PER CHI LO AVESSE PERSO O PER CHI E’ PIGRO E NON VUOLE AFFATICARSI A RICERCARE LE TRE PARTI DEL RACCONTO DA ME PUBBLICATO SU QUESTO BLOG eccolo per intero
NIENTE E’ COME SEMBRA – cronaca di un sopralluogo per TRAMEDIQUARTIERE – Prato 19 gennaio 2015 – una metanarrazione
19 – 20 gennaio – “un po’ per celia, un po’ per non morire”
Quella parte della macchina fotografica che inquadra il soggetto – o l’oggetto?
– che decidi di riprendere collocandolo in un suo attimo eterno di fissità
assoluta non poteva essere chiamato in maniera così distante dalla sua concreta
essenza. L’ “obiettivo” è infatti ciò che più lontano non può essere rispetto
alla reale “obiettività”. Tutto è fuorché “obiettivo”!
E, pur volendo rappresentare la realtà, la verità, non può che rappresentarne,
sulla linea infinita del tempo, una minima minuscola infinitesimale parte di
esso.
La dimostrazione pratica di quel che si scrive è data dalla impossibilità di
fornire un’unica spiegazione logica “obiettiva” di qualsiasi fotografia.
Ecco, dunque, quel che accade quando ci troviamo, come persone comuni, di
fronte agli oggetti che vogliamo fotografare: anche l’attimo che scegliamo e
che riusciamo ad ingabbiare, che impropriamente chiamiamo “istantanea”, è
inevitabilmente successivo a quello che avremmo voluto fermare. In questo caso
l’obiettività ricercata sfugge a noi stessi che la intendevamo invece
accogliere come unico ed essenziale punto di vista.
I ragazzi hanno percorso le
strade di San Paolo. I ragazzi – ma sono soprattutto ragazze – che seguono il
Progetto delle Trame li abbiamo indirizzati ed accompagnati ed hanno così
potuto interrogare le varie realtà del quartiere con i loro strumenti, a
partire da quelli fisiologici, gli occhi e le menti. Tutto è, dunque, relativo:
al momento, alla persona che inquadra ed a ciò che viene inquadrato. Il momento
della giornata, delle stagioni e del clima diverso, della luce che cambia. Ed
anche le contingenze storiche e sociali di una minima realtà condizionano sia i
risultati che le loro interpretazioni in modo emotivo. Diversamente.
Dal Circolo di via
Cilea partiamo e chissà perché mi vengono in mente Pirandello ed Imperiali, in
particolar modo quella storia “pirandelliana” che quest’ultimo narra ne “La
fontana del Comune”. Sarà un presagio? Sarà un presagio!
Un gruppo va verso il
“pallaio”, luogo di incontro soprattutto di anziani ( ma i giovani non mancano
anche se sono una eccezione)che giocano o solo osservano giocare a bocce e
mentre trascorrono il loro tempo al coperto ed al riparo dalle intemperie
discorrono sulle malefatte dei Governi e su qualche maldicenza locale.
Accompagno Valeria
alla CONADDE mentre Gino e Siria con gli altri, una parte se ne è già andata
subito dopo pranzo, va verso l’area Baldassini. C’è un grande giardino
attrezzato ed una quinta di archeologia industriale di esaltante bellezza,
tanto è che l’urbanista, lo storico ed il costruttore difficilmente
condividerebbero un unico pensiero.
Con Valeria corriamo,
le chiedo se il mio passo sia troppo rapido per lei: lo faccio anche per
marcare il mio segreto desiderio di non essere considerato quel che
oggettivamente sono, un anziano troppo spesso rammollito e pantofolaio.
Parliamo; in verità parlo soprattutto io per tutto il tempo, chissà che non
annoi come fanno con me alcuni. Ma siamo veloci a ritornare dopo pochi minuti.
E ci ricongiungiamo al gruppo, dopo aver scartato , solo in parte, l’incontro
con uno strano tipo che, chissà perché, aveva sbagliato il tempo di un
appuntamento con Saverio, il nostro coordinatore di Circolo Piddì, e mi
tampinava. Bye Bye, gli dico, e fatti rivedere un altro giorno. Mi sento un
verme, ma non sono in grado di essere migliore se mi si limita.
