza il nostro impegno, in questo posto ci sarebbe stato un altro palazzo….Erano altri tempi, ero giovane, lo hai visto no? Avevo ancora tanti capelli! Incazzato sì! Forse più di ora, anche se oggi non ho più la “speranza”.”

Chissà perché ma pochi giorni prima mi ero arrampicato sull’alto della libreria “Antica Venezia” con una scala, uno “scaleo” di legno, molto incerta e traballante e ne avevo estratto una vecchia cartella arabescata ricolma di vecchie fotografie. Qualche giorno prima avevo partecipato ad un work shop con Enrico Bianda e ne avevo tratto lo stimolo per fotografare il territorio ma anche per recuperare quel che avevo nei cassetti o nelle parti alte dei mobili antichi. Chissà perché i nostri ricordi li collochiamo così fuori dalla nostra portata; non ho soffitte in casa: da quaranta anni vivo in un condominio di sei piani ma abitiamo solo al quinto. Forse sarà una forma di difesa o la volontà di allontanare da noi il passare del tempo, la volontà di contrastare in modo infantile i segni che il tempo ci infligge.
Ho provato poi a metterle in ordine… le avevo lasciate lì da un po’ di anni in maniera confusa… ma sentivo da tempo una formidabile esigenza di riordinarle ed il lavoro comune al Circolo l’aveva moltiplicata… foto senza date, di difficile collocazione all’interno di un diagramma cronologico… E così, mentre ero sul tavolone nella stanza luminosa della mia casa abbastanza alta sui tetti di San Paolo con centinaia di fotografie buttate a casaccio in ogni suo angolo è venuta a trovarmi come fa ogni fine settimana mia figlia Arianna con il mio nipotino Andrea che ha cinque anni ma è un ragazzino in gamba che dimostra di essere ben più maturo di quelli della sua età, un ometto, un uomo in miniatura con un’esuberante curiosità. Ed è così che tutta quella roba, forse anche lo stesso disordine lo ha attratto immediatamente.
Avevo poco più della sua età quando sono arrivato in questa periferia di Prato; con la mia famiglia abitavamo nelle “baiadere” in una zona di confine oltre la quale ampi erano gli spazi verdi quasi tutti coltivati. Venivamo da un’altra periferia, quella non troppo lontana di Firenze e trovai qualche difficoltà ad inserirmi fra i miei coetanei a scuola perché, a volte può apparire ben strano, non parlavamo proprio la stessa lingua.
Tardai anche per questo ad inserirmi in uno dei gruppi di ragazzi che in San Paolo erano nati, tranne che con Ginotto, la cui famiglia era venuta già da qualche anno prima della mia giù dal Mugello: il padre lavorava come stalliere in una importante Fattoria ai piedi del Monteferrato e la madre andava a servizio in una casa signorile appena fuori delle Mura di Prato.
Di quegli anni e di quelle avventure non ho foto; non le facevamo mai e quelle che ho conservato riguardano solo la mia famiglia. Non so cosa sia stato di Ginotto… e non ho nemmeno una sua foto.

“Vedi, Andrea, il più della volte i territori sono il risultato della volontà delle comunità che le abitano. E questo accade anche quando la volontà è debole e vi prevalgono interessi di pochi. Questo giardino non ci sarebbe stato senza l’impegno di alcuni di noi”.

