I REGALI DI NATALE – intro e parti 1- 4 (in attesa della n.5 che pubblicherò domani)

I regali di Natale – intro

Tra gli aspetti positivi di queste “feste” natalizie c’è da annoverare la possibilità di potersi incontrare in famiglia, anche se in misura ridotta dovuta a questo periodo particolare nel quale ci siamo trovati a vivere. Senza alcun dubbio c’è a questo mondo chi sta peggio di noi, molto peggio. E l’elenco che dovrei qui snocciolare sarebbe molto lungo; anche molti dei nostri più vicini predecessori e qualcuno di quelli che ancora oggi sono con noi hanno vissuto momenti difficili, collegati a periodi difficili dal punto di vista sanitario e bellico. Mio padre ha vissuto durante la seconda guerra mondiale ed ha conosciuto la famigerata “spagnola”, ha fatto i conti con la miseria più nera patendo proprio la fame e in tempi più recenti ha dovuto barcamenarsi tra il colera del 1973 e il bradisismo degli anni successivi, subendo un’evacuazione forzata che durò un paio di anni.

Molte vicissitudini sono state da me condivise e forse anche per questo motivo non mi sembra così pesante l’atmosfera attuale con questa pandemia. Dovrebbe ovviamente pesarmi meno, ma l’abitudine ad una vita sociale, anche intensa, non consente grandi ottimismi. Tornando per l’appunto ai nostri giorni il potersi incontrare in famiglia significa per noi in tempi normali condividere gli spazi con un massimo di otto – numero massimo, però, difficilmente raggiungibile – dico “otto” persone. Ragion per cui quel di cui penso con questi nuovi post di parlare si riferisce ad un caso assai particolare, che mi ha consentito di vedere tre diverse – per caratteristica – opere insieme a mia moglie. Scendere giù per Natale, da Prato a Pozzuoli (ecco il motivo del riferimento al bradisismo), dopo un’assenza di circa 22 mesi, un anno e tredici mesi a dir la verità, ci ha posto davanti ad una condizione inattesa, anche se avremmo potuto prevederla: il vecchio apparecchio televisivo era “off” per le “ovvie” ragioni che tutti dovrebbero ormai sapere, collegate al passaggio al digitale terrestre. A dir la verità, l’antenna aveva sempre mal funzionato ma una decine di canali fino al gennaio 2020 riuscivamo a intercettarli, e ci bastava per seguire le vicende del Paese e del Mondo. E poco più.

Siamo scesi a Napoli in quattro; forse ne incontreremo altri due, della famiglia. Due sono rimasti a Prato. E qualche volta in questi giorni, lo sappiamo, saremo appena in due, mia moglie e io, non di certo a causa della pandemia: è la norma. L’organizzazione non prevede grandi cenoni: solo un paio di “rendez vous” collettivi, in sei per l’appunto; poi mezzo gruppo ha già pensato di incontrare qualche altro gruppetto, mantenendo le distanze necessarie per evitare il più possibile contatti che potrebbero farci entrare in paranoia, sacrosanta in questo periodo ma pur sempre “paranoia”. Tutti vogliamo evitare di incorrere in errori più o meno fatali. Ed è anche per questo motivo che i nostri saluti avvengono a distanza di sicurezza, da un balcone o per telefono. D’altra parte, però, le cautele sono reciproche e da quel che sappiamo non sono meno esagerate rispetto alle nostre. Anzi; si racconta di contatti amichevoli con l’uso di saliscendi antidiluviani, come il classico “panariello”, utilizzato per scambiarsi oggetti, prodotti necessari per l’alimentazione e cibi preparati.

Faccio un passo indietro per descrivere quel che è il pregresso: le attese, le speranze, la voglia di recuperare un rapporto con la Madre Terra, o come meglio sarebbe dire “Terra Madre”, la terra natia: è di noi due ma in modo particolare e sorprendentemente da parte di nostra figlia. Decidiamo di partire il 22 dicembre, per evitare il rientro dei vacanzieri di fine anno, quelli in particolare collegati al mondo della scuola. Quando si parte, comunque si sia in due oppure in tre o quattro come questa volta, appariamo sempre una famiglia in trasloco e ci consola solo il fatto di non essere gli unici, felicitandoci del comune destino quando si incrociano altri veicoli ricolmi come un uovo. In realtà lo spazio è ridotto e i bisogni sono raddoppiati; in aggiunta si deve dire che tutte le vettovaglie che erano state lasciate nel gennaio del 2020 erano scadute e quindi dovevamo necessariamente portare con noi perlomeno i viveri di prima necessità.

