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LA PRIMA COSA BELLA 21 MARZO A POZZUOLI – i preparativi dell’incontro con Giuseppe Mario GAUDINO

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Voglio ringraziare l’Associazione LUX in FABULA per gli splendidi video realizzati!
Avendo ricevuto anche delle indicazioni dall’Associazione Lux in Fabula allego il link di un sito sul bradisismo flegreo: http://www.bradisismoflegreo.it/

E’ stato naturale che, nell’organizzare “La prima cosa bella- Esordi d’autore” a Pozzuoli io abbia pensato a Giuseppe. Non è stato così semplice rintracciarlo. Ero invece convinto che lo fosse perché avevo dei punti di riferimento che consideravo “sicuri”(dei parenti che erano anche amici miei – vedi link http://www.maddaluno.eu/?p=406ed alcune altre persone che abitavano al Rione “Olivetti”); invece dopo una serie di verifiche a vuoto ero al punto di prima, cioè quasi “zero”. Tornando, però, a casa una sera (credo fosse il 29 dicembre dello scorso anno), incontro Enzo Aulitto, con il quale ho un’antica e solida amicizia: gli dissi che ero alla ricerca di Gaudino e lui mi fornì un numero di cellulare, pur non essendo certo che fosse ancora attivo ed appartenesse a Giuseppe. Non volevo essere invasivo ed inviai a quel numero un messaggio chiedendo di poterlo contattare. “Ciao sono Beppe Gaudino aspetto una tua chiamata” 30/12/2013 09.16.22 – una risposta sollecita e piena di evidente disponibilità. Nel giro di pochi minuti abbiamo poi affrontato i temi che ci interessavano (gli esordi, le passioni, le prospettive) e fermato la data dell’evento nel primo giorno di primavera, il 21 marzo, come sempre un venerdì, alle ore 17.30. e, poi, con gli auguri per il nuovo anno che stava arrivando ci siamo detti che non c’era furia per i “particolari” e che ci saremmo presto risentiti. Lo abbiamo fatto un paio di volte per telefono e con Skype per affinare le tematiche da trattare; mi ha inviato ampi materiali ed in particolare un curriculum molto articolato ed alcuni filmati. Poiché l’iniziativa tratta degli esordi nei dialoghi telfonici ci siamo voluti soffermare su questi, sapendo peraltro che il percorso produttivo e realizzativo del suo primo lungometraggio (“Giro di lune…”) è stato lungo e faticoso. Molta parte della produzione iniziale è stata intimamente legata alla terra flegrea da cui entrambi originiamo ed in essa si inseriscono le ragioni della scelta di temi classici e storici e quelli del “mito” mescolata alla profonda volontà che si eviti l’oblio sia di vicende arcaiche sia della storia più recente soprattutto quella relativa alla “diaspora” del Rione Terra dopo gli eventi del 1970 ( vedi articoli sullo stesso tema – corredati da video – e da me scritti il 9 giugno http://www.politicsblog.it/?p=350 ed il 10 giugno u.s. http://www.politicsblog.it/?p=361) . Oltre a “Giro di lune…” di cui abbiamo parlato (http://www.maddaluno.eu/?p=406) il 22 luglio, grande successo è arriso al film “Calcinacci” premiato in vari Festival e vincitore di un premio di prima grandezza a Cinema Giovani di Torino nel 1990; “Calcinacci” recupera altre storie del “dopo bradisisma” del “dopo diaspora” dell’”abbandono” cui il Rione Terra è stato fatto segno per oltre venti anni. A Pozzuoli questi due film (insieme ad altri suoi che trattano questi temi) sono stati spesso proiettati, anche se Beppe comunque – e giustamente – rileva che non sono molti, al di fuori delle cerchie “colte” , i puteolani ad averli realmente visti. I temi trattati partono da una visione locale ma vanno a “pescare” nelle fondamenta archetipiche della Storia di Dicearchia (il nome che i profughi da Samo diedero più di due millenni e mezzo fa alla terra che poi i Romani chiamarono Puteoli e che oggi si chiama Pozzuoli) e si collegano alle “diaspore” antiche e recenti cui la Storia non ci ha mai purtroppo negato di dover assistere. “Giro di lune…” è un film ricchissimo di rimandi mitologici e storici; c’è la Sibilla Cumana, Agrippina e Nerone, Artema e Gennaro, protomartiri, Maria puteolana, guerriera citata da Petrarca, detta anche “la Pazza”. E c’è la storia di una famiglia di pescatori, i Gioia, che ci ricorda lontanamente i Malavoglia (soprattutto il ruolo e la funzione delle donne), che si trovano a subire il dramma del bradisismo sia sulla terra che sul mare all’inizio degli anni Settanta, poco prima e durante la fase dello sgombero “forzato” di cui parla anche Enzo Neri nell’articolo sul Duomo di Pozzuoli pubblicato il 25 luglio u.s. (http://www.maddaluno.eu/?p=433).
Ad ogni modo mi dispiacerebbe dover ripresentare gli stessi film ad un pubblico che forse li ha già veduti. E con Beppe condividiamo questa perplessità, anche se lui mi chiede di organizzare una sua personale più in là dove far vedere tutto quanto possibile. Lui intanto mi ha inviato anche un film più recente del quale parlerò diffusamente in altro post, “Per questi stretti morire” del 2010, e decidiamo di puntare esclusivamente su questo per il 21 marzo. Nei colloqui telefonici intanto ci soffermiamo sui nostri “amori”, sulle passioni che ci hanno fatto crescere e Beppe accenna a Rossellini, a Pasolini e ad Amelio con cui ha più volte lavorato ed al quale ha dedicato nel 1992 anche un documentarioritratto dal titolo “Joannis Amelii animula vagula blandula” girato sul set del film “Il ladro di bambini” dove Gaudino ha agito da scenografo (“La scenografia – dice Beppe – è una forma di narrazione diretta” ed è uno dei suoi principali ed irrinunciabili punti fermi per il suo lavoro). A questi autori italiani egli si ispira in particolare per lo “sguardo etico” che rivolgono verso la realtà. Fra gli autori stranieri aggiunge Elia Kazan e John Cassavetes, oltre ad Andrei Tarkovskij ed il suo “Andrei Rublev” che a me ricorda peraltro le origini culturali di Gaudino, legate sommamente al mondo dell’Arte (il Diploma all’Accademia di Belle Arti e la predilezione per la Scenografia, di cui si diceva appena più sopra). Guardando il film di cui parlerò nel prossimo post ho aggiunto anche altri grandi autori contemporanei che sono, a mio parere, riferibili allo stile di Giuseppe Mario Gaudino.

