reloaded “BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” di Federica Nerini

Federica Nerini

Pasolini

 

“BISOGNA ESSERE MOLTO FORTI PER AMARE LA SOLITUDINE” (Pasolini)

Di Federica Nerini

“Malinconia” di Eduard Munch rappresenta la prima opera simbolista del pittore norvegese. Il quadro è stato dipinto nel 1892 dopo una difficile delusione d’amore, la quale procurò all’artista una delle tante crisi depressive e di panico. L’uomo in primo piano rappresenta l’eroe moderno per eccellenza, che patisce le sofferenze e i sentimenti provati ogni giorno dall’intera umanità. I pensieri si tramutano in sassi pesantissimi, che circondano in modo asfissiante il protagonista; i granelli di sabbia simboleggiano il “tempo incalcolabile”: ore, minuti e secondi indistinguibili gli uni dagli altri, una volta bagnati e miscelati dalla spuma marina. La spiaggia si confonde con la riva, fondendosi con essa diventa un’unica sostanza e forma. Il cielo riprende gli stessi colori delle acque nordiche e glaciali, riecheggiando l’algida amarezza che il pittore aveva nei confronti della vita e del destino. Munch era un uomo che aveva sofferto tanto: solitario, infelice, inerme e sfibrato, aveva provato fino alla morte a realizzare il desiderio di rottura con quella “Solitudine” tanto odiata ed agognata, non riuscendoci. Ecco perché il Pensatore “munchiano”, come la statua “rodiniana” è avvolto da un flusso cementario, che non gli permetterà mai di raggiungere una dinamicità flessibile, per cogliere l’effimera felicità dei due personaggi appena percettibili sullo sfondo.

Ed è proprio la solitudine la condizione ineffabile che trascina l’uomo nel mondo della sofferenza e della drammaticità. La solitudine si sa, non possono assaporarla tutti allo stesso modo, ognuno reagisce in maniera diversa: per alcuni è rigenerativa, si pensi (ad esempio) agli “anacoreti zarathustriani”; per altri è insopportabile, basti ricordare i depressi colpiti dal disturbo bipolare. Ovviamente, la domanda sorge spontanea: “Come è possibile che una condizione dell’anima donata dal Signore, nella sua più complessa ed inverosimile “unicità relativa” non è uguale per tutti?”. La risposta è molto semplice, perché come dice Pasolini: “bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune”. È necessario “avere buone gambe”, poiché l’uomo deve camminare “solo et pensoso i più deserti campi” sempre con “passi tardi et lenti”, fino a percorrere le zone più sconosciute di questo universo impercettibile, pur di far staccare la solitudine dall’anima, come un’ostrica da una conchiglia. Inoltre, è giocoforza avere “una resistenza fuori dal comune”: solo “resistendo”, si può sopportare ed amare l’emarginazione volontaria.

Ma dopo “una camminata senza fine per le strade povere”, declama Pasolini, “bisogna essere disgraziati e forti” come i “fratelli dei cani”. Proprio nell’ultimo verso, il poeta bolognese utilizza il simbolo emblematico del “cane”, l’animale per antonomasia che personifica con grande orgoglio e condanna l’imperitura solitudine. Ed ecco che il mondo governato dall’umanità si trasforma nel canile più insopportabile, dove ogni “disgraziato” ama fugare dal proprio corpo, quando invece ognuno deve elaborare i pensieri per essere libero (o forse no).

Francesco Petrarca nella sua celeberrima poesia “Solo et pensoso” afferma che nonostante non sappia cercare “sì aspre vie né sì selvagge”, non c’è nessun luogo “ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co llui”. Sebbene ricerchiamo la solitudine in ogni piccolo attimo della nostra esistenza e in ogni luogo, è umanamente impossibile abbandonare i pensieri che ci affliggono quotidianamente, poiché ci sono forze psichiche ben più forti dell’isolamento, come l’amore (che tanto tormenta il Petrarca), o semplicemente la straordinaria essenza della riflessione della nostra mente. Per sillogismo aristotelico, quindi, non siamo mai soli, pensiamo di esserlo, mentre non lo siamo minimamente.

Ci solo alcuni poeti, scrittori e filosofi famosi che se non fossero stati soli per tutta la vita, non avrebbero ricevuto quella sfavillante “eternità letteraria” che tengono ben stretta tra le mani, le stesse con cui hanno scritto fiumi di parole memorabili. Non conoscendo la solitudine, non avrebbero mai capito chi erano veramente. “Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”, questi versi che appartengono a  Giacomo Leopardi urlano di dolore, un dolore: esistenziale, interno, immenso, pieno di angoscia libidica e ricco di un tormento spaesante. Attraverso l’isolamento esistenziale c’è la scissione tra l’istanza del suo “Io” fragile e la sua essenza; Leopardi si è perso nei meandri concentrici della sua anima vulnerabile, per questo non conosce più se stesso. Allora può la solitudine creare questo effetto? Prima ci demolisce e poi ci ordina di capire chi siamo veramente? Io penso di sì, altrimenti un genio indiscusso come Leopardi non si interessava mai a lei. D’altronde è un modo non facile per conoscersi.

Cosa si può trovare attraverso la solitudine? Proust ha ricercato il suo “tempo perduto”, Kafka il suo “silenzio rigeneratore”, Joyce il suo “flusso di coscienza”, Flaubert le sue bramate “metafore”, Tasso la sua “follia”, Ariosto il suo “Orlando”, Dante la sua “Commedia”, Shakespeare il suo “Amleto”, Schnitzler il suo “doppio sogno”, Conrad il suo “cuore di tenebra”, Bulgakov la sua “Margherita”, Stevenson il suo “doppio”, Woolf il suo “suicidio”, Baudelaire il suo “Spleen”, Sartre la sua “nausea”, Pirandello sua “moglie”, D’Annunzio la sua “vecchiaia”, Svevo la sua “ultima sigaretta”, Nabokov la sua “Lolita”, Dostoevskij la sua “bellezza conquistatrice”, Tolstoj la sua “Anna”, Goethe il suo “Mefistofele memorabile”, Foscolo la sua “Patria”, Petrarca la sua “Laura”, Leopardi il suo “Ego”, ed io la mia fine, perché: sto “sola sul cuor della terra trafitta da un raggio di sole”. Sarà subito sera.