Mi sono raccomandato con mia figlia affinché non si parta troppo tardi: voglio arrivare a Pozzuoli, in questo periodo di solstizio invernale, con un po’ di luce. Il mio desiderio, visto che sono considerato ormai un impenitente maniaco della precisione, viene esaudito; ma la speranza di trovare un traffico normale, no. Assistiamo inermi a lunghe file di centinaia di Tir che lottano arrancando per procedere in mezzo a chilometri di cantieri aperti. Si viaggia dunque quasi a passo d’uomo per molti chilometri. Per fortuna non fa tanto freddo e si possono tenere aperti anche se di poco i finestrini per aerare il poco spazio rimasto: c’è il rischio che qualcuno di noi covi il contagio, senza esserne consapevoli. E, poi, ho una strana tosse che mi scuote di tanto in tanto: a me sembra psicosomatica perché mi ritorna soprattutto se ci penso; ma il mio dottore ha detto che è collegata al reflusso gastro esofageo. Sarà; ma sono più o meno gli stessi sintomi che avvertivo nel marzo 2020 all’alba del Covid19.

Comunque, giusto per la cronaca, è proprio il gran traffico che mi impegna a mantenere desta l’attenzione ed anche la “tosse” non mi perseguita e di riflesso gli altri viaggiatori non hanno alcun motivo di preoccuparsi. I giovani ne approfittano per organizzare incontri e visite ad amici, luoghi da visitare e ristorantini dove rifocillarsi tutti insieme che diano garanzie di sicurezza. Mia moglie è intenta a seguire il traffico e di tanto in tanto distribuisce qualche snack. Il viaggio dopo le prime due ore e mezza da incubo procede abbastanza spedito; l’auto è revisionata ma non mi fido di lanciarmi oltre i 90 massimo 100 orari. Per fortuna non c’è più il gran traffico grazie anche alle corsie che da due sono tre, da Orte in giù. Ci siamo fermati solo per un parziale bisogno fisiologico; non mi sono mosso dall’auto. Arrivati a Santa Maria Capua Vetere, la sagoma del Vesuvio già si intravede sullo sfondo; poi sparirà e ritornerà dopo l’uscita dall’A1. Qualche altro chilometro e poi si entra nella bolgia infernale, che chi non è di queste parti non può immaginare (forse a Roma sarà la stessa cosa, ma qui a Napoli, entrare nella Tangenziale è il cordiale saluto della città e soprattutto dei suoi abitanti.

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Per fortuna c’è ancora molta luce. Napoli è luminosa; il suo clima è proverbialmente miracoloso. Anche se non più abituati, non ci sorprende il caos: basta lasciarsi portare dalla corrente, mantenendo il più possibile la barra dritta su una corsia, meglio quella centrale. Non bisogna avere reazioni nervose e da qualche tempo in qua per rimpinguare le casse del Comune ci sono multe salatissime per chi supera i 50 orari. Il caos illude il viaggiatore, ma difficilmente si riesce a superare quella velocità nella prima parte del percorso; piuttosto è più in là dopo l’uscita di Camaldoli, proseguendo verso Pozzuoli, che occorre evitare, complice un traffico solitamente molto meno intenso, di accelerare.

Siamo riusciti a arrivare con il vantaggio di un’oretta di luce. I mesi che sono passati ci hanno portato via anche qualche persona cara, non parenti ma grandi amici e mi si stringe il cuore a guardare quei balconi che pullulavano di energie creative anche durante il lockdown (erano lenitivi e consolanti i suoni e i canti, anche per noi che eravamo lontani e che osservavamo con attenzione quelle performance fino all’ultima che era apparsa un giorno prima che la triste notizia arrivasse sul tam tam dei social fino a noi) e che ora sono silenti e carichi di una profondissima struggente malinconia.