I CARE – GLI ESAMI (di Stato) NON FINISCONO MAI…DI SORPRENDERE

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Gli Esami (di Stato) non finiscono mai…di sorprendere. L’ho già scritto; mi mancherebbe di scriverlo sui muri. Eh già! a proposito di “scrivere sui muri” voglio raccontarvi una Storia che, mettendo da parte una mia lieve punta d’orgoglio come docente, vale la pena divulgare. Alcuni anni fa, circa otto (non sono preciso e me ne dolgo ma l’exemplum è ugualmente utile come tale), al ritorno dalle vacanze estive entrando nel cortile della mia scuola (l’Istituto Tecnico Commerciale “Paolo Dagomari” di Prato) non posso non notare che sul pilastro dell’arcata destra vi è un’ampia scritta in corsivo fatta con uno spray, “I care – mi interessa”. Non so quanti l’abbiano notata perché, intanto, non ci sono ancora gli studenti (siamo alla fine di agosto e dobbiamo preparare gli “esamini” di recupero); sono sorpreso negativamente dalla imbrattatura della parete ma positivamente dalla scelta del tema trattato che è fondamentalmente pedagogico ed attinente al ruolo educativo che l’Istituzione deve proporsi di rappresentare. Ci si trova di fronte, dunque ad un “paradosso”: andrebbe ricercato il colpevole per redarguirlo e subito dopo lodarlo. Ne parlo con il Preside (a quei tempi era il prof. Stefano Papini) e concordiamo di “sopravvalutare” l’azione che consideriamo comunque negativa dato che per poterla realizzare chi l’ha prodotta ha dovuto scavalcare nel periodo estivo il cancello compiendo un’azione riprovevole e pericolosa (in quel periodo non erano ancora state installate le telecamere esterne per la sorveglianza). Perché “sopravvalutare”? Il Preside propone di incrementare la scritta con una nuvoletta che la contenga ed un’aggiunta in fondo con il riferimento di don Lorenzo Milani. Trovo la soluzione ottimale e condivisibile perfettamente in linea con lo stile di educatore che Stefano rappresenta e collegata anche alle mie personali idee inclusive ed aperte alla “multimedialità” artistica (in fondo quella scritta è davvero un’”opera d’arte” ed un’ammissione civica di altissimo livello!). Mi rimane una curiosità immensa: chi ne è stato l’autore?
Quell’anno avevo portato agli Esami di stato una classe fra quelle che ricordo con maggiore piacere. Avevano lavorato con me nell’elaborazione delle tesine ed una delle allieve che mi aveva dato maggiore soddisfazione aveva voluto lavorare su don Milani. Quando sono arrivato a Prato nel 1982 conoscevo già don Milani da uno dei libri che era stato “guida” dei giovani degli anni Settanta dopo il Sessantotto, soprattutto dei giovani che si avviavano come me ad un impegno “civile” nella Scuola come docenti innovatori. Parlo di “Lettera ad una professoressa” con le cui idee espresse dai “ragazzi di Barbiana” ci eravamo confrontati negli anni di Feltre (dal 1975 al 1982 ero stato ad insegnare all’Istituto “Rizzarda” di quella cittadina) con le 150 ore (da me praticate come “esterno” in una Scuola Media – “Rocca” se non sbaglio!) e nella pratica politica del PCI e del Sindacato CGIL Scuola. Era una sorta di Vangelo o di “libretto rosso” (mi scuso per la blasfemia del tutto volontaria) dal quale attingevamo idee non solo per accoglierle ma anche per confutarle e discuterle animatamente come abitualmente facevamo con le Tesi dei vari Congressi politici e sindacali. A Prato quindi non ero digiuno ed ho fatto subito amicizia con alcuni dei protagonisti diretti ed indiretti di quegli anni: andando e tornando fra Prato ed Empoli avevo incontrato Franco Neri, che è stato allievo al “Cicognini” di Prato del prof. Agostino Ammannati (uno degli amici più cari di don Lorenzo sin dai tempi della sua presenza a Calenzano) e che è adesso il Direttore della grande Biblioteca Comunale di Prato. Avevo avuto modo di parlare in seguito con Edoardo Martinelli, uno degli ultimi allievi di don Lorenzo; avevo conosciuto più tardi ancora Michele Gesualdi che era stato uno dei punti di riferimento soprattutto nell’ultimo anno di vita di don Lorenzo, il 1967. E mi ero recato sia a Calenzano a trovare i compagni di don Milani nella sua prima esperienza di coadiutore a San Donato dove elaborò le sue “Esperienze pastorali” ed avviò una scuola per operai sia a Barbiana, dove era stato relegato come prete pericoloso dalla Curia di Firenze, e dove egli istituì la “Scuola” che è stata punto di riferimento di tanti di noi educatori. Con tutto questo “bagaglio” acquisito potevo dunque accompagnare la mia allieva su alcune delle strade che avevo percorso. Lo feci ed i risultati furono sorprendenti. Eh sì, anche perché, incontrandola qualche mese dopo la “sorpresa” della scritta, gliene accennai. Diventò paonazza per la vergogna anche se l’accenno non aveva alcun elemento di rimbrotto verso chicchessia…e mi rivelò di esserne l’autrice.

In conclusione intendo rilevare che la scritta sulla parete destra esterna della copertura nell’ingresso del “Dagomari” è stata fatta coprire dall’attuale Dirigente!

EVVIVA (E’ VIVA) L’UNITA’ – LA FINE DE “l’UNITA'” – ???????

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“Sulle montagne del “feltrino” in provincia di Belluno portavo “l’Unità” la domenica mattina insieme ad alcuni compagni” Ora, ce lo dicono in tanti, il mondo è cambiato: a me sembra peggiorato! Ovviamente c’è chi non la pensa così; ma la Storia fra trentaquaranta anni farà giustizia della verità

Quello che accade è “segno dei tempi”!

Vi allego solo un link di cui riporto la parte finale:

Il fallimento di mercato è, così, anche fallimento politico. Non importa che Renzi precisi come un supporto per L’Unità non sia «nelle disponibilità del PD». Forse è giusto che non lo sia. Ma la fine di un giornale sopravvissuto alla censura fascista è indice di una flessione del sistema democratico; di una flessione infelice, coronata degnamente dalle esultanze di Beppe Grillo: “meno giornali significa, infatti, più informazione (sic)”.

 

http://www.epressonline.net/notizie/ultime-notizie-italia/36-notizie/7354-la-fine-de-lunita-pubblicazioni-sospese-per-la-mancanza-di-un-accordo-fra-gli-azionisti.html

 

A seguire l’ articolo de “l’Unità” on line:

 

http://www.unita.it/italia/unita-cessazione-pubblicazione-liquidazione-fago-nie-mian-ioannuzzi-pd-renzi-bonifazi-1.583242

reloaded – PRATO UN CASO DI “ANALFABETISMO” INDUSTRIALE DI RITORNO

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PRATO UN CASO DI “ANALFABETISMO” INDUSTRIALE DI RITORNO?
Posted on 31 maggio 2014 by Giuseppe Maddaluno

Prato e le ciminiere

“Un blog non può neanche lontanamente risolvere i problemi ma può denunciarli annunciarli ed avviare una ricognizione, suscitando attenzione e dibattito”