……Gli altri sono già agli “orti sociali”, una bella realtà, non c’è che dire: e
di spazi così, abbandonati e ricettacolo di sterpi, rettili e qualche oggetto
di arredamento fuori posto ma ancora degno di essere esposto in qualche
“mercatino dell’usato” o in qualche “installazione di arte contemporanea”, ve
ne sono altri qui in giro. Spazi che potrebbero essere utilizzati proprio come
“orti sociali” destinati ad anziani, a famiglie, a bambini. I giovani del
workshop si sbizzarriscono nel chiedere e nell’impostare inquadrature di uomini
e natura. E qualcuno vi si perde e smarrisce. E il gruppo lo perde, proseguendo
il suo viaggio pomeridiano tra strade, giardini privati, spazi verdi ordinati e
spazi grigio-verdi disordinati e polverosi, antiche fabbriche dagli eleganti
sontuosi aristocratici contorni architettonici che emanano sensazioni vetuste
ma ancora caratterizzate da una certa nobiltà: quante operaie ed operai vi
hanno agito? Quali tragedie quante e quali sofferenze e quante e quali festose
ricorrenze hanno vissuto? Dentro esse abita la Storia di questa città e ne
respira ora solo un lontano sentore colei o colui che vi transita
riconoscendone i profondi valori storici che da lì promanano. Ora esse, pur
rimanendo ancora erette con grande signorile apparente dignità, rischiano di
essere destinate dall’incuria dei contemporanei ad essere abbandonate al degrado.
Qualche espressione da “terzo paesaggio” attira le attenzioni dei giovani
fotografi ed in particolare una struttura muraria che divideva gli spazi fra
San Paolo e quello che era al di là di San Paolo, che poi solo di recente è
stato identificato da Bernardo Secchi come “Macrolotto Zero”, mostra ad ogni
modo di possedere una sua peculiare storica distinzione. Fra un’area coltivata
ed uno spazio dove il disordine regna indisturbato si giunge al grande Giardino
di via Colombo, luogo di incontro e raduno dal mattino alla sera della pacifica
e disciplinata comunità cinese – con orari scanditi da ordinanza sindacale dopo
le vibranti assurde proteste di un cittadino che lamentava la confusione
ingenerata dagli strumenti che accompagnano la pratica del Tai-chi. Altre etnie
– Prato ne è piena e ne conta più di cento – frequentano questo luogo. Ci sono
anche gli italiani, ma provate per credere e venite pure a vedere, i cinesi –
ebbene sì – sono la maggioranza. E ce ne sono davvero tanti, cosicché Valeria
si appresta a rubare istantanee con le quali intende dimostrare ( e ce lo dirà
solo dopo ) che è pur sempre un lunedì pomeriggio e c’è ancora luce e dunque
non può essere del tutto vero che i cinesi lavorino soltanto, che lavorino
tanto come si dice così spesso. Racconto a chi mi sta vicino l’esperienza di
Emma Grosbois, una giovane fotografa che installa provocazioni artistiche e
narro del comportamento dei cinesi, la loro compostezza, la ritrosia, la
timidezza su cui però poi, quando Emma aveva completato l’installazione e se ne
allontanava, prendeva corpo e forza la curiosità. Andiamo oltre e Valeria si
diverte a fotografare i panni stesi dentro e fuori i terrazzini delle
abitazioni cinesi lungo il nostro percorso. Li ricerca con curiosità:
utilizzano gli “stand” industriali non potendo, per limiti regolamentari dei
condomini, esporli all’esterno alla maniera delle famiglie mediterranee; ma non
tutti in effetti sono rispettosi e Valeria di questo non può che essere
contenta: riprenderà questi tessuti colorati che creano una sarabanda cromatica
di straordinaria bellezza.