Scarichiamo l’auto con la solita difficoltà degli spazi a disposizione per poter manovrare agevolmente, ma per fortuna il carico è inferiore agli altri e qualche aiuto in più ci viene da nostra figlia e dal suo compagno, Bruno. Manovriamo sotto gli occhi vigili presenti o nascosti dei vicini di casa che affacciano sulla corte comune. I presenti argomentano anche un saluto e vorrebbero dopo questa lunga assenza anche recuperare il tempo perduto, ma dobbiamo scoraggiarli con gentilezza unita a fermezza, altrimenti a cosa sarebbero valse le ansie di arrivare perlomeno con un po’ di luce. Gli altri, quelli che occhieggiano dietro le tendine, ci diranno tra qualche ora, quando li contatteremo, di averci visti. La confusione ammassata, necessariamente con ordine, nell’auto diventa un guazzabuglio incontrollabile nelle prime stanze dell’appartamento. I pacchi si sovrappongono ad un’altra serie omologa che già è stata depositata da mia cognata, alla quale abbiamo dato il compito di fare una rapida ricognizione in casa, accertandosi che perlomeno funzionassero frigo, lavatrice e riscaldamento. Far partire il riscaldamento è un’operazione complessa per noi che in questa casa ci veniamo comunque – quando è andata bene (prima della pandemia) – due, tre massimo quattro mesi all’anno. Ognuno prende possesso degli spazi e per un paio d’ore si cerca di mettere ordine; perlomeno si sistema quel che necessita in modo primario.

Per far partire la caldaia devo uscire fuori al terrazzo e lo trovo molto sporco soprattutto di polvere; osservo il panorama del Monte Gauro, che è un vulcano e le collinette di Cigliano, che sono anche quelle la cornice agricola molto fertile di un altro vulcano, ma quel che mi colpisce è immediatamente una zaffata di quell’odore tipico della nostra terra, i Campi Flegrei e la Solfatara, che dista trecento metri da dove siamo. Si dice che quando è così intenso è segno di un’attività vulcanica molto forte. E nelle giornate successive ne avremo la conferma.

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I REGALI DI NATALE – p.3

Quando si ritorna  dopo poco meno di due anni occorre fare i conti con quel che non avevamo previsto quando, a fine gennaio del 2020, eravamo ripartiti per tornare a Prato, convinti che di lì a poco (o io o Mariella a volte facevamo ritorno da soli) e a più tardi in primavera o a Pasqua e di certo in estate vi saremmo ritornati. In quell’occasione abbiamo controllato le scadenze dei prodotti alimentari (pasta, olio, legumi, pelati, barattoli in vetro o in metallo pieni di contorni)  e dei medicinali ordinari e specifici per le nostre croniche patologie; ed erano tutti con scadenza perlomeno di sei mesi.  Non avevamo sostituito i completi dei letti e addirittura avevamo lasciato i nostri pigiami invernali sotto ciascun cuscino;  eravamo pronti a ritornare. Poi, lo si sa, come è andata. E per questi motivi tra le prime attività c’è la necessità di fare spazio nelle dispense, quelle degli armadietti in cucina e quelle del ripostiglio. In quest’ultimo abbiamo trovato anche tre confezioni intere di acqua minerale ormai scadute da più di un anno. Mentre recuperiamo spazi a favore delle poche nuove derrate alimentari (vi ricordo che lo spazio in auto è stato abbastanza ridotto) scopriamo di avere accumulato un surplus di ogni bene che sarebbe stato necessario ridurre, al netto delle scadenze. Ci si trova ad esempio nel ripostiglio di fronte a molte diverse paia di pantofole, sandali, scarpe; e negli armadi decine di camicie, pantaloni, gonne ormai datate sia per la foggia che per la loro consistenza, mentre nei comò decine di calzini e altro tipo di biancheria intima ci interrogano sul da farsi.                                                                                                                                                                                       Dopo aver aggredito i reparti alimentari che sono realisticamente più urgenti, abbiamo poi proceduto in questo periodo di vacanza a bonificare gli altri settori. Ovviamente il desiderio di mettere a dimora il materiale, poco ma ingombrante, che abbiamo trasportato viene temporaneamente accantonato e procediamo a recuperare contenitori per i materiali che dobbiamo procedere a catalogare ed eliminare (la discussione sul come e quando ci impegna in modo accanito, anche se l’urgenza ci consiglia di rinviare la soluzione).