Fra le conseguenze negative della globalizzazione dei “mercati” e delle persone vi è stato di certo in contemporanea un degrado del livello di alfabetizzazione e di preparazione professionale, di acculturamento parallelo rispetto alle trasformazioni economiche e sociali che il mondo, soprattutto quello finanziario globale, stava subendo. A Prato l’imprenditoria piccola e media (ma in qualche caso anche quella medio-grande) non era stata costruita su una solida preparazione culturale ma piuttosto su una “praticità” istintiva che pure aveva prodotto eccellenze, destinate tuttavia a non reggere il passo sia per il susseguirsi di generazioni non sempre ben disposte ad una vita fatta soprattutto di sacrifici sia per il sopraggiungere di tecnologie innovative e mutamenti epocali nelle abitudini e nei consumi. Di fronte al tempo che scorre il mondo cambia e noi non sempre ce ne rendiamo conto.
La crisi del “tessile” a Prato è stata più volte annunciata ma poi in più occasioni con formule provvisorie è stata considerata come superata; ma non si è voluto riconoscere che il problema più importante era di tipo “culturale”, intendendo con questo termine la capacità complessiva di conoscere le trasformazioni ampie in atto. Ed è anche per questo che non si è percepita, forse non si è voluto, forse non si è riusciti a, percepire la cosiddetta “invasione” cinese nei suoi connotati “positivi”. Questa sottovalutazione dal punto di vista “politico” è stata “generale”, con qualche limitata eccezione, generando sia una forma di accoglienza umanitaria di tipo “cristiano” sia – dall’altra parte – un rifiuto categorico di stampo razzistico con in mezzo un atteggiamento ambiguo del tipo “non sono razzista, ma….” che si collocava in ogni caso in un’area culturalmente e socialmente assai modesta.
Se non si comprende questo punto di partenza non si è in grado di fornire alcuna soluzione al fenomeno che da un paio di decenni sta travagliando la società pratese e mettendo in crisi profonda la parte imprenditoriale “tessile”, non di certo quella immobiliarista, né quella commerciale che, grazie alla comunità cinese, ha visto, se non elevare, reggere i propri guadagni: se il mercato immobiliare è crollato meno che altrove lo si deve alla presenza straniera; se alcuni supermercati (vedi la PAM di via Pistoiese) reggono è per lo stesso motivo; se alcune concessionarie non hanno chiuso i battenti è perché hanno i migliori clienti fra la comunità cinese. Ad ogni modo il ”degrado” del territorio è direttamente collegato al degrado che la società “pratese” (quella fatta da “pratesi” doc o non doc poco importa) ha evidenziato negli ultimi ventitrenta anni e di ciò è indubbiamente colpevole la classe politica così come quella imprenditoriale e così anche l’intellighentia che non ha saputo interpretare i mutamenti e, laddove li ha riscontrati, poco ha fatto per divulgarli e chiedere alle diverse istituzioni azioni precise e decise per affrontarne le conseguenze. Ognuno ha pensato a rincorrere i propri vantaggi, le proprie rendite di posizione: politici, imprenditori, intellettuali, quelli che avrebbero potuto e non hanno agito, tanti di quelli che oggi ancora sopravvivono a se stessi, complice il vento di rinnovamento ipocrita che sta investendo la nostra società. Non sarà facile modificare quello che oggi vediamo, per cui ne traggono vantaggio “politico” – in netta e chiara malafede – coloro che spingono a scelte estreme come i blitz hollywoodiani con grande utilizzo di mezzi e di uomini, coloro che urlano in modo insensato che “devono andare tutti via” o che “ci hanno portato e ci portano via il lavoro”, coloro che parlano più alla pancia che alle menti. Ed allora mi vengono in mente due film particolarmente significativi anche se non si tratta di “capolavori”; il primo è già chiaro dal titolo: “Un giorno senza messicani”. Eh già, meno male che si tratta di un solo “giorno”, anche perché i poveri americani non ne saprebbero fare a meno, visto che i messicani svolgono in quella città al confine fra gli States ed il Messico lavori molto umili ma altrettanto utili; eppure di questi messicani si dicono le cose peggiori fin quando non ci si rende conto della loro “utilità” fino ad allora mai riconosciuta. L’altro film è “La macchina ammazzacattivi” (1959) di Roberto Rossellini, una sorta di “favola dark nostrana” e lo utilizzo semplicemente per suggerire un sistema risolutivo per eliminare tutti quelli che non ci piacciono, quelli che anche temporaneamente ci disturbano, che sono colpevoli di qualcosa che non riusciamo nemmeno a spiegarci: lo hanno fatto anche in passato, ad esempio, con gli Ebrei, con i disabili, con i rom, con gli omosessuali, con gli oppositori. Che dite? Ci si vuole provare ancora una volta? Forse una sparizione “temporanea” – ma non di un solo giorno – potrebbe servire a togliere il velo che copre il preesistente “degrado” di cui non si vuole essere consapevoli per non assumersene in quota parte le profonde e fondamentali responsabilità.
Noi non pensiamo tuttavia di poter proporre soluzioni ma non vogliamo rinunciare a leggere, studiare, approfondire la realtà che ci circonda sapendo anche che lo facciamo in modo parziale e gravato da forme di ideologismi che si sono andati accumulando nel tempo e che difficilmente potremmo superare senza un “reset” impossibile per ora nel cervello umano. Ad ogni modo è del tutto evidente che il nostro Paese, e con esso la città di cui abbiamo parlato, evidenzia un’arretratezza “culturale” che la sua Storia non merita, anche se tale “gap” è inscritto nella sua Storia. Ne sono prove certe le difficoltà del settore dell’istruzione che ormai non forma più adeguati “quadri” dirigenti e professionisti: i migliori studenti, al termine del loro percorso formativo, frustrati da una costante sottovalutazione del “merito” e da una sopravvalutazione di ben altre doti non sempre significative dal punto di vista delle relative competenze, trovano il loro spazio vitale in altri Paesi, dai quali difficilmente tornano: è questo da anni il vero drammatico “spread” che inficia l’ingente impiego di risorse a fondo perduto. I dati sono di un’evidenza assoluta anche per il settore del Turismo nel quale il nostro Paese potrebbe eccellere, “dovrebbe” eccellere. Ne parleremo ancora in uno dei prossimi interventi.

Giuseppe Maddaluno

LE DUE PIETRE da un manoscritto polveroso ritrovato

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DUE PIETRE 2

In quel cassetto polveroso un diario con alcune pagine scritte da me negli anni Sessanta (J.M.)