Lungo il tratto – via Puccini via Respighi via Rota,
tutti grandi musicisti – che porta verso via Pistoiese, si incrociano etnie
orientali islamiche, donne velate e bardate da drappeggi variopinti di gran
buongusto. Anche io fotografo qualche scorcio e privilegio la figura umana e la
documentazione del lavoro dei nostri giovani. Inquadro infatti la realtà in
movimento e per questo temo sempre che vi sia qualcuno che possa non gradire queste
mie intromissioni. Ecco infatti che da un auto ferma c’è qualcuno dall’interno,
che a me sembra proprio un cinese, che mi apostrofa – lo vedo agitare la mano –
e suona per tre volte anche se non in modo imperativo il clacson: faccio finta
di nulla, potrei non essere io il destinatario, anche se sembra proprio il
contrario, di tale protesta; ma il tizio insiste ed un signore dai tratti
occidentali che gli è accanto all’esterno mi fa segno di avvicinarmi. Diamine,
che vorrà da me, ora; e temo per la mia incolumità. Ma no! E’ un amico che ha
voglia semplicemente di scherzare, dal momento che mi vede in mezzo a tanta
bella giovane compagnia. Lo saluto con cordialità, rinfrancato. Una parte della
bella compagnia se ne va verso la Stazione di Porta al Serraglio. Rimaniamo in
cinque e ci inoltriamo nel cuore di quella che chiamano “Chinatown” un
guazzabuglio di corpi e linguaggi in luoghi pittoreschi ma maleodoranti.
Procediamo in questi ambienti e ne cogliamo alcuni aspetti conservandoli nei
nostri “aggeggi” elettronici: ristoranti, pescherie, ortofrutta, supermercati
caotici, sale giochi e per la strada avventori, passanti casuali, garzoni di
bottega, signori ben vestiti con valigette e computer accesi ed operanti si
mescolano in ambienti degradati. In una di queste strade, leggermente più
riservata, accanto ad un’officina meccanica chiaramente italiana ( in questo
settore i cinesi non si sono mai inseriti) c’è una chiesa cristiana rivolta ad
ospitare parte della comunità cinese (è in un capannone industriale ) e di
fronte ad essa si nota un asilo nido anche questo in tutta evidenza – oltre che
per le insegne esterne bilinguistiche dalle decorazioni interne – al servizio
delle famiglie cinesi, che attualmente sono le più prolifiche.
Si va facendo sera e così si ritorna verso il Circolo. Attraversiamo di nuovo
via Pistoiese e per via Umberto Giordano (ritorniamo ai musicisti!) costeggiamo
le mura ben mantenute della vecchia fabbrica Forti. Ne ammiriamo alcune parti
soprattutto gli spazi antistanti via Colombo che ne evidenziano l’abbandono. La
luce sta venendo meno ed è sempre più difficile fotografare; ci limitiamo a
documentare ed infatti riprendo alcuni atti del gruppo residuo sulla “rotonda”
di via Giordano/ via Colombo con la cornice bassa delle fabbriche abbandonate.
E poi in un’istantanea Siria è con Valeria ed in fondo lungo la recinzione Gino
leggermente voltato indietro verso un auto della Polizia Municipale
“apparentemente” ferma allo Stop.
Diciamoci la verità: quell’auto si era messa in posa per essere fotografata! La
foto “istantanea” casuale scattata senza una vera e propria volontà non avrebbe
alcun significato. E non avrei potuto scattarne altre per documentare i fatti
per non aggravare la situazione del “povero” Gino, malcapitato. L’auto era
ferma, proprio, non apparentemente, ferma, ben piantata sullo Stop. Così come
fermo era Gino, impietrito e stupito.
Cosa era accaduto? Fa parte della relativizzazione di cui accennavo soprattutto
nell’avvio. Ciò che si vede può essere realtà ma anche impressione, suggestione.
Questo lo sapevo, ma vaglielo a spiegare ai due solerti vigili urbani.
Lo dico sempre a mia moglie quando la sento imprecare contro quel tizio che ha
parcheggiato malissimo ed ha occupato parte del posto nel quale lei dovrebbe
parcheggiare. Ma cosa succede al ritorno? La macchina dell’autista che le ha
maledetto è andata via ed ora è inevitabile che sia proprio la sua, quella di
mia moglie, ad essere parcheggiata “da bestia”. Apparenza ma anche parte di
realtà! Anche ai due vigili urbani era parso che il nostro Gino avesse divelto
quel reticolato rugginoso ed incerto che si sbriciolava a pezzi solo a
toccarlo: il nostro amico a tanti tipi può somigliare ma non di certo
all’incredibile Hulk. Oppure sì? È forse un altro esempio di “relativizzazione”
della realtà? Siamo di nuovo a chiederci se sia o meno “reale” quel che
vediamo, quel che percepiamo. O soltanto ci illudiamo? Forse sì, la vita
davvero è un sogno, bello a volte brutto in altre, ma pur sempre un sogno.
G.M.