IL RITORNO DI JACQUES TATI – tutto

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JACQUES TATISCHEFF, in arte JACQUES TATI

La cinematografia francese nel corso della sua storia non ha annoverato in realtà molti nomi nel genere del “comico”; ma quando li ha avuti questi sono riusciti, con la loro maestria e la loro fama, a varcare i confini sulle terre e sugli oceani: basterebbe accennare a Max Linder, Louis De Funès, Fernandel per dare notizie per l’appunto dei più famosi. Si sarebbe tentati di andare “controcorrente”, considerando invece Jacques Tati un semplice realista, avendo verificato che le azioni dei suoi film sono sempre ispirate tutte alla vita quotidiana, alla normalità più assoluta; si sarebbe tentati anche di non ammetterlo fra i “grandi” perché la sua produzione è molto ridotta rispetto a quella dei suoi compagni; si sarebbe tentati di catalogarlo più come “mimo” o “attore di cabaret” che come “comico cinematografico”. Ma tutte queste tentazioni vanno ovviamente accantonate di fronte alle immagini filmiche, così come è accaduto quest’anno (ndr 1983) in una scuola di Empoli, con gli allievi attenti a seguire i numerosi “gag” del nostro “eroe di tutti i giorni”. La proiezione di “Mon oncle” oltre a divertire con grande razionalità, ha fatto scattare in alcuni allievi – la maggior parte in verità – il desiderio di conoscere qualcosa di più su Jacques Tati.
Sulla storia di Jacques Tati (questo cognome – con l’accento alla francese – ha aiutato indubbiamente alla sua divulgazione più ampia l’arte di Jacques Tatischeff) ci conforta poco la bibliografia ancora abbastanza scarna, ma alcuni particolari, alcune scelte, un certo tipo di impostazione anche tecnica del fare teatro e del fare cinema ce li possono svelare le sue argomentazioni e proprio la sua storia biografica.
Jacque tati nasce a Pecq, nei dintorni di Saint-Germain en Laye (e cioè alla periferia ovest di Parigi) il 9 ottobre del 1908. La sua famiglia era formata dal padre, russo di origine, figlio dell’ambasciatore dello zar e dalla madre francese, figlia di un corniciaio amico di Van Gogh. Dal nonno paterno gli deriveranno una certa tristezza e quei movimenti scarni ed essenziali, il suo sguardo spesso glaciale da Pierrot lunare con cui si presenta davanti al pubblico; quei suoi tratti aristocratici non gli impediranno tuttavia di “rifare” al cinema, in particolare, ed in teatro modi ed abitudini tipici del popolo e della media borghesia.
Suo padre, scegliendo anche lui –come il suocero – il mestiere di corniciaio (con lui lavorerà spesso anche il giovane Jacques), finì con il favorire non poco le future scelte tecniche del grande Tati. L’ “inquadratura” rievoca per l’appunto la “cornice” (la parola inglese “frame” significa alternativamente “fotogramma” o “cornice” ed in francese “cadre” è “quadro” e “cadrage” è “inquadratura”). Leggete ciò che egli dice quanto al suo modo particolare di fare cinema: “Bisogna che siano i miei attori a muoversi, e non la mia macchina da presa a spostarsi…Ho cercato di dare, mediante la fissità del quadro, un’impressione di rilievo…”. Egli scopre che il primo cinema di ognuno di noi è quello fantastico dello sguardo attonito che voglia penetrare al di là di una cornice – sia essa piena, sia essa vuota -, cioè quelle fantasticherie che si fanno davanti alla scena ritratta in un quadro o in una fotografia (e Jacques apprezzerà molto l’opera di Jean Renoir, figlio di Auguste, ed in particolare “Une partie de campagne” che più ampiamente si ispira all’opera pittorica del padre) o affacciandosi a qualsiasi finestra e guardando la vita scorrere, le azioni compiersi, immaginando i dialoghi, gli alterchi, le emozioni ed i sentimenti della gente, il loro rapporto con gli oggetti e con gli altri, tutte questioni essenziali che vengono riprese nel futuro impegno artistico di Tati.
“Rido molto di più se sto sulla terrazza del caffè ed ho a disposizione questa finestra aperta sulla strada. Ecco perché ho scelto il grande schermo, che è appunto la finestra…Volevo una finestra; non un piccolo lucernario, una vera, grande finestra…La comicità esiste già fuori di noi. Il problema è saperla cogliere. Credo, perciò, che osservando il mondo che ci sta intorno si possano trovare centinaia di personaggi comici”.