Le due pietre
Ti ho portata nella pineta a sentire il mare, non sento parlare nessuno se non il mare ed intanto un desiderio di morte mi assale. La spiaggia è vicina ma noi non la vediamo. Solo il nostro respiro forte, affannoso, la nostra ansia di morte. Non c’è luna stasera, ho desiderio di essere solo e sono ancora con te. La mia debole tempra di uomo mi costringe a ciò. Sono stato a studiare tutto il giorno, ed ora che è scesa la sera mi assale un desiderio immenso di amore, di cose nuove conquistate; ma il tempo mi disprezza e corro ancora da te. Imparo sempre a mie spese, come tutti gli altri viventi, e dimostro una cruda indifferenza. Ripeto le cose che ho rifiutato di ripetere dopo l’ultima volta. Sono scortese come sempre e ripeto ugualmente “Mai più!” tra me e me debolmente. Vorrei sapere cosa mi attende ma non oso ascoltare la risposta. Una strada piena di fossi, la mia vita, la stessa cosa, tante cadute, tanti inciampi ed ogni tanto salire dopo essere discesi. Avresti potuto essere la mia donna, tu, donna di fumo, inconsistente, volatile, senza idee, avresti potuto aiutarmi ed io te, donna, che non sai vivere che per te stessa, che conosci il tuo solo amore, avresti potuto mille altre cose, sovvertire il destino, se Dio lo avesse voluto, far dell’omega l’alfa e dell’alfa l’omega, avresti potuto. Forse fu Dio a non volerlo, ma non ci credo adesso. Saresti capace di farmi trovare di nuovo innamorato, gravido di un nuovo amore, sulla stessa strada dell’antico per poi rifiutare il mio desiderio nel momento più bello. Ben presto conoscerò la mia signora: “Non lagnarti di me, poeta; lascia fare al destino” sembra dire alla mia mente mentre scrivo. Ed ho paura di essere giudice severo di me stesso, presago profeta dei miei destini. Mi sono turbato moltissimo a vederti ed è ormai tanto tempo che non penso che a te senza dire niente, senza far trapelare emozioni, stornandole maliziose indagini della gente, mostrando indifferenza e calma e questo mi fa male.
Ho detto di te tante cose, affermato la mia assoluta indipendenza, ho proclamato ai quattro venti che non ti amo e, pur se questo fosse vero, l’ho detto. Gli occhi mi lacrimano, non di pianot ma di gioia, se sento parlare di te, ho detto che non ti amo e vorrei che fosse vero per sentirmi liberato dal tuo giogo d’amore. Cercare di dimenticare è folle per chi sa che non può. Tornare indietro nel tempo è impossibile, ma in queste condizioni io ci ritorno ad ogni attimo, rivedo ogni cosa e mi arrabbio moltissimo di aver vinto. Ma il mio era un premio di consolazione. Vorrei rifiutare ora questi scritti, perché mi fanno del male e possono sembrare stupidi, ma in fondo, rileggendoli, mi sembrano belli, sinceri e stranamente originali finanche, tanto da lodare te che me ne hai dato l’occasione. Mi fai sentire goffo, impacciato, accanto a te, non sono capace di muovermi senza sentire in me un istintivo intimo rifiuto. Ma ora nella pineta non ci sei tu ed il mio pensiero ti segue. Cosa fai, adesso? Forse studi anche tu, forse scrivi, o forse dormi. Sì, certo, a quest’ora forse dormi. E questa donna che mi sta vicino è ancora sveglia e lo sarà per molto ancora. Sapete scegliere Beatrice tra il diavolo e lei? Questa donna, la vedrò nuda fra poco, pronta per una cerimonia consuetudinaria con molto desiderio, con poco amore. Tu dovresti essere qui al suo posto, rivestita di una corazza luccicante, alta, altissima, irraggiungibile stele lapidaria ed io, uomo di carne con il mio inadatto armamento, girarti intorno a ricercare “da qual man la costa cala”. “Sarebbe meglio per te se tu non fossi come sei, impaziente di conoscere il tuo futuro” come una voce profetica dall’alto del monte mi ha raggiunto, qui, nella sera, mentre da solo respiro l’aria salmastra nella boscaglia, accanto ad un auto piena di un vuoto interiore che mi fa male ogni volta che non ho più voglia d’amare. Ho pensato per un attimo alla morte ed ho voluto metterla alla prova. Ho spinto la mia auto a folle velocità, ma il poliziotto fermo dietro la curva mi ha segnalato l’alt ricordandomi di non essere solo sulla faccia della terra e di avere come gli altri una missione cui dedicarmi, non tutta bella come pretendo ma fatta così come la vita della quale mi lamento. Ho un solo pensiero costante: e se mi amasse anche lei? Come me, anche tu, potresti dire e fare lo stesso, anch’io sono come te, di fumo, incostante, volatile, senza idee precise, amo me stesso più degli altri e perciò rifiuto di sottomettermi, potrei mettere sossopra il mondo far della zeta l’a e dell’a la zeta, se Dio lo volesse. Ti turbi e dissimuli, anche tu, affermando la tua indipendenza, proclamando il tuo non amore. Ed anche io resto duro ed impassibile, nei momenti della tua esaltazione, per ripicca, per un senso di non solidarietà, come una grossa pietra, altissima ed irraggiungibile. Sulle nostre teste arriveranno gli ucceli ad innamorarsi, senza avere paura di essere quelli che sono, senza timore di mostrarsi nudi nell’anima, e cantando diranno tutto quello che vogliono, senza ritrarsi timidi, senza traumi, naturali come essi sono, come l’uomo vorrebbe e non può essere. E noi aspetteremo lì, in silenzio, che l’amico vento ci corroda, ci consumi, ci renda polvere, per rinascere un giorno ancora e dire alla vita “Buongiorno!” e semmai ritrovarsi e dire anche a te “Buongiorno!” e senza più parole, attendere la fine.

IO SONO UN PAZZO CINEFILO

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Les Mistons  e BernadetteLes Mistons ed anfiteatroTruffaut