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Auguste Rodin ed “Il pensatore”

 

Leggi il contributo di Massimo Sannelli su      pasolini.net

http://www.pasolini.net/contr_sannelli-solitudine.htm

Pierpaolo Pasolini
Senza di te tornavo
Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

EPIFANIE – racconti – Pasolini e Bach a Bergamo alta – prima parte

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Bergamo

EPIFANIE – Pasolini e Bach a Bergamo alta

Una camera spartana; era quello che aveva trovato a due passi dal Centro storico di Bergamo bassa, in via Pignolo. La proprietaria, una signora sui sessanta, aveva richiesto l’ anticipo dell’affitto settimanale; non si fidava dei meridionali. Troppe fregature aveva avuto e non le bastava che Fulvio le fosse presentato da un pigionale d’annata, anche lui era meridionale! Una stanza spoglia con pochi mobili e nessuna possibilità nemmeno di utilizzare la cucina; per fortuna Fulvio conosceva molto bene uno dei suoi amici terroni che lavorava alle Ferrovie dello Stato e che, ancora celibe, utilizzava a pranzo ed a cena la Mensa del Dopolavoro Ferroviario. Così, introdotto come amico fraterno, Fulvio ne poteva utilizzare i servizi pagando come “esterno” un prezzo molto conveniente. A Bergamo c’era anche un altro suo amico, Fausto, che abitava in via Novelli. Lo aveva conosciuto durante il servizio militare, Fausto. Era un ragazzo molto attento alle trasformazioni sociali ed era politicamente impegnato senza appartenenza ad alcun Partito; un “cane sciolto” attento alle attività dei “centri sociali”. Gli telefonò ed andò anche a trovarlo una domenica mattina; lavorava in una fabbrica nell’hinterland milanese e tornava a casa solo il fine settimana. Sembrò sfuggente, un po’ vago e superficiale nei rapporti che mostrava, in contrasto con la serenità dei giorni della “naia”, freddino! Era la fine di ottobre del 1975; il cielo era limpido e si respirava una buona aria. Bergamo non era inquinata come Milano e le giornate, mattina e pomeriggio, erano libere per Fulvio, che aveva ricevuto una supplenza ad un corso serale all’Istituto Tecnico e Commerciale “Vittorio Emanuele II”. Il lavoro era impegnativo ed occorreva prepararsi in modo adeguato: gli “studenti”, tutti adulti, erano desiderosi di apprendere e spesso, essendo coetanei o più anziani, sapevano molto di più dei loro docenti; se non altro, possedevano loro competenze specifiche di cui non celavano le conoscenze. Di giorno, Fulvio studiava, prevalentemente la mattina e poi andava ad esplorare la città; al pomeriggio frequentava il cineclub “Giovanni XXIII” sul viale omonimo. Oppure andava in giro per le scuole del territorio per capire se vi fosse bisogno di lui al termine della supplenza; di solito, ci andava di mattina. E quel giorno nel quale si recò a Pontida, una Scuola Media, sceso dal treno lesse sulla locandina de “l’Unità” che era morto Pier Paolo Pasolini. Si precipitò ad acquistarla e divorò le pagine con rapidità. Che grande, bella persona era Pier Paolo Pasolini; odiato dalla Destra e rinnegato dalla Sinistra aveva messo a nudo le contraddizioni della società del suo tempo, rivelandone la metastasi in atto nella “mutazione antropologica”. Che grande perdita per il nostro Paese; la sua lucidità analitica aveva accompagnato alcuni dei giovani di allora nella conquista della consapevolezza che fosse necessario un profondo radicale cambiamento. Misteriosa quella sua avventura nella notte allo Scalo di Ostia, quel mattino occupò per intero la mente ed il cuore di Fulvio. Era il 3 novembre 1975; Pasolini era stato ucciso in circostanze di difficile lettura nella notte fra il 1° novembre, giorno dei Santi, ed il 2 novembre, Giorno dei Morti. Ed i commenti erano perfidi, irridenti la sua omosessualità che dava fastidio ai fascisti maschilisti ed ai perbenisti di Centro e di Sinistra. Fulvio, continuando a leggere le pagine del suo giornale preferito, fece ritorno a Bergamo subito dopo essere stato informato che una supplenza ci sarebbe stata dalla settimana seguente ed aver lasciato il suo recapito domiciliare provvisorio. Quel pomeriggio al cineclub proiettavano “I tulipani di Harleem” un film di Franco Brusati, regista di culto in quegli anni. Vi si recò e si innamorò, di Carole André (la Lady Marianna di “Sandokan” televisivo, per intenderci).

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reloaded POESIA SOSTANTIVO FEMMINILE – una storia ed un metodo da recuperare

Pubblicato lo scorso 8 luglio e riproposto oggi 1 novembre 2014

 