Il giovane Tati, prestante e pieno di energia vitale e creativa, dedica anche molto tempo all’attività sportiva. Pratica varie specialità: il calcio, la boxe, l’equitazione, il tennis, il rugby, conquistando dei buoni successi. Ma anche in questo settore egli non tralascerà di osservare, di annotare, di cogliere tutti quei particolari movimenti, quegli impercettibili e divertentissimi (proprio perché nostri e non riconosciuti) tic e difetti della progenie umana. Se nella sua arte, più propriamente di music-hall e di cabaret, egli adopererà queste annotazioni con grande intelligenza e sapienza nella loro rielaborazione e ripetizione, il massimo obiettivo lo raggiungerà nel cinema nel famoso “gag” della partita a tennis delle “Vacanze di M. Hulot” (1949).
Le prime esperienze artistiche per Tati sono legate ad occasionali momenti di relax nella vita militare, allorquando si diverte ad intrattenere i suoi commilitoni, ricreando la vita, la realtà, gli uomini e le loro storie dinanzi a loro. Poi la sua storia sarà sempre più un susseguirsi di interventi e di presenze nel campo artistico: nel music-hall, nel cabaret, nella rivista, nel cinema. Le sue iniziali apparizioni in quest’ultima arte (quella che a noi interessa in modo specifico) avvengono in sette cortometraggi: cinque prima della guerra e due nell’immediato dopoguerra. Il primo di essi, realizzato pienamente da Tati (sceneggiatura, regia ed interpretazione), risulta estremamente importante per comprendere meglio la provenienza dei personaggi chiave di Tati: Francois il postino perdigiorno e stralunato di “Jour de fete” e Monsieur Hulot, la maschera tipica da lui inventata. Si tratta di “Oscar, champion de tennis” (1932) che, peraltro, rimanda ad una delle sue peculiari predilezioni mimico-sportive cui si accennava prima. Seguono negli anni 1934, “On demande une brute” per la regia di Charles Barrois; 1935, “Gui dimanche” regia di Charles Berr, ambedue sceneggiati da Jacques Tati e scarsamente importanti, anche se contribuiscono in qualche modo alla sua maturazione ed a quella del suo “personaggio”.
Nel 1936 è la volta di un film, la cui regia, affidata a René Clement, risulta decisiva per il successo di pubblico, che invece era mancato alle precedenti “performances”: parliamo di “Soigne ton gauche” che, trattando dell’ambiente sportivo pugilistico permette a Tati di esprimere quella sua capacità mimico-sportiva di cui si parlava prima e di affinare tutte le caratteristiche peculiarità del suo personaggio.
L’ultimo film del periodo anteguerra è “Retour à la terre” (1938) realizzato pienamente da Jacques Tati che pur non apparendo determinante per la sua carriera registra però già la presenza di qualche personaggio ed ambientazione tipica della sua produzione successiva (la campagna, i bambini vocianti, l’ameno postino).

Dopo la guerra, alla quale partecipa in qualità di sergente, Jacques Tati prende parte a due film di Claude Autant-Lara, “Sylvie et le fantome” (1945) e “Le diable au corps” (1946). Sono piccole interpretazioni poco importanti e per niente interessanti, la cui citazione vale solamente a non perderlo di vista. Ma con il denaro messo da parte con quei due lavori egli riuscì a finanziare un importantissimo cortometraggio, “L’école des facteurs” (1947), che prelude non solo tecnicamente, ma anche tematicamente al suo primo lungometraggio. “Jour de fete”(1949) nacque nella mente di Tati quando, rifugiatosi a Sainte-Sèvère-sur-Indre nella Touraine, all’indomani della guerra, egli ebbe modo di vivere in quel tranquillo borgo di campagna e di annotarne tutte le caratteristiche umane e sociali. Il film registra proprio il susseguirsi degli avvenimenti in un villaggio nell’arco di una giornata, dal 13 al 14 luglio. Queste vicende, che scaturiscono dalla verifica minuziosa delle diverse abitudini e comportamenti della gente finiscono per apparire, pur se normali, estremamente divertenti nella rielaborazione ed interpretazione di Jacques Tati. Il film aveva ulteriori particolari caratteristiche: il sonoro era registrato in diretta ed alla sua realizzazione collaborò tutta la gente di Sainte-Sèvère. Il successo arrise al film, in particolare al suo autore che ebbe il premio per la migliore sceneggiatura alla Biennale di Venezia nel 1949 ed il Grand Prix du Cinèma nel 1950 a Cannes. Questa favorevole accoglienza di critica e di pubblico, da una parte contribuì a far conoscere l’autore al mondo intero, dall’altra gli procurarono l’assalto di produttori desiderosi di arricchirsi, che proponevano di far divenire “Jour de fete” il primo di una serie di film il cui protagonista fosse il postino Francois. Ma Tati aveva ben altri progetti e soprattutto in questa occasione