Io sono un pazzo cinefilo. Sono nato con il Cinema nel sangue e quindi capita sovente che molti argomenti evochino in me rimandi cinematografici, ancor più se si tratta di storie francesi come quella di Aigues-Mortes di cui ho trattato nel post precedente. Merito, anche se non solo (e poi forse in fondo svelerò anche questo piccolo segreto), degli Esami di Stato e dell’incontro con l’allievo Niccolò Lair è questo approfondimento su un luogo che è la città di Nimes, capoluogo del dipartimento del Gard nella regione della Linguadoca-Rossiglione. In questa città risiede la nonna paterna di Niccolò e la classe è andata in quest’ultimo anno a visitare quella regione della Provenza e la stessa cittadina. Sotto la guida della nonna hanno potuto visitare l’Anfiteatro romano ed i resti del Tempio di Diana, oltre ad apprezzare la vivacità culturale della città moderna. Ma andiamo pure ai “rimandi cinematografici” del folle cinefilo che è in me. Ho visto decine di volte l’Anfiteatro di Nimes senza mai esserci stato e non in uno dei possibili documentari sulla Provenza e la Linguadoca ma nel film d’esordio di uno dei più grandi autori cinematografici, cinefilo anch’egli ed organizzatore di cineclub, Francois Truffaut. Non posso nascondere la mia predilezione per il grande regista francese che è stato il mio virtuale educatore prendendomi per mano con le sue storie ed accompagnando la mia vita dal 1957 al 1984. Truffaut per il Cinema è stato “tutto”: da bambino è stato precoce spettatore quasi sempre “clandestino” (si intrufolava dall’uscita); ma non gli bastava vederli (ne ha visti a migliaia fra i 14 ed i 24 anni): doveva scriverne e parlarne. Quindi amava proporsi come “critico militante”ed insieme ad altri giovani, come Godard, Rohmer, Chabrol, Rivette, iniziò quella rivoluzione del Cinema francese che si chiamerà “Nouvelle Vague”. Tutto inizia con un articolo sui “Cahiers du cinema” dal titolo “Une certaine tendance du cinéma francais” del gennaio 1954. Dalla critica militante all’elaborazione di nuove idee contro l’artificiosità e l’innaturalezza dei vecchi bacucchi il passo fu logico e conseguenziale. Attratti dal Neorealismo italiano i giovani futuri grandi cineasti cominciarono a girare in strada con attrici ed attori di nuovissima leva, utilizzando l’illuminazione naturale e la presa diretta. Truffaut, e qui torniamo a Nimes, dopo un primo timido approccio al Cinema con un prodotto in 16 mm del quale, complice l’autore, non abbiamo traccia, nel 1957 girerà il suo primo vero film tratto da un racconto di Maurice Pons, “Les Mistons” (letteralmente “I monellacci”), nel quale inserisce sia il passato cinematografico (“L’arroseur arrosé” dei fratelli Lumière) che alcuni richiami al cinema americano con la finta sparatoria che, per l’appunto, si svolge fra questi cinque protagonisti, i monellacci del titolo, nell’anfiteatro di Nimes. Questo sito archeologico viene ripreso nella sua interezza per seguire le vicende di una giovane, Bernadette, che stimola con le sue forme perfette le fantasie dei ragazzi nei loro primi loro turbamenti sessuali. Si impegneranno a fondo per disturbare la storia d’amore di Bernadette e Gerard fino a quando non scopriranno poi una drammatica tragica verità: Gerard è morto in un incidente e questo evento sancirà anche, forse, la loro maturazione. “Les Mistons” è anche caratterizzato da una certa ansia cinefiliaca, come dicevo prima, per cui Truffaut inserisce nel mediometraggio (26’) oltre alle passioni citate alcuni richiami ad un altro mito (suo ma anche mio) della Storia del Cinema e della malattia “cinefiliaca” che è Jean Vigo, acquisendone i movimenti dei corpi dei ragazzini che richiamano una profonda anarchia libertaria come in “Zero de conduite”. Inoltre “Les Mistons” anticipa tutta la serie successiva dedicata all’educazione ed alla crescita di Antoine Doinel, figura alter ego di Truffaut, del quale ricalca molti aspetti autobiografici. Il film ancora oggi, benché Truffaut non lo amasse in modo particolare, esprime una straordinaria freschezza, non fosse altro per la bellezza del corpo di Bernadette e per la straordinaria vitalità dei ragazzini (il personaggio di Gerard è opaco e non rimane impresso nella mente degli spettatori). Truffaut in effetti, come ha poi continuato a fare in seguito, si pone dal punto di vista dei “monellacci” sentendosi molto a suo agio nella descrizione delle loro intime tempeste, delle loro esuberanze. Anche il regista era attratto da Bernadette Lafont, interprete del personaggio femminile suo omonimo. “E’ sempre con emozione che ritrovo Bernadette Lafont, il suo nome o il suo viso, il suo mprofilo stampato su una rivista o il suo corpo flessuoso in un film, perché, anche se sono più vecchio di lei, abbiamo debuttato lo stesso giorno dell’estate del 1957, lei davanti alla macchina da presa, io dietro….Quando penso a B.L. artista francese, vedo un simbolo in movimento, il simbolo della vitalità, dunque della vita” dirà Truffaut in occasione di una retrospettiva dei film dell’attrice, alla quale nel 1972 aveva consegnato il ruolo di protagonista in un altro film “Une belle fille comme moi”.
Ed ora il film, dove si possono vedere le strade di Nimes, i boschi ed i corsi d’acqua che circondano quella città ed i reperti archeologici come l’Anfiteatro, va guardato per intero (lo troverete allegato a questo articolo). Rendiamo omaggio a chi ci ha stimolato a parlarne: l’allievo Niccolò Lair.
In definitiva vi svelerò il segreto: sto lavorando ad una presentazione di questi miei “amori” che sono Jean Vigo e Francois Truffaut di cui ad ottobre ricorrono rispettivamente gli 80 ed i 30 anni dalla morte. Grazie.
Continuerò a commentare altri stimoli sopravvenuti “grazie” agli Esami di Stato di quest’anno nei prossimi giorni.

DOPO GLI “ESAMI DI STATO” – “MORTE AGLI ITALIANI – IL MASSACRO DI AIGUES-MORTES”

 

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Morte agli italiani 2

 

“MORTE AGLI ITALIANI – IL MASSACRO DI AIGUES MORTES” di Enzo Barnabà

In quel falso “reloaded” de “Gli Esami (di Stato) non finiscono mai” che ho pubblicato qualche giorno fa annunciavo nuovi post nei quali sottolineare alcuni elementi che hanno agito da stimolo, durante l’ultima sessione di Esami, riportando alla mia attenzione alcune passioni ed alcuni temi che ho avuto modo di trattare sia come docente che come organizzatore di eventi in tutti questi anni. Accennerò oggi all’incontro con uno degli allievi del Liceo Classico “Cicognini” di via Baldanzi ed in particolare con alcuni aspetti che appartengono alla sua Storia ed all’elaborazione che, ispirata anche da questa, ha prodotto la sua ricerca presentata al colloquio d’Esame. Niccolò Lair ha voluto evidenziare le sue radici “provenzali” in un lavoro sui temi dell’immigrazione (nel caso in esame,  dell’”emigrazione” italiana in Francia) recuperando un episodio drammatico che coinvolse alcuni italiani nella Provenza tirrenica, la “Camargue”, dove si trovano ancora oggi (ed è possibile visitarle anche da turisti) le saline di Aigues Mortes. La vicenda è narrata con ampiezza di documentazione da un docente di Lingua e Letteratura Francese, originario di Valguarnera Caropepe in provincia di Enna, ma anche inguaribile giramondo (ha svolto compiti di Addetto culturale in varie ambasciate), Enzo Barnabà. Enzo è mio personale amico dai tempi (anni Settanta) in cui ero a Feltre (operavamo entrambi nel Sindacato Scuola della CGIL, lui da Segretario Provinciale io da delegato locale) ed è tornato a trovarmi a Prato dopo poco meno di trenta anni proprio in occasione della presentazione del libro “Morte agli italiani – Il massacro di Aigues-Mortes”. Aveva già scritto altri libri in questi anni ed avevo avuto modo di seguirlo (in particolare ricordo quello relativo a “I Fasci siciliani a Valguarnera” del 1981 e l’altro più recente “Dietro il Sahara. Africa nera tra mondo magico e modernità (I giardini di Pogo)” che riporta la sua esperienza di insegnante addetto culturale in Costa d’Avorio. L’edizione di “Morte agli italiani” che posseggo è quella del 2001 e porta la prefazione del prof. Alessandro Natta “illuminista, giacobino e comunista” (pen)ultimo segretario del PCI: è stata poi preparata una ulteriore edizione nel 2009 con la prefazione di Gian Antonio Stella, mantenendo il contributo di Natta sotto forma di Introduzione. La vicenda narrata (che si riferisce ad eventi storici ed è corredata da ampie documentazioni) è emblematica se posta in riferimento ad alcune particolari situazioni contemporanee (penso ai fatti recenti di Castelvolturno ed a quelli di Rosarno del 2010). Il culmine di questi eventi fu il massacro che si compì il 17 agosto 1893 nel quale furono uccisi da una folla inferocita nove operai italiani. Ad Aigues-Mortes veniva lavorato il sale e soltanto nel mese di agosto occorrevano lavoratori temporanei per le ultime fasi, dette di battage e di levage, che debbono essere svolte velocemente per evitare che la pioggia vanifichi tutto il lavoro pregresso. Nella zona le attività produttive principali erano la pesca e la viticoltura, che in quegli ultimi anni per diversi motivi erano in forte crisi e la consuetudine di ricorrere per la frantumazione (battage) ed il trasporto finale (levage) del sale a manodopera straniera, in particolar modo italiana, anche in quel 1893 veniva confermata. Come troppe volte accade anche ai nostri giorni sembra che ad alcuni lavoratori locali che si erano presentati per chiedere lavoro fosse stato risposto che non potevano essere assunti perché si aspettavano degli italiani; inoltre c’erano rancori sopiti relativi ad una rivalità costante che risiedeva nella convinzione che i lavoratori italiani fossero più produttivi di quelli francesi e, quindi, volavano insulti e rimproveri da una parte e dall’altra che trovarono il culmine in quelle giornate d’agosto del 1893. Il libro di Barnabà, a partire dalla Prefazione di Natta, documenta in modo storico impeccabile tutta la vicenda con un ampio corollario di testi distribuiti e riportati nelle Note finali ma anche a piè di pagina sotto ai vari capitoli. La Bibliografia in modo innovativo è anticipata rispetto alla stessa Prefazione ed è suddivisa fra testi in italiano e testi in francese. Barnabà analizza poi i fatti di Aigues-Mortes partendo dal contesto storico in Francia ed in Italia analizzando le varie posizioni politiche. Interessante è l’analisi che svolge sulla “psicosi dell’invasione” che ci richiama all’attualità. Il libro si sofferma poi sulle cause degli eventi dell’agosto 1893 e sulle conseguenze (le reazioni della stampa francese – gli stereotipi sull’Italia e gli italiani – le ripercussioni sulla politica interna italiana e sulle relazioni tra i due paesi) analizzando in conclusione anche la posizione che ebbero i partiti socialisti italiano e francese.
In conclusione, oltre a sollecitare i lettori del Blog alla lettura del libro di Enzo Barnabà voglio riportare parte della Prefazione di Gian Antonio Stella all’Edizione del 2009 “Il libro… è una boccata d’ossigeno. Perché solo ricordando che siamo stati un popolo di emigranti vittime di odio razzista…si può evitare che oggi, domani o dopodomani si ripetano altre cacce all’uomo. Mai più Aigues-Mortes. Mai più”. Purtroppo sappiamo, vivendo nel 2014, che non è stato così!
Qui termina questo “post” ma nel prossimo parlerò di un altro argomento “culturale” che l’allievo Niccolò Lair mi ha sollecitato a trattare.
Guardate il video e ditemi se non provate, come il sottoscritto, invidia per Enzo Barnabà che vive a Grimaldi di Ventimiglia a pochissime centinaia di metri dal confine con la Francia, uno dei luoghi più incantevoli del mondo.

“BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE (Pasolini) di Federica Nerini

Federica Nerini

 

 

“BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” (Pasolini)

Di Federica Nerini

“Malinconia” di Eduard Munch rappresenta la prima opera simbolista del pittore norvegese. Il quadro è stato dipinto nel 1892 dopo una difficile delusione d’amore, la quale procurò all’artista una delle tante crisi depressive e di panico. L’uomo in primo piano rappresenta l’eroe moderno per eccellenza, che patisce le sofferenze e i sentimenti provati ogni giorno dall’intera umanità. I pensieri si tramutano in sassi pesantissimi, che circondano in modo asfissiante il protagonista; i granelli di sabbia simboleggiano il “tempo incalcolabile”: ore, minuti e secondi indistinguibili gli uni dagli altri, una volta bagnati e miscelati dalla spuma marina. La spiaggia si confonde con la riva, fondendosi con essa diventa un’unica sostanza e forma. Il cielo riprende gli stessi colori delle acque nordiche e glaciali, riecheggiando l’algida amarezza che il pittore aveva nei confronti della vita e del destino. Munch era un uomo che aveva sofferto tanto: solitario, infelice, inerme e sfibrato, aveva provato fino alla morte a realizzare il desiderio di rottura con quella “Solitudine” tanto odiata ed agognata, non riuscendoci. Ecco perché il Pensatore “munchiano”, come la statua “rodiniana” è avvolto da un flusso cementario, che non gli permetterà mai di raggiungere una dinamicità flessibile, per cogliere l’effimera felicità dei due personaggi appena percettibili sullo sfondo.

Ed è proprio la solitudine la condizione ineffabile che trascina l’uomo nel mondo della sofferenza e della drammaticità. La solitudine si sa, non possono assaporarla tutti allo stesso modo, ognuno reagisce in maniera diversa: per alcuni è rigenerativa, si pensi (ad esempio) agli “anacoreti zarathustriani”; per altri è insopportabile, basti ricordare i depressi colpiti dal disturbo bipolare. Ovviamente, la domanda sorge spontanea: “Come è possibile che una condizione dell’anima donata dal Signore, nella sua più complessa ed inverosimile “unicità relativa” non è uguale per tutti?”. La risposta è molto semplice, perché come dice Pasolini: “bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune”. È necessario “avere buone gambe”, poiché l’uomo deve camminare “solo et pensoso i più deserti campi” sempre con “passi tardi et lenti”, fino a percorrere le zone più sconosciute di questo universo impercettibile, pur di far staccare la solitudine dall’anima, come un’ostrica da una conchiglia. Inoltre, è giocoforza avere “una resistenza fuori dal comune”: solo “resistendo”, si può sopportare ed amare l’emarginazione volontaria.

Ma dopo “una camminata senza fine per le strade povere”, declama Pasolini, “bisogna essere disgraziati e forti” come i “fratelli dei cani”. Proprio nell’ultimo verso, il poeta bolognese utilizza il simbolo emblematico del “cane”, l’animale per antonomasia che personifica con grande orgoglio e condanna l’imperitura solitudine. Ed ecco che il mondo governato dall’umanità si trasforma nel canile più insopportabile, dove ogni “disgraziato” ama fugare dal proprio corpo, quando invece ognuno deve elaborare i pensieri per essere libero (o forse no).

Francesco Petrarca nella sua celeberrima poesia “Solo et pensoso” afferma che nonostante non sappia cercare “sì aspre vie né sì selvagge”, non c’è nessun luogo “ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co llui”. Sebbene ricerchiamo la solitudine in ogni piccolo attimo della nostra esistenza e in ogni luogo, è umanamente impossibile abbandonare i pensieri che ci affliggono quotidianamente, poiché ci sono forze psichiche ben più forti dell’isolamento, come l’amore (che tanto tormenta il Petrarca), o semplicemente la straordinaria essenza della riflessione della nostra mente. Per sillogismo aristotelico, quindi, non siamo mai soli, pensiamo di esserlo, mentre non lo siamo minimamente.

Ci solo alcuni poeti, scrittori e filosofi famosi che se non fossero stati soli per tutta la vita, non avrebbero ricevuto quella sfavillante “eternità letteraria” che tengono ben stretta tra le mani, le stesse con cui hanno scritto fiumi di parole memorabili. Non conoscendo la solitudine, non avrebbero mai capito chi erano veramente. “Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”, questi versi che appartengono a  Giacomo Leopardi urlano di dolore, un dolore: esistenziale, interno, immenso, pieno di angoscia libidica e ricco di un tormento spaesante. Attraverso l’isolamento esistenziale c’è la scissione tra l’istanza del suo “Io” fragile e la sua essenza; Leopardi si è perso nei meandri concentrici della sua anima vulnerabile, per questo non conosce più se stesso. Allora può la solitudine creare questo effetto? Prima ci demolisce e poi ci ordina di capire chi siamo veramente? Io penso di sì, altrimenti un genio indiscusso come Leopardi non si interessava mai a lei. D’altronde è un modo non facile per conoscersi.