…Il quartiere fra gli anni Sessanta e i Settanta si era affollato a dismisura; vi erano arrivati nuovi immigrati – molti dal Sud altri dal Centro e dal Nord, i primi soprattutto i primi qui li chiamavamo “marocchini”. L’affluenza era stata così massiccia in un periodo di tempo molto limitato al punto che il Comune non ebbe modo, in effetti non volle, di verificare e seguire progettazioni e realizzazioni urbanistiche e i “palazzoni” sorsero come funghi, senza criteri prestabiliti e senza alcun controllo. Era tutto necessario ma ovviamente qualcuno ne approfittò.
A quel tempo ero ormai adulto; avevo altri amici con i quali ero cresciuto, Giuseppe, Vincenzo, Elda, Sirianna, Michelangelo e con loro si andava a ballare nei Circoli e nelle Case del Popolo; ce n’era uno al Centro ben frequentato, il Circolo “Rossi”, a due passi dal Castello dell’Imperatore e proprio sotto la sede del Partito Comunista. Con loro ero anche iscritto al Partito, tutti lo eravamo ed io insieme a Giuseppe ero nel Direttivo locale; e c’era anche una struttura di Quartiere con un Presidente ed un Comitato tutto di non eletti. in tutta quella confusione innescata da quegli arrivi “di massa”, nessuno – nemmeno noi che eravamo nel Quartiere e lavoravamo nelle Sezioni – sapeva quel che stava per accadere. In verità nessuno aveva mai saputo molte delle non-scelte urbanistiche che l’Amministrazione aveva attuato nel corso degli ultimi anni.
E così una mattina… ero appena rientrato dal turno di notte della tessitura che fu proprio Michelangelo a scampanellare dal portone. Mi affacciai per vedere chi fosse il disturbatore mattutino: “Oh vieni giù! ci sono già le ruspe…” Non capii bene cosa volesse dirmi ma mi riaggiustai i pantaloni alla meglio ed ancora in pantofole e con la tazzina di caffè tra le mani scesi per le scale e rapidamente, senza nemmeno badare alle ultime gocce la lasciai sul bordo del primo finestrone, fui giù. “Che succede, Michelangelo?” In effetti non ci avevo capito granché anche se mi ero reso conto della gravità della situazione. “Là in quello spiazzo dove noi abbiamo sempre pensato di farci un giardino ci sono le ruspe e gli operai lo stanno transennando…Saranno arrivati con il buio!” Rientrai in casa con la stessa velocità con cui ero sceso, misi le scarpe senza nemmeno allacciarle e volai giù. “E allora, andiamo!”
“Il sonno, Andrea, mi era passato ma allora non ci pensavo nemmeno. Lungo il percorso ci si fermò a chiamare altri compagni, altri amici cui spiegavamo il motivo della nostra concitazione: ed in men che non si dica anche questi ne chiamarono altri. Le donne accorsero con i bambini che avrebbero dovuto accompagnare a scuola, gli anziani sollecitati dalle donne informate da un tam tam mediterraneo erano confluiti tutti davanti a questo spiazzo, proprio qua dove ora ci troviamo, caro Andrea. E proprio io, insieme a Michelangelo ed Elda che ci aveva raggiunti, con questa folla alle spalle – più di centocinquanta forse duecento persone – andai a parlare con il capomastro, chiedendogli di sospendere i lavori. Era a tutta evidenza che volevano tirar su un altro “palazzone”! Lui però ci disse che non ci poteva fare nulla.
La gente diventò irrequieta e ci toccò calmarla facendo ragionare quelli che sembravano più agguerriti ma anche capaci di comprendere. Poi io e Elda andammo a casa del Presidente del Quartiere che dopo una nostra breve illustrazione ci accompagnò al Palazzo Comunale dove, grazie soprattutto a lui, al suo credito, fummo subito ricevuti dal Sindaco che, informato delle intenzioni “ragionevoli” della gente, telefonò ai vigili chiedendo che facessero sospendere, perlomeno in quella giornata, i lavori. Noi, però, chiedemmo al Sindaco di venire ad ascoltarci; mentre con la 500 del Presidente andavamo verso il Centro avevamo concordato con lui di convocare un’Assemblea urgente; ed era giusto che vi fosse invitato il Sindaco…. E tu lo vedi, come è andata a finire. I lavori non ripresero, anche se per più di un mese le ruspe ed altri attrezzi per gli scavi delle fondamenta e materiali vari rimasero minacciosi sul posto difesi da un doppio recinto di metallo e di legno.
A quel tempo Ginotto era andato già via, credo in Belgio ma non ne ho più avuto notizie ed alcuni dei miei amici sono partiti per sempre. Tu, Andrea, ricorda che gli interessi dei poveri come noi che pure stiamo ancora bene non sono quasi mai gli stessi dei ricchi, soprattutto quelli che hanno il brutto difetto di volere sempre di più, perché hanno una gran paura di diventare come noi o peggio di noi. E per noi un giardino conquistato ci fa stare bene, ci fa vivere meglio. Loro non ne sentono il bisogno o, forse, e questo è triste, non sanno nemmeno più di cosa hanno bisogno”.

FINE

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