Questo pomeriggio è passato a trovarmi Pippo Sileci; mi ha portato una copia in dvd di “Capelli”, un film scritto da me insieme ad un gruppo di allievi del Liceo “Copernico” alla fine degli anni Ottanta di cui avevo un master in U-Matic e la mente è andata ai giorni in cui per la prima volta conobbi Pippo come collaboratore di Franco Morbidelli prima al Sindacato di Piazza Mercatale e poi in una struttura autonoma situata in una palazzina proprio alla confluenza fra Viale Montegrappa e Viale Veneto. Franco era (purtroppo “era”) uno straordinario artista ed una persona molto attenta a valorizzare idee e persone che presentassero progetti innovativi nel campo della produzione videocinematografica. In quegli anni mi occupavo con l’ARCI di cinema (ero nel Direttivo regionale dell’UCCA) e stavo seguendo per la rivista del Sindacato “Rassegna Sindacale” una serie di interventi sul tema “Cinema e lavoro” (ci si chiedeva, allora, come mai il Cinema non si occupava più da tempo del mondo del lavoro); di lì a poco mi sarei inoltrato nell’impresa di recuperare sia la pellicola che la protagonista del primo film di Gillo Pontecorvo, “Giovanna”, girato a Prato a metà anni Cinquanta. Ma parleremo di questo e di altre vicende che riguardano quel periodo più in qua; ritorno a Franco Morbidelli, alla memoria del quale alla Circoscrizione Est dedicammo alcune iniziative come il Premio di Pittura e di Grafica. E fu proprio nel tentativo di collegare più iniziative in ricordo di Franco (Musica, Arte e Poesia) che, durante una notte insonne (le idee navigano nelle tenebre), mi venne l’idea di abbinare al Premio Morbidelli uno spazio per la Poesia. Il titolo mi venne di getto, per consuetudine metodologica ma anche per razionale concretezza; ed altrettanto per la grande difficoltà di identificare altrimenti il significato del termine. Per rendere più elevata la partecipazione pensai ad una struttura aperta, escludendo il concorso a premi, che mi sembrava macchinoso e costrittivo, fortemente legato alla soggettività delle giurie, contrario alle forme di espressione libera che dovrebbe essere tipica della parola poetica. Era il 2000, il dicembre del 2000,  e nasceva l’idea di “Poesia Sostantivo Femminile” che avrebbe avuto un grande successo per dodici anni vedendo la partecipazione di centinaia di donne ed uomini che, in occasione dell’8 marzo, inviavano i loro versi avendo un solo vincolo, che se non erano prodotti da donne dovevano ad esse essere dedicati. Con la Poesia donne ed uomini soddisfano l’esigenza di utilizzare registri alti per comunicare i propri sentimenti, le proprie ansie, le proprie inquietudini, i propri valori in una società troppo spesso contrassegnata da ritmi eccessivi, da rapporti difficili e complessi, da una diffusa incomunicabilità, da un confronto sempre più competitivo. E la Poesia è libertà, è la voglia prorompente di affermare i propri desideri, di mettere a nudo i propri sogni, le aspirazioni, di esorcizzare le paure, le angosce esistenziali, tutto quello che altri preferiscono a volte mantenere dentro, comprimendolo ed inaridendosi. Coltivare la poesia, sia per le donne che per gli uomini, significa saper sapientemente innaffiare questa tenera pianticella e farla crescere lentamente dentro di sé fin quando non arriva il momento di metterla a disposizione degli altri, del mondo. Un mondo che se fosse senza poesia sarebbe un deserto invivibile. “Poesia Sostantivo Femminile” ha dunque vissuto 12 edizioni dal 2001 al 2012 ma potrebbe essere nuovamente riproposta nel 2015 se si trovassero dei “volontari” per organizzarla. I costi sono sempre stati molto contenuti e la partecipazione è sempre stata alta sia numericamente che per la qualità. Una delle immagini (quella in evidenza in alto) ripropone la copertina della prima Edizione con una poesia di Giovanna Fravoli, che ce l’aveva portata in Circoscrizione scritta di getto su un foglio “Il tempo è troppo lento per chi soffre troppo breve per chi gioisce troppo lungo per chi aspetta, solo tu luce dei miei occhi solo tu stella luminosa nella notte più buia e tu sei lucente solo tu goccia di pioggia sei nel cielo senza nuvole ….solo tu nel mio cuore amica cara il mio bene per te conserverò” poesia toccante Poesia Sostantivo Femminile Un’altra immagine è riferita alla undicesima Edizione che si svolse al Dopolavoro Ferroviario. La poetessa che legge una delle sue poesie è Leila Falà che venne da Bologna per partecipare alla nostra iniziativa. NUOVE maggio 2011 360 L’ultima rappresenta una scritta che potete vedere venendo da Capalle verso Prato sulla vostra sinistra prima di arrivare ai magazzini di Mondo Convenienza NUOVE maggio 2011 391 LA MIA FIRMA MCM20027

NON SCHERZIAMO CON LA DEMOCRAZIA

Non scherziamo con la Democrazia

I Giovani Democratici della Toscana scrivono una lettera aperta “urbi et orbi” dimenticando che in ogni caso vi è una “gerarchia”, che pure riconoscono nel corpo del testo, da rispettare e che non devono dimenticare che sono i “vertici” a dover dare risposte rassicuranti sul funzionamento della Democrazia che, in un Partito che si chiama “Democratico”,  non dovrebbe essere un optional, un gagliardetto da appuntarsi al petto “ad honorem”. Tocca dunque al Segretario del Partito e Presidente del Consiglio “per grazia ricevuta” smentire con i fatti (ma “verba” continuano a volare) gli addebiti così ingiuriosi e calunniosi che personalità “storiche” come Rosy Bindi gli rivolgono.

I Giovani non si accorgono che loro stessi non sono più quelli che decantano di essere stati (Siamo cresciuti nelle piazze, nelle scuole e nelle università, con i movimenti studenteschi e il social forum) e somigliano sempre più ai giovani in giacca e cravatta delle convention della Destra (quelli che a Prato chiamano “pottini”) abituati, più che alla lotta per i diritti, a frequentare gli “aperitivi” eleganti. I Giovani che hanno sempre avuto una caratteristica “politica” di vivere nelle Federazioni forse non si sono accorti che la vita dei Circoli se non è morta è in coma profondo (il calo delle iscrizioni è riferito soprattutto a coloro che fino a pochi mesi fa si facevano in quattro per il Partito: ma, si sa, il mondo è cambiato; ora la Politica non la si fa più in codesto modo!)
I Giovani si impegnano con questa loro “missiva” a bacchettare tutti, nessuno escluso; solo che a Serra, Bindi e Fassina riservano parole dure (poco mi importa di Serra) ma poi quando passano al loro “capo” (da veri neo “lupetti”) usano parole lievi (Il segretario deve decidere, si, ma senza sembrare insofferente alle discussioni. Può organizzare eventi e convention, ma non comportarsi da leader di un pezzo soltanto del PD, perché lo guida tutto. Può avere le sue idee, ma non ridicolizzare quelle degli altri.). Bisogna invertire l’ordine, innanzitutto, ricordandosi che l’attuale Presidente del Consiglio si è insediato per “grazia napoletanica ricevuta” e che il 40% e rotti è stato ottenuto alle Europee e che il Parlamento attuale non corrisponde a nessun metro collegabile a valori elettorali. Inoltre quando si parla di Sinistra occorre stare attenti ed essere cauti per non rischiare di sentirsi dire “Ma quale Destra e Sinistra, ma quale Centro? ormai sono schemi superati!”.Ma sì! serve tutto! Se io dico “Sinistra” mi si attacca; se lo dice il buon Renzi lo si osanna. In effetti non c’è molto di Sinistra nelle azioni di questo Governo e ce lo confermano gli entusiastici peana della Confindustria e della Destra al Governo e fuori di esso. E bisognerebbe anche aggiungere, se ve ne fosse bisogno, che di fronte alle scelte del Governo avremmo quasi certamente portato le bandiere alle manifestazioni sindacali se a capo di esso ci fosse stato un esponente della Destra.