Cosa si può trovare attraverso la solitudine? Proust ha ricercato il suo “tempo perduto”, Kafka il suo “silenzio rigeneratore”, Joyce il suo “flusso di coscienza”, Flaubert le sue bramate “metafore”, Tasso la sua “follia”, Ariosto il suo “Orlando”, Dante la sua “Commedia”, Shakespeare il suo “Amleto”, Schnitzler il suo “doppio sogno”, Conrad il suo “cuore di tenebra”, Bulgakov la sua “Margherita”, Stevenson il suo “doppio”, Woolf il suo “suicidio”, Baudelaire il suo “Spleen”, Sartre la sua “nausea”, Pirandello sua “moglie”, D’Annunzio la sua “vecchiaia”, Svevo la sua “ultima sigaretta”, Nabokov la sua “Lolita”, Dostoevskij la sua “bellezza conquistatrice”, Tolstoj la sua “Anna”, Goethe il suo “Mefistofele memorabile”, Foscolo la sua “Patria”, Petrarca la sua “Laura”, Leopardi il suo “Ego”, ed io la mia fine, perché: sto “sola sul cuor della terra trafitta da un raggio di sole”. Sarà subito sera.

Auguste_Rodin_fotografato_da_Nadar_nel_1891Il pensatore

Auguste Rodin ed “Il pensatore”

 

Leggi il contributo di Massimo Sannelli su      pasolini.net

http://www.pasolini.net/contr_sannelli-solitudine.htm

Pierpaolo Pasolini
Senza di te tornavo
Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

“BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE (Pasolini) di Federica Nerini

Federica Nerini

 

 

“BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” (Pasolini)

Di Federica Nerini

“Malinconia” di Eduard Munch rappresenta la prima opera simbolista del pittore norvegese. Il quadro è stato dipinto nel 1892 dopo una difficile delusione d’amore, la quale procurò all’artista una delle tante crisi depressive e di panico. L’uomo in primo piano rappresenta l’eroe moderno per eccellenza, che patisce le sofferenze e i sentimenti provati ogni giorno dall’intera umanità. I pensieri si tramutano in sassi pesantissimi, che circondano in modo asfissiante il protagonista; i granelli di sabbia simboleggiano il “tempo incalcolabile”: ore, minuti e secondi indistinguibili gli uni dagli altri, una volta bagnati e miscelati dalla spuma marina. La spiaggia si confonde con la riva, fondendosi con essa diventa un’unica sostanza e forma. Il cielo riprende gli stessi colori delle acque nordiche e glaciali, riecheggiando l’algida amarezza che il pittore aveva nei confronti della vita e del destino. Munch era un uomo che aveva sofferto tanto: solitario, infelice, inerme e sfibrato, aveva provato fino alla morte a realizzare il desiderio di rottura con quella “Solitudine” tanto odiata ed agognata, non riuscendoci. Ecco perché il Pensatore “munchiano”, come la statua “rodiniana” è avvolto da un flusso cementario, che non gli permetterà mai di raggiungere una dinamicità flessibile, per cogliere l’effimera felicità dei due personaggi appena percettibili sullo sfondo.

Ed è proprio la solitudine la condizione ineffabile che trascina l’uomo nel mondo della sofferenza e della drammaticità. La solitudine si sa, non possono assaporarla tutti allo stesso modo, ognuno reagisce in maniera diversa: per alcuni è rigenerativa, si pensi (ad esempio) agli “anacoreti zarathustriani”; per altri è insopportabile, basti ricordare i depressi colpiti dal disturbo bipolare. Ovviamente, la domanda sorge spontanea: “Come è possibile che una condizione dell’anima donata dal Signore, nella sua più complessa ed inverosimile “unicità relativa” non è uguale per tutti?”. La risposta è molto semplice, perché come dice Pasolini: “bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune”. È necessario “avere buone gambe”, poiché l’uomo deve camminare “solo et pensoso i più deserti campi” sempre con “passi tardi et lenti”, fino a percorrere le zone più sconosciute di questo universo impercettibile, pur di far staccare la solitudine dall’anima, come un’ostrica da una conchiglia. Inoltre, è giocoforza avere “una resistenza fuori dal comune”: solo “resistendo”, si può sopportare ed amare l’emarginazione volontaria.

Ma dopo “una camminata senza fine per le strade povere”, declama Pasolini, “bisogna essere disgraziati e forti” come i “fratelli dei cani”. Proprio nell’ultimo verso, il poeta bolognese utilizza il simbolo emblematico del “cane”, l’animale per antonomasia che personifica con grande orgoglio e condanna l’imperitura solitudine. Ed ecco che il mondo governato dall’umanità si trasforma nel canile più insopportabile, dove ogni “disgraziato” ama fugare dal proprio corpo, quando invece ognuno deve elaborare i pensieri per essere libero (o forse no).

Francesco Petrarca nella sua celeberrima poesia “Solo et pensoso” afferma che nonostante non sappia cercare “sì aspre vie né sì selvagge”, non c’è nessun luogo “ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co llui”. Sebbene ricerchiamo la solitudine in ogni piccolo attimo della nostra esistenza e in ogni luogo, è umanamente impossibile abbandonare i pensieri che ci affliggono quotidianamente, poiché ci sono forze psichiche ben più forti dell’isolamento, come l’amore (che tanto tormenta il Petrarca), o semplicemente la straordinaria essenza della riflessione della nostra mente. Per sillogismo aristotelico, quindi, non siamo mai soli, pensiamo di esserlo, mentre non lo siamo minimamente.

Ci solo alcuni poeti, scrittori e filosofi famosi che se non fossero stati soli per tutta la vita, non avrebbero ricevuto quella sfavillante “eternità letteraria” che tengono ben stretta tra le mani, le stesse con cui hanno scritto fiumi di parole memorabili. Non conoscendo la solitudine, non avrebbero mai capito chi erano veramente. “Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”, questi versi che appartengono a  Giacomo Leopardi urlano di dolore, un dolore: esistenziale, interno, immenso, pieno di angoscia libidica e ricco di un tormento spaesante. Attraverso l’isolamento esistenziale c’è la scissione tra l’istanza del suo “Io” fragile e la sua essenza; Leopardi si è perso nei meandri concentrici della sua anima vulnerabile, per questo non conosce più se stesso. Allora può la solitudine creare questo effetto? Prima ci demolisce e poi ci ordina di capire chi siamo veramente? Io penso di sì, altrimenti un genio indiscusso come Leopardi non si interessava mai a lei. D’altronde è un modo non facile per conoscersi.

Cosa si può trovare attraverso la solitudine? Proust ha ricercato il suo “tempo perduto”, Kafka il suo “silenzio rigeneratore”, Joyce il suo “flusso di coscienza”, Flaubert le sue bramate “metafore”, Tasso la sua “follia”, Ariosto il suo “Orlando”, Dante la sua “Commedia”, Shakespeare il suo “Amleto”, Schnitzler il suo “doppio sogno”, Conrad il suo “cuore di tenebra”, Bulgakov la sua “Margherita”, Stevenson il suo “doppio”, Woolf il suo “suicidio”, Baudelaire il suo “Spleen”, Sartre la sua “nausea”, Pirandello sua “moglie”, D’Annunzio la sua “vecchiaia”, Svevo la sua “ultima sigaretta”, Nabokov la sua “Lolita”, Dostoevskij la sua “bellezza conquistatrice”, Tolstoj la sua “Anna”, Goethe il suo “Mefistofele memorabile”, Foscolo la sua “Patria”, Petrarca la sua “Laura”, Leopardi il suo “Ego”, ed io la mia fine, perché: sto “sola sul cuor della terra trafitta da un raggio di sole”. Sarà subito sera.