egli mostra quanto sia in grado di poter ragionare con la sua testa: giudica un episodio, anche se eccezionalmente importante, la sua descrizione della vita di campagna ed, avvicinandosi al mondo medio-borghese della città (o perlomeno della sua immediata periferia), si dispone alla creazione di un nuovo personaggio anche lui del tutto normale, uomo della strada, “di una indipendenza totale, di un disinteresse assoluto, che la sventatezza, il suo difetto principale, rende, nella nostra epoca funzionale, un disadattato” (Jacques Tati). Questo personaggio che si indentificherà da quel momento in avanti sempre di più in tutto e per tutto con Jacques tati è Monsieur Hulot. Non si può dire che “Les vacances” sia proprio il primo film in cui questo personaggio appare perché anche le prime opere raccolgono ricerche e descrizioni di quel mondo proprio di Tati-Hulot. “Nella vita esistono tanti che, in fondo, sono degli Hulot” dice lo stesso Tati, argomentando circa le invenzioni tipologiche del suo personaggio e negandole decisamente. E, comunque, Hulot appare con questo nome per la prima volta nel titolo di “Les vacances de M. Hulot”, un film che, iniziato nel luglio del 1951, fu condotto a termine solo alla fine dell’anno seguente. In effetti, questo come gli altri film di Tati, ha una gestazione molto più lunga rispetto ai tempi di altri registi ed è legato ad una lenta, minuziosa ed attenta analisi di tutto quello che deve essere ripreso, anche se apparentemente la vita di Hulot e degli altri villeggianti sembra scorrere nella più assoluta normalità, ma è proprio questa identificazione con la realtà che fa scattare il meccanismo comico della condivisione che provoca la sorridente intelligente e composta partecipazione del pubblico.

“Les vacances” come “Jour de fete” fu girato in esterni reali e non è fornito di un’abituale struttura narrativa; insomma non si può parlare di un film con una trama vera e propria: solo una serie di sequenze che mostrano alcuni episodi consueti che interessano un gruppo di semplici e normali turisti nelle loro vacanze dall’inizio alla fine. Di certo Federico Fellini lo vide e se ne ispirò per molti dei suoi film (per comprendere quel che scrivo occorrerebbe vedere il film di Tati). Il successo delle “Vacanze” ed i numerosi consensi della critica, l’afflusso imponente del pubblico consentirono a Tati una sempre maggiore libertà nella realizzazione del film successivo, “Mon oncle” (1958).
Questo lavoro impegnò Tati per ben due anni, e ciò viene confermato da una sua affermazione. “Dicono: – Tati impiega più di due anni a fare un film – Vi assicuro, tuttavia, che non perdo il mio tempo. Lavoro ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno. Potrei anche andare in fretta, come i nuovi autobus: allora ci metterei tre settimane. E neanche in tre mesi…Ma quando si è scelto il mestiere del cinema, che è appassionante, occorre riconoscerlo, bisogna farlo come lo faccio io, o rinunciarci…Non si può, in trentasette giorni, raccontare una storia molto importante…”. “Mon oncle” si addentra nella contraddizione, assai più viva in verità in quegli anni del “boom” economico, della industrializzazione e dell’avvento tecnologico moderno nelle abitazioni private e nelle sedi pubbliche, verso cui guardavano fiduciose tante casalinghe e tanti mariti speranzosi di poter evitare le settimanali “corvées” più o meno prevedibili ed imposte da contratti “privati”.
E’ un argomento, questo, certamente originale e diverso da tutti gli altri analizzati da Tati nei suoi precedenti film: lo zio della vicenda è quello di Gèrard Arpel, nove anni, ed è sempre Mister Hulot. La sua occupazione è limitata (ed è di un interesse e di una condivisione per noi considerevole) a vivere la vita, guardando la gente, scrutando la vita quotidiana ed il suo evolversi e facendo appassionare a questa osservazione il nipotino nelle loro passeggiate al ritorno da scuola: un film indiscutibilmente “di formazione”. Hulot è del tutto negato per intrattenere un qualsivoglia rapporto “amichevole” (o di semplice e pacifica convivenza) con le macchine, ma mentre lui non si lascia assolutamente coinvolgere – ma ne è inevitabilmente coinvolto – in un confronto con le macchine, gli altri, che se ne servono abitualmente, ne escono fortemente turbati se non proprio sconfitti. Dice però giustamente Roberto Nepoti nella biografia di Tati pubblicata nella collana “Il Castoro Cinema” n. 58, La Nuova Italia, pag. 51: “Il film non si risolve tuttavia nell’inno al passatismo. Indica piuttosto Hulot, liaison fisica tra ipertecnologico e desueto, come “terza forza” capace di umanizzare il progresso, in nome della rivolta contro il condizionamento che esso comporta”.