Chi intende leggere il testo della lettera “aperta” dei Giovani Democratici della Toscana può farlo copiando ed incollando il link seguente

http://www.gdtoscana.it/ne-iphone-ne-gettoni-telefonici-meritiamo-di-meglio/

 

 

VIAGGIATORI – una serie di racconti I GIORNI 1972 quarta parte

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mare aperto

Era una donna di mezza età, bruciata dal sole nel viso, di Ventoteneforse o di Ponza. Vestiva di nero, in modo poco elegante per una città ma vicino a quelle nostre vedove di marinai che, nel Sud, nei paesini di mare e nelle isole, usano ancora lavorare di conocchia e di fuso su quei due tre scalini davanti alle loro abitazioni rivestite di bianca calce che dà loro quella sensazione di pulito, di nitido. La trovammo seduta a quel posto che avevo riservato con un tantino di spiritosagine al mio amico “un po’ stanco”.
Guardai la signora vestita di rosso che le sedeva accanto. Doveva avere manie aristocratiche. Mi rispose con uno sguardo di sopportazione e di rassegnazione.
La bella costa di Gaeta ci passò accanto e noi la guardammo come in un film. Ogni secondo una propsettiva diversa, un’angolazione nuova e le immagini passavano così, frettolosamente. Il vento scompigliava i miei lunghi capelli.
Vidi arrivare una ragazza bruna di età giovane ed incerta, bella, occhiali d’oro scuri e grossi, un corpo leggero ed aggraziato.
“Shambeck, Shambeck, Schambek….” mormorando tra il silenzioso ed il sonoro.
Con lei c’era il padre. Si avvicinarono a noi che stavamo a farci accarezzare dal vento ed avedere il film di cui prima…e notai che almeno lei aveva lo stesso mio problema: i capelli lunghi e scompigliati. Suo padre li aveva corti.
“Il vento….i capelli, devo tagliarli” e nient’altro mi bastò dire, in maniera affrettata a bella posta, per attaccare.
Con Arleppa Schambeck, Opromollo e Mister Foffano, divertita ma incerta…
All’improvviso il mio amico ieratico guardando il cielo e alzando a metà le braccia: “Trasumanar significar per verba….”.
“…non si poria”.
Una voce alle nostre spalle imprecisata ed inumana.
Al bar, dove poi ero andato, era seduta al banco la figlia della signora in rosso. Non parlammo. La madre aveva detto che andavano a Ventotene. Noi a Ponza. Sarebbe stata una fatica sprecata, un mero tirocinio attaccare….ma del resto non ne avevo tanta voglia. Il cameriere mi servì un’aranciata amara.
“Davvero fai? Insomma, se io ti facessi capire, poniamo per scherzo, che ci sto, tu ci staresti?”
“Beh, che c’è di male? Io, sì”.
La tenevo per mano. Lei si faceva teneramente tenere per mano. Eppure bisogna vincere il timore di chissà cosa per tenere per mano una ragazza. In una mia ricognizione avevo scoperto come andare a prua.
“Vieni. Andiamo”.
E lei per mano, dietro. Il mio amico sa quando deve andare e quando no. E dietro. Con tutti quei personaggi inventati ed i loro aneddoti bislacchi avevamo confuso il suo cervellino. Milanese, parlammo delle nostre città dei nostri concittadini. Andava a Ventotene.
Il padre dopo un po’ andò cercandola dappertutto. Lei ci raccontò poi ridendo che aveva addirittura pensato a rapimenti o ad involontari tuffi nel mare. Che si era recato anche dal capitano della nave. Che padre! Che gelosia!
“Così impari!” e giù schiaffi. “Impari a dire bugie”. Non si tocca una donna nemmeno con un fiore. Una donna, sì. Ma un diavolo, no.
Qualche anno prima dormivano insieme, talvolta soli. La fine.
La nostra giovane amica venne davvero rapita, ma dal padre! Non ci salutò neppure quando sbarcò, a Ventotene.

PASSIONE VIGOTRUFFAUT – PRATO CICOGNINI VIA BALDANZI ORE 15.00 30 OTTOBRE

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Questo pomeriggio Antonello Nave ed il sottoscritto svolgeremo un’iniziativa presso il Liceo Classico Cicognini in via Baldanzi ricordando le figure di Jean Vigo e di Francois Truffaut ad 80 e 30 anni dalla loro scomparsa.
Sarà presentato un testo in Powerpoint e verranno proiettate alcuni brani dei film “A propos de Nice”, “Taris où la natation”, “Zero de conduite” e “L’Atalante” di Jean Vigo; “Les mistons” e “Les quatre- cents coups” di Truffaut.
Dei brani saranno letti da Simone Margheri ed Antonello Nave.
Al termine sarà proiettato un video su Truffaut di Emma Prisco di “LUX in Fabula”  ed uno dei primi film di Vigo o di Truffaut.