Ovviamente il compito di condurre in porto l’impresa è tutto sulle nostre spalle; i due giovani, dopo aver messo in ordine le loro cose se ne escono per fare una ricognizione sul territorio. La stanchezza del viaggio non ci impedisce di fare altrettanto, ma rimandiamo la nostra prima spedizione al giorno dopo.

Come in ogni altro luogo ci sono i mercati locali e quindi il giorno dopo, con il sole che è già alto, decidiamo di scendere verso il porto, dove c’è l’imbarcadero per le isole flegree (Procida e Ischia) e decine di barche di pescatori che offrono a prezzi esorbitanti legati al periodo festivo pesci che non sempre possono vantare di essere freschi, anche se al massimo sono prodotti scongelati. Non mancano ovviamente i prodotti “vivi” che tuttavia hanno un costo elevato, accresciuto dalla loro consistenza più o meno idrica. Si tratta in realtà della legge del mercato, non si può pensare ad un dolo vero e proprio, anche se in questo periodo acquistare al dettaglio in assenza di prezzi esposti porta molto spesso ad inganni; e bisogna perlomeno sapere trattare sul prezzo, mostrando di avere competenza, anche quando non la possiedi.

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Nella capitale dell’area flegrea ci sono vari altri luoghi dove si svolgono le attività mercantili. Pozzuoli deve essere stata sin dall’antichità un luogo in cui si svolgevano scambi di merci. Lo testimoniano i resti archeologici del “Macellum”, una sorta di ipermercato ante litteram, che si trova proprio davanti alla linea destra del porto e che ha subìto l’affronto antistorico di essere confuso con un “Tempio” solo per il fatto che negli scavi era stata ritrovata una statuina del dio greco egiziano Serapis. Da parte loro i geologi hanno utilizzato le residue colonne che caratterizzano l’ampiezza e l’altezza di questo sito per misurare i livelli del fenomeno bradisismico, cui è sottoposta la terra flegrea. Tra il Serapeo e il mare al di là di una strada sempre molto trafficata c’è uno spazio sul quale si svolge il mercato dell’usato e delle mercerie varie. Oggi ci sono pochi banchi; quasi certamente la crisi pandemica ha ridotto il livello di scambio e in un giorno prefestivo come questo, unico nel corso dell’anno, c’è più attenzione verso i prodotti tipici alimentari. Dopo un rapido sguardo decidiamo di andare verso quello che ricordiamo essere il mercato ittico – sia quello all’ingrosso che si svolge di prima mattina prima dell’alba che a dettaglio – e quello poi della frutta e verdura al dettaglio (gestito da commercianti) e ci sorprendiamo nel notare uno scarso afflusso. Ci accorgiamo che non c’è più alcun banco e alcuni addetti ai parcheggi, che per sostenere il commercio sono stati resi liberi dall’Amministrazione comunale nel limite di due ore, ci avvertono che i banchi si sono spostati tutti poco più sopra, dove c’è il mercato coperto. In realtà qualche anno prima si erano insediati lì ma poi, se ben ricordo, erano ritornati verso la linea del mare. Ci avvertono però che il mercato è chiuso; c’è stato per tutto ieri fino a notte fonda. Ora tutti stanno nelle loro case a preparare il cenone. Ecco perché – ci diciamo Mary ed io – non c’era tanto movimento.

E così superata la villa Comunale, che è da sempre molto ridotta e non ha molto a che vedere con quelle che si chiamano allo stesso modo ma hanno la fortuna di esistere in altri luoghi, ci inoltriamo attraverso le stradine che portano verso la piazza della Repubblica. Attraversiamo quello che i puteolani hanno chiamato con una certa esagerazione – alla pari con il concetto di “Villa” – “Canal Grande”, ‘o Cannalone” memori del fatto che a causa dei fenomeni bradisismici il mare fino ai primi anni del secolo scorso lo percorreva, costringendo gli abitanti ad utilizzare passerelle simili a quelle che a Venezia adoperano quando c’è l’acqua alta. Ve ne è una testimonianza nel film “Assunta Spina” (tratto dal dramma scritto da Salvatore Di Giacomo) di Gustavo Serena e di Francesca Bertini, che ricopre anche il ruolo della protagonista (la potete vedere dal minuto 6 e 40″ del film che vi inserisco in coda a questo blocco).