Auguste_Rodin_fotografato_da_Nadar_nel_1891Il pensatore

Auguste Rodin ed “Il pensatore”

 

Leggi il contributo di Massimo Sannelli su      pasolini.net

http://www.pasolini.net/contr_sannelli-solitudine.htm

Pierpaolo Pasolini
Senza di te tornavo
Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

“EN ATTENDANT” la riflessione di Federica

PasoliniLeo FerrèGABER

“EN ATTENDANT” la riflessione di Federica Nerini che fra poco pubblicherò vi anticipo, dietro i formidabili stimoli che essa contiene, alcuni elementi. Il titolo del suo intervento è basato sul primo verso di una poesia di Pier Paolo Pasolini “BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” ed è piena di rimandi culturali, artistici e filosofici che non dovrebbero mancare di essere approfonditi anche da altri lettori. Come son solito fare, arricchisco con video ed immagini i nostri post, col rischio di soffocarli. A questo punto, mi sono detto: “Perché non anticipare con video, scritti ed immagini alcuni di questi rimandi coinvolgendo dei “miti” che appartengono a generazioni diverse oltre la mia?” Ed è questo il senso della proposta che vi sto facendo. Sono solo degli esempi: oltre al testo di Pasolini letto da me (ne riproporrò un altro in coda all’articolo di Federica), ho inserito Leo Ferré, chansonnier poeta e scrittore che amava le contrade toscane (dal 69 all’83 anno della sua morte visse fra Firenze, San Casciano e Castellina in Chianti) e Giorgio Gaber su cui non si dirà mai troppo vista l’incommensurabile grandezza del suo stile. A più tardi. (G.M.)

Bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
– e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente, o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia solo una traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo.
E’ il mondo così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;
l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque
la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.
Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente: allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe essere più soddisfatto
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.


Je suis d’un autre pays que le vôtre, d’un autre quartier, d’une autre solitude.
Je m’invente aujourd’hui des chemins de traverse. Je ne suis plus de chez vous.
J’attends des mutants. Biologiquement je m’arrange avec l’idée que je me fais de la biologie: je pisse, j’éjacule, je pleure.
Il est de toute première instance que nous façonnions nos idées comme s’il s’agissait d’objets manufacturés.
Je suis prêt à vous procurer les moules. Mais…

La solitude…

Les moules sont d’une testure nouvelle, je vous avertis.
Ils ont été coulés demain matin.
Si vous n’avez pas dès ce jour, le sentiment relatif de votre durée, il est inutile de regarder devant vous car devant c’est derrière, la nuit c’est le jour. Et…

La solitude…

Il est de toute première instance que les laveries automatiques, au coin des rues, soient aussi imperturbables que les feux d’arrêt ou de voie libre.
Les flics du détersif vous indiqueront la case où il vous sera loisible de laver ce que vous croyez être votre conscience et qui n’est qu’une dépendance de l’ordinateur neurophile qui vous sert de cerveau. Et pourtant…

La solitude…

Le désespoir est une forme supérieure de la critique. Pour le moment, nous l’appellerons “bonheur”, les mots que vous employez n’étant plus “les mots” mais une sorte de conduit à travers lesquels les analphabètes se font bonne conscience. Mais…

La solitude…

Le Code civil nous en parlerons plus tard.
Pour le moment, je voudrais codifier l’incodifiable.
Je voudrais mesurer vos danaïdes démocraties.
Je voudrais m’insérer dans le vide absolu et devenir le non-dit, le non-avenu, le non-vierge par manque de lucidité.
La lucidité se tient dans mon froc.

LA SOLITUDINE

Io vengo da un altro mondo, da un altro quartiere, da un’altra solitudine.
Oggi come oggi, mi creo delle scorciatoie. Io non sono più dei vostri.
Aspetto dei mutanti; Biologicamente me la cavo con l’idea che
mi sono fatto della biologia: piscio; eiaculo; piango.
Innanzi tutto noi dobbiamo lavorare le nostre idee come se fossero dei manufatti.
Io sono pronto a procurarvi gli stampi. Ma…

la solitudine…

Gli stampi sono di una materia nuova, vi avverto.
Sono stati fusi domani mattina.
Se voi non avete di questo giorno il senso relativo della durata, è inutile guardare davanti a voi perché il davanti è il dietro, la notte è il giorno. E…

la solitudine…

Innanzi tutto le lavanderie automatiche, agli angoli delle strade, sono imperturbabili così come il rosso o il verde dei semafori.
I poliziotti del detersivo vi indicheranno dove vi sarà possibile lavare ciò che voi credete sia la vostra coscienza e che non è altro che una succursale di quel fascio di nervi che vi serve da cervello. E pertanto…

La solitudine…

La disperazione è una forma superiore di critica. Per ora, noi la chiameremo “felicità”, perché le parole che voi adoperate non sono più “parole”, ma una specie di condotto attraverso il quale gli analfabeti hanno la coscienza a posto. Ma…

la solitudine…

Del Codice Civile ne parleremo più tardi.
Per ora, io vorrei codificare l’incodificabile.
Io vorrei misurare il pozzo di San Patrizio delle vostre democrazie.
Vorrei immergermi nel vuoto assoluto e divenire il non detto, il non avvenuto, il non vergine per mancanza di lucidità.
La lucidità me la tengo nelle mutande.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Uno c’ha tante idee
ma di modi di stare insieme
ce n’è solo due
c’è chi vive in piccole comuni o in tribù
la famiglia e il rapporto di coppia
c’è già nei capitoli precedenti,
ormai non se ne può più.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Certo, vivendo insieme
se chiedi aiuto
quando sei disperato e non sopporti
puoi appoggiarti.
Un po’ di buona volontà
e riesco pure a farmi amare
ma perdo troppi pezzi e poi
son cazzi miei, non mi ritrovo più.

[parlato] Vacca troia!… dove sono?… Eccoli lì che se li mangiano i miei pezzi… cannibali!… Troppa fame, credimi… gli dai una mano ti mangiano il braccio… Ve la dò io la comune!… Cannibali… Credimi, da soli si sta bene… In due? È già un esercito.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Uno fa quel che può
per poter conquistare gli altri
castrandosi un po’
c’è chi ama o fa sfoggio di bontà, ma non è lui
è il suo modo di farsi accettare di più
anche a costo di scordarsi di sé
ma non basta mai.

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.

Certo l’eremita
è veramente saggio
lui se ne sbatte e resta in piedi
senza appoggio.
Ha tante buone qualità
ma è un animale poco sociale.
Ti serve come esempio e poi
son cazzi suoi, non lo rivedi più.

[parlato] Vecchia troia!… Se ne frega lui… che carattere… Sì, va bene, ci ha del fascino, ma è un po’ coglione, credimi… Che provi, che provi lui a fare un gruppo… come noi! Giù dal monte… porca vacca!… No, eh… si rifiuta… che individuo. Meglio noi… credimi: sempre insieme, che costanza, uniti… attaccati… sempre attaccati… come i ciglioni…

La solitudine
non è mica una follia
è indispensabile
per star bene in compagnia.