Giuseppe Maddaluno

 

Vigo e Truffaut 2

“QUATTORDICI” di Matilde Iaccarino –

ANIME BIANCHE

Matilde

Ho commentato “Anime bianche – racconti dal carcere” edito da Valtrend nell’occasione del “Festival della Letteratura nei Campi Flegrei – Libri di mare libri di terra” dello scorso settembre. E ribadii che si trattava di un’operazione intelligente, socialmente utile al recupero di una parte di normalità per le detenute della casa circondariale femminile di Pozzuoli,  lavoro svolto in modo egregio dal Laboratorio di Lettura e Scrittura, intitolato al Premio Nobel per la Pace 2012 Aung Sang Suu Kyi, che fin dal 2002 è condotto da Lina Stanco (Ass. Quartieri Spagnoli), Francesca Di Bonito (Ass. FEBE) e Maria Gaita (Ass. FEBE).  “Anime bianche – Racconti dal carcere” è il risultato del Laboratorio di quest’ultimo anno e si basa sul testo di Matilde Iaccarino, “Quattordici” edito dalla stessa casa editrice Valtrend. Alcune donne del carcere di Pozzuoli ne hanno scelto parti e su di esse hanno costruito nuovi brani ricollegandoli ad esperienze personali. “Quattordici” è un libro apparentemente composito e disarticolato all’interno del quale si ritrovano parole ed immagini; ma in effetti c’è un collegamento molto stretto fra  le fotografie di un giovane gruppo di valenti professionisti (Michele Esposito, Alessandro Esposito, Aurora Scotto di Minico, Andrea D’Agostino, Paola Visone, Anamaria Policicchio e Paolo Visone) e le parole all’interno di un libro che analizza la società introducendovi la pratica dell’antropologia visuale. Il libro si avvale di una duplice introduzione; la prima “Ai bordi di acquamorta” di Angelo Petrella, giovane scrittore, sceneggiatore napoletano; la seconda, “Il bello delle cose” di Antonio Toty Ruggieri, noto fotografo professionista del quale apprezzo l’attenzione sociale ai mondi diversi del palcoscenico partenopeo più di quello chic e dorato della Moda. I racconti di Matilde sono, per l’appunto, 14 e trattano argomenti collegati alla vita delle persone comuni nell’area flegrea. L’autrice sembra conoscere profondamente le storie che sceglie di raccontare in modo fluido autogenerantesi, quelle da cui trae ispirazione; e lo fa lievemente ma liricamente, evidenziando la sua bellezza interiore che non è per niente inferiore a quella esteriore. Ella si distingue per la straordinaria capacità di cogliere piccoli tratti della vita dei suoi protagonisti che, da minimi personaggi di provincia, assumono ruoli “universali”. Il linguaggio che utilizza in modo naturale si caratterizza per la freschezza e la naturalezza, riuscendo ad interpretare come dall’interno le vicissitudini di un’umanità variegata facendone emergere il vissuto attraverso un’analisi profonda. Sintesi e concretezza evocano, ben più che lunghi sproloqui sedicenti “esaurienti” tutto quello che è “fuori” dalle inquadrature di quel film che è la VITA. In “Di martedì” siamo di fronte ad un impossibile tentativo di rimettere indietro il tempo della nostra esistenza; in “Cinque minuti” vi è l’inizio di una STORIA con due persone timide, amiche più del silenzio che del vuoto ed inutile, banale eloquio. In “Sulla scogliera” la protagonista viverivive un momento importante della sua vita, nel quale deve farsi carico di una scelta decisiva; “La casa degli specchi” è un racconto più complesso, una sorta di “giallocronaca nera” ma anomalo,  all’interno del quale domina il volto sorridente della protagonista.  Ne “Il giorno dei morti” ritroviamo un’intensa liricità collegata ad eterni irrisolti dilemmi, rimpianti esistenziali (“A volte le cose sembrano non avere un senso, a volte il senso ci viene a cercare”); in “Primo tempo” l’eroe è un bambino nell’attesa di un momento importante della sua vita (“Quando sei un bambino, l’unica cosa che desideri è giocare a pallone. Giocare a pallone è la libertà”). “Napoli-Marocco” ci proietta all’interno di una giornata da extracomunitario, da “reietto” nel contesto della struggente bellezza dei “campi ardenti”; così come in “Di parole e di condono” entra in scena la tragedia delle case abusive vista con gli occhi di chi con tanti sacrifici l’ha costruita: una tragedia vissuta con un certo ottimismo naturale nella parte finale. In “Nel mezzo” vi si analizza il tema del lavoro nero, quello precario, sottopagato e lo sfruttamento: anche in questo racconto il protagonista non si lascia prendere dalla disperazione e reagisce con innato ottimismo; “Dal rione” è il ritorno al passato con il riaffiorare dei ricordi in uno degli ambienti simbolo della storia puteolana, il “Rione Terra”. In  “Quando verrà la neve” c’è un incontro epifanico nel corso del quale il miracolo della poesia e del pensiero poetico si compie rendendo reali i sogni. In “Nella carne” ancora una volta si passa dalla disperazione alla scelta di vivere: è la Vita che vince su tutto, sul Male, sull’Offesa, sull’Ipocrisia, sulle meschinerie; l’ironia e l’ottimismo pervadono anche “Tamponamento a catena”: esse superano tutte le difficoltà quotidiane in un mondo che non sempre funziona nel senso che noi desidereremmo sia individualmente che collettivamente. L’ultimo racconto, “L’attesa” ci porta in una vicenda che si snoda in modo piano, sereno, tranquillo; la protagonista è presentata attraverso un monologo molto intimo, che si isnerisce in un contesto narrativo che rappresenta la “scelta” più importante della sua vita dieci anni dopo un altro incontro altrettanto fondamentale. In “Quattordici” Matilde Iaccarino si conferma capace di entrare nel mondo interiore dell’animo umano, di interpretarne le angosce, di perdersi nei loro pensieri, nelle preoccupazioni, utilizzando l’amara ironia commista all’ottimismo della disperazione e rivestita di saggezza popolare.

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PASSIONE VIGOTRUFFAUT – PozzuoliPrato – L’analisi di Federica Nerini

A Pozzuoli l’iniziativa che abbiamo svolto presso l’Associazione “Lux in Fabula” ha visto la partecipazione e l’intervento di Germana Volpe, Roberto Volpe e Emma Prisco (autrice di un video che presenterò anche a Prato giovedì prossimo 30 ottobre ore 15.00 presso il Liceo “Cicognini”). L’intervento conclusivo è stato quello di Federica Nerini, la più giovane del Gruppo. Ve lo propongo.

Federica Nerini

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Germana Volpe

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Roberto Volpe

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Emma Prisco

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CONFERENZA: “Passione Vigo/Truffaut”.
Il mio studio non è una apologia della Psicoanalisi freudiana, né un lavoro scientifico, ma un elaborato creato per farvi capire come le nostre azioni siano condizionate da eventi, esperienze, attimi e soprattutto da traumi, che l’uomo ha vissuto nel corso della sua esistenza. A volte siamo malinconici, talvolta felici, in altri tempi nostalgici, sebbene non riusciamo a capire il perché. Noi siamo dotati di una FORZA OSCURA (inconscio), che manovra le nostre azioni grazie a delle istanze psichiche guidate dalla rimozione: i RICORDI RIMOSSI ci governano. NOI SIAMO CIO’ CHE VIVIAMO. Quindi siamo totalmente schiavi di noi stessi, solo che non ce ne accorgiamo. Ho studiato libri che raccontavano la biografia di questi due registi francesi, ho analizzato i film scoprendo le diverse tecniche e sfumature cinematografiche, dopo aver letto le sceneggiature sono poi arrivata ad una conclusione: l’INFANZIA e la FIGURA del PADRE sono entrambe fondamentali per aver segnato psicologicamente l’attività d’astrazione dei due cineasti. Ora analizzeremo questi due aspetti affascinanti per capire i loro concepimenti creativi:
L’infanzia di François Truffaut è un’infanzia difficile. La madre partorirà a diciotto anni, in un primo momento lo alleverà una balia, poi verrà cresciuto dalla nonna materna. Sarà lei ad accudirlo e a insegnargli l’educazione infantile. Successivamente la madre si sposerà con un certo Roland Truffaut, un designer industriale che darà il cognome al bambino nonostante non sia il padre biologico. Il piccolo François quindi crescerà con il malessere e la consapevolezza di non aver mai conosciuto il suo vero padre biologico, e di non essere un bambino come gli altri. La madre non l’allatterà mai “mostrando la più alta forma d’amore verso il figlio dando in dono se stessa”. La madre ama il suo bambino perché è la sua creatura e non perché abbia fatto qualcosa per meritarselo (archetipo junghiano). L’amore materno è incondizionato, mentre l’ amore paterno è condizionato. La concezione dell’amore materno può essere spiegata con la storia biblica della creazione. La terra promessa (simbolo di madre) è descritta come “traboccante di latte e miele”. Il LATTE è simbolo delle cure che la madre dà al bambino, mentre il MIELE allude alla dolcezza della vita, la felicità di sentirsi vivi. Quindi per essere una brava mamma bisogna dare sia del latte, sia del miele. Ma non sempre è così. Se il bambino non vive questo meccanismo, sarà turbato da un trauma per tutta la vita. Possiamo studiare varie scene de “I 400 colpi” (capolavoro autobiografico), in cui il piccolo Antoine è sofferente, non vivendo un’infanzia normale. Antoine alla psicologa in riformatorio dice: “All’inizio mi avevano affidato ad una balia; poi quando sono mancati i soldi, mi hanno mandato da mia nonna… quando lei è diventata troppo vecchia per tenermi, allora sono tornato dai miei genitori, in quel momento, avevo già otto anni, mi sono accorto che mia madre non mi voleva bene, lei avrebbe voluto abortire”. E ancora in “Non drammatizziamo è solo questione di corna” egli afferma ad un amico: “Io non mi innamoro di una ragazza in particolare, io mi innamoro di tutta la famiglia: il padre, la madre… mi piacciono le ragazze che hanno genitori gentili. Adoro i genitori degli altri, insomma!”.
Il personaggio di Truffaut, Antoine avrà sempre la mancanza di non essere stato amato nella prima parte della sua infanzia, generando un disturbo della sfera affettiva. “L’uomo che amava le donne” in realtà non ne amava neanche una, poiché non avendo avuto l’amore necessario nell’infanzia (periodo fondamentale per la formazione della personalità individuale) vorrà o conquistarsi l’amore degli altri, oppure realizzare il desiderio insoddisfatto di essere amato sempre in ogni singolo momento della propria esistenza. LA MANCANZA DEVE ESSERE COLMATA DALL’AMORE. Antoine (l’alter ego di Truffaut) non amerà mai le donne, ma sarà innamorato solamente dalla loro immagine. Pessoa infatti afferma: “Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo”. Non sarà mai convinto pienamente del proprio amore, poiché è incapace di amare una donna. Quando l’uomo è innamorato sogna la perfezione e si illude di averla sfiorata con la propria partner. In realtà non è mai così. Io faccio sempre l’esempio dei templi Aztechi che non puntavano alla perfezione, solo per la paura di non competere con la grandezza di Dio. Gli operai lasciavano sempre un angolo incompiuto, affinché il tempio fosse imperfetto. Ecco l’amore è così, prima pensiamo di aver toccato il cielo con un dito, poi scopriamo dopo l’infatuazione l’effettiva imperfezione del nostro partner, esplorando l’angolo oscuro.
È famosa la frase pronunciata da Antoine in “Non drammatizziamo è solo questione di corna”, quando dopo aver tradito la moglie Christine egli dice con una battuta di tipo felliniano: “Tu sei la mia sorellina, tu sei mia figlia, tu sei mia madre…”; Christine risponde: “Avrei voluto essere anche tua moglie”. Questi cinque film rappresentano la formazione o disgregazione di un personaggio dall’infanzia ai trent’anni. Fitzgerald diceva “la vita intera è un processo di demolizione” e aveva ragione. Poiché un personaggio in fuga non riesce a convivere con se stesso e con gli altri, avendo il terrore di amare e di essere amato.
Con Jean Vigo si ha la mancanza di una figura paterna effettiva, fino ad arrivare a “mitizzarla” a sua volta. Miguel Almereyda era una anarchico scomodo, ha cercato di diventare chiunque nella sua vita, tutto tranne che un padre. Il piccolo Jean è macchiato dalla colpa di essere il figlio di un rivoluzionario, che non conoscerà mai. Morto il padre, la madre non avendo i mezzi per mantenerlo lo affidò a Gabriel Aubès, il marito della nonna paterna. In altre parole il signor Aubès non era neanche suo nonno, ma fu l’unico che si occuperà di lui. Vigo sarà tormentato sempre dall’idea dell’abbandono della madre per tutta la vita. Infatti nel suo diario scriveva: “Penso che io non sia mai stato amato da mia madre, per questo sono stato abbandonato”. Successivamente passerà da un Collegio francese all’altro, nascondendo anche la sua identità, questo lo turberà profondamente per sempre. Il corto “Zero in Condotta” rappresenta l’esorcizzazione di un’infanzia: triste, malinconica, difficile e nostalgica. Voleva avere al di là del Collegio anche lui una famiglia normale, come tutti. Inoltre, sarà tormentato dall’idea della morte in tutto il corso della sua esistenza; il padre è morto in circostanze misteriose, ucciso da alcuni cospiratori. Molti pensano che sia stato soffocato con dei lacci delle scarpe, facendo pressione con la spalliera del letto. Questa mancanza affettiva paterna verrà cercata spesso in qualunque uomo, pur di riempire il ricordo. Possiamo ritrovare una figura del padre nel personaggio di “père Jules” dell’Atalante in tutta la sua polimorfica potenzialità espressiva. Personaggio malinconico, ricco di esperienze, estremo viaggiatore, si occuperà di Jean quando Juliette scapperà dalla chiatta e non riuscirà più a vivere per la tristezza. Sarà père Jules ad andare a riprendere Juliette per riportarla sull’Atalante.
Ciò che ci deve maggiormente far riflettere è che anche qui nel capolavoro di Vigo la concezione dell’amore viene idealizzato all’interno di un’ immagine. Mi riferisco per esempio alla sequenza in cui i due sposi separati spazialmente – lei in una stanza d’albergo sulla terraferma e lui nella cabina della chiatta che scorre sull’acqua si cercano a colpi di dissolvenze incrociate. Lo sposo riuscirà a superare la solitudine immergendosi nell’acqua del fiume per rivedere la donna amata. Ed ecco che c’è un connubio di immagini, sensazioni ed idee, che nascono dalla spinta di Jean di cercare l’immagine sensuale ed erotica di Juliette. Gettandosi nel fiume inconsciamente aumenterà il suo spirito narcisistico, guardando la sua immagine riflessa.
Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo. (Pessoa).

VIAGGIATORI – una serie di racconti – I GIORNI 1972 terza parte

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I GIORNI – terza parte

Il capitano in seconda alzava la voce e con lui la signora con cui era in alterco. Alta, slanciata, magra, dai capeli corti biondo-rossicci, gli occhi di una bambina capricciosa, il naso leggermente adunco, protestava per il ritardo in un modo che avrebbe innervosito il più paziente dei marinai.
Era trascorsa circa mezzora dall’orario canonicondi partenza. Di lì a qualche minuto furono accesi i motori, specchietto per le ellodole.
Passò ancora un po’ per partire. Finalmente.
“Come potrò dimenticare tre mesi della mia vita, tremesi meravigliosi vissuti felicemente”. Dimenticati _ Una margherita _ non dimenticati – dimenticati – non dimenticati – dimentic….
“Lei non si preoccupi leinonsipreoccupi leinonsipreoccupi leinonsi….”
Così sembrava dire il motore e mi ricordava un’estate magnifica di qualche anno prima, quando quella frase mi fece da ruffiana.
“Nonsipreoccupinonsipreoccupinonsipreocc..”
Man mano che la riva si allontanava da noi e si avvicinava la sagoma dell’abitato di Gaeta, le montagne dietro Formia apparivano sempre più alte. Una dietro l’altra disposte come a farsi concorrenza in altezza, quasi esseri umani che, arrivando dal montuoso entroterra, siano ansiosi di possedere la vista del mare.
Navi militari, barche di pescatori, battelli, motoscafi.
“Nnsprccpnnsprccpnnsprccpnnsprccpnsprccp….”
Parole mozze , sincopate, veloci sempre più veloci.
“Nsprccpnsprccpnsprccpnsprccpnsprccp….”
Montagne ora più lontane, sempre più annebbiate dall’irradiazione del sole, masse grigie, masse verdi, masse grigio-verdi, brune lontane nell’impalpabile nebbia d’estate. La costa, linea bianca sottile, palazzi senza linee bianchi, non più finestre, non più balconi, non più terrazzi, solo una linea bianca sottile. Da poppa la schiumosa scia d’acqua perdersi in un breve infinito e coll’occhio seguire, man mano e sempre più lontano, una bottiglia vuota galleggiare, dondolare sull’onda e scomparire man mano sempre più lontano a una distanza sempre piùgrande, da poppa. E non la vedi più, né fai a tempo a dire “Mi sembra…” che già è….

fine terza parte

reloaded POZZUOLI – CIRCOLO NAUTICO SAN MARCO – alla ricerca di vecchi amici

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Pozzuoli – CIRCOLO NAUTICO SAN MARCO – alla ricerca di vecchi amici
LE NUOVE PASSEGGIATE NEI CAMPI FLEGREI (dopo più di quaranta anni)

Chi arrivava al porto di Pozzuoli scendendo dall’Annunziata e percorrendo il bordo dei resti del Tempio di Serapide si trovava di fronte fino a pochi anni fa una zona tutta dedicata a “mercato”: frutta, verdura a sinistra, pesce a destra. A dire il vero ancora prima ricordo che i mercati erano tutti un po’ spostati verso la sinistra dell’area portuale ma al di là della banchina c’era un mare che assomigliava molto più ad uno stagno acquitrinoso e melmoso con residui di ogni specie e stazza nel fondo. Negli ultimi anni in modo altalenante le Amministrazioni, oberate anche da vicende che hanno ricevuto una certa attenzione da parte della Magistratura, si sono impegnate a realizzare progetti che dessero decoro a quella parte di città maggiormente nota ai “turisti” nel loro transito da e per le isole ed ai frequentatori dei locali più rinomati del lungomare. Non molti però si sono accorti che un lembo di quel territorio sulla destra ed al disotto del Mercato all’ingrosso del pesce, che fino a pochi anni fa era ricettacolo di sporcizia varia, è stato messo in ordine ed è diventato un luogo piacevole. Certo anche io non lo avevo notato e devo dire che anche mio cognato che è un acclarato “lupo di mare” non ne era a conoscenza; ma con il mio ritorno sulle mie terre flegree alla ricerca di vecchi amici è accaduto che, chiedendo notizie di Giuseppe La Mura, con il quale negli anni Settanta avevamo messo in piedi un Collettivo (era l’epoca dei “collettivi”!) Teatrale di Ricerca (che oggi chiamerei “antropologica”) ed avevamo lavorato nella messa in scena di una “Cantata dei pastori” interamente in dialetto puteolano (“Cca’ puntey ll’arbe”), un amico comune si pose a disposizione per indicarmi dove trovare La Mura, anzi si propose di accompagnarmici. Mentre ci spostavamo dalla Piazza della Repubblica verso il lungomare mi accennava al lavoro che era stato fatto su quella piccola parte di territorio costiero ma non riuscivo ad immaginare dalle sue parole ancorchè entusiastiche quello che avrei di lì a poco visto. Dopo la parte di lungomare che viene – di mattina – occupato dai mercatini, che dalle ex Palazzine sono stati molto opportunamente lì insediati, c’è una transenna (per i mezzi automobilistici), superata la quale, si discende verso la banchina che si stende poi sul mare in posizione perpendicolare rispetto alla spiaggia. Sulla destra, scendendo, un considerevole lembo di questa spiaggia è stato bonificato e curato trasformandolo, anche con opportuni innesti di terreno, in prato verde: in fondo, poi, è stata posta una struttura abitativa prefabbricata per gli uffici ed una parte coperta per custodire gli attrezzi utili al mantenimento degli spazi. Un bel lavoro, dico io; ma di La Mura non vedo traccia. Scendiamo due scalini in legno per superare il dislivello fra la strada della banchina e la sabbia ed avanziamo verso il casotto. Io sono sfacciato come se si trattasse di un luogo a me già noto (ho fatto sempre così già da ragazzo: imparavo le cose fingendo già di saperle) e mi dirigo verso l’ingresso del prefabbricato chiedendo di Giuseppe La Mura (in effetti avevo già visto una faccia a me nota dalla lontana infanzia) e mi dissero che era dentro. Sapevo di non essere atteso e sapevo anche che sarebbe stata una sorpresa, credo bella, anche per lui; perciò avanzai spedito dentro: era a questionare in polemiche non rilevanti (gli artisti sono polemici di natura e vivono di questo aspetto del loro carattere; la “polemica” è arte e se volete la chiameremo “dialettica”, solo che a differenza della polemica quest’ultima è perlomeno bidirezionale e la “polemica” è appunto “unidirezionale”) con gli altri amici; ma vedendomi tutta la battaglia venne sospesa. E così mi raccontarono di questo loro impegno, del fatto che erano riusciti a farsi dare la “concessione” di quel lembo di arenile da parte dell’Ufficio Circondariale Marittimo e di avere poi fondato il Circolo Nautico San Marco con l’impegno di bonificare e ripulire il tutto riportandolo all’uso pubblico. Con Giuseppe ed alcuni amici d’infanzia “ritrovati” intanto abbiamo rievocato i “vecchi” tempi, riportando alla luce momenti belli ma dimenticati. E poi ci siamo lasciati dopo che mi avevano però invitato – quando lo avessi desiderato – a ritornare. In special modo mi chiesero di passare la mattina di giovedì 15 maggio perché ci sarebbe stata un’iniziativa alla quale tenevano molto.
“Coloriamo in riva al mare” nella sua VI edizione coinvolgeva circa 400 studenti delle classi III – IV – V del I° Circolo Didattico insieme ai loro insegnanti. Ed io ci sono andato: avevano preparato già alle prime luci dell’alba una serie di postazioni utilizzando dei teli blu: anche io ci sono arrivato prestino e così ho potuto cooperare nella prima fase organizzativa ricevendo i gruppi che sciamavano lentamente ma gioiosamente verso l’arenile e si sistemavano in circolo negli spazi predisposti ad hoc. Attraverso gli insegnanti distribuivamo delle cartelline contenenti dei cartoncini sui quali individualmente (ma sono state concesse deroghe ad alcuni che volevano operare in “team”) ciascuno dei partecipanti poteva interpretare temi marini. La Mura, esperto, girava fra gli spazi interloquendo anche con i docenti ed osservando lo stile con cui tutti procedevano nella realizzazione della loro opera. Non sono rimasto per tutta la mattina; avevo impegni da assolvere cui non potevo derogare ma prima che andassi via, mi chiesero di essere parte della commissione giudicatrice. A parte il fatto che le mie competenze sono molto diverse ho dovuto declinare questo “onore” perché ero certo di non poter essere a Pozzuoli in quella fase dell’anno che di norma mi vede impegnato in Esami di Stato. Invece ho dato la mia disponibilità a cooperare in iniziative culturali di vario genere che vogliano intraprendere nei prossimi mesi estivi: ne parleremo.
Intanto, però, se andate o venite a Pozzuoli – anche mentre aspettate i vaporetti – non dimenticate di fermarvi al Circolo Nautico San Marco (poiché non vendono nulla e non vi si compra nulla non ho alcuna remora a postare questa “pubblicità”).

In allegato in alto foto dei partecipanti a “Coloriamo in riva al mare” ed in basso foto di Circolo Nautico San Marco – Peppe La Mura – Lungomare Pozzuoli

Circolo Nautico San MarcoPeppe La MuraLungomare Pozzuoli

 

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