Anche questo film ottenne numerosi premi: a Cannes, New York, Parigi e, ciliegina sulla torta, l’Oscar nel 1958.
“Playtime”, il film che segue nella produzione di Tati, è datato 1967: sono passati dieci anni da “Mon oncle” ed alcuni, pensando siano tanti, hanno potuto credere si sia trattato di un inaridirsi della vena creativa, mentre, proprio per quanto si è detto dianzi, non vi è attimo della sua vita che non sia impegnato nel rilevare attentamente gli eventi e quindi questo film è il risultato di una cernita fra tutte le osservazioni compiute in quel lungo periodo.
Lo sguardo di Tati si posa in questa nuova occasione sulla città, dopo la campagna, dopo lo stabilimento balneare, dopo i quartieri periferici borghesi e popolari. La città di “Playtime” è guardata con gli occhi di chi si sente estraneo di fronte alla ormai dilagante tecnologia elettronica, di fronte ai palazzi tutti alti ed uguali fra loro, all’interno di questo universo futuristico in cui ormai si è costretti a vivere incasellati ed irreggimentati senza alcuna speranza. La contraddizione, tra il bisogno di sentimenti e di ideali ed il necessario ricorso ad un mondo innaturale ed asettico viene posta in evidenza con sagacia da Tati nell’atto di M. Hulot che porge alla ragazza americana un mazzolino di fiori di plastica. Raccontare il film risulta fondamentalmente impossibile, nel breve spazio a nostra disposizione; esso è costruito in maniera del tutto antitetica rispetto alle normali tecniche di narrazione: è certo il più moderno ed avanzato (e quindi più difficile da intendersi) dei film di Tati. Anche sul piano del successo, esso ottiene in particolar modo quello della critica, che riconobbe in “Playtime” una geniale intuizione di un altrettanto geniale “artefice”; gli mancò il consenso, pur importantissimo, del pubblico, che sarebbe invece stato necessario a coprire il sostanzioso “deficit” finanziario della produzione.
Il film con il suo “fiasco” non costrinse fortunatamente Tati a rivedere le sue idee, nei rapporti con i produttori, anche se gli comportò un ritardo nella definizione e messa a punto del film seguente, che è “Trafic” (1971), in cui viene presa in esame la società sempre più disumanizzata dalle “macchine”. In effetti, ed è ovvio, Tati rinnega questa realtà e sorride di fronte alla catastrofe apocalittica di numerosi cimiteri di auto, di giganteschi ed inestricabili ingorghi, di dispettosi e fastidiosi guasti. Tutta la storia (si ritorna ad una sequenza di vicende molto usuali) ruota intorno ad una invenzione geniale di M. Hulot, una nuova automobile, che può diventare casa, luogo di lavoro e di vita, ed anche, se si volesse, di morte; è la narrazione per immagini, per gags, di come l’uomo si sia innamorato della macchina ed ormai non riesca a farne a meno. Nel viaggio che si compie verso Amsterdam accadono numerosi contrattempi ed incidenti vari che sollecitano Tati-Hulot a sfrenarsi nelle sue pur sempre composte trovate.
L’ultimo dei film di Tati è “Parade” del 1974. Non vi appare più come Hulot; egli interpreta un ruolo di presentatore e di coordinatore per uno spettacolo di artisti del circo e si chiama M. Loyal. Prodotto per la televisione svedese, “Parade” potrebbe apparire ancora una volta ciò che non è mai un film di Tati: un insieme di vicende, di numeri, di gag senza un filo logico che le colleghi fra di loro. Il ruolo di Jacques Tati è propriamente doppio: accanto al suo lavoro di animatore egli si presenta anche come protagonista con una serie di pantomime, quelle più importanti e decisive per la sua carriera. Ma, ciò che è più importante, da un lato lo spettatore è ripreso nel circo continuamente coinvolto nel meccanismo dello spettacolo sia come individuo che come collettività, dall’altro lo spettatore che è al di qua dello schermo si trova allo stesso tempo coinvolto nella struttura particolare di questo film che consente di poter vivere qualsiasi momento dello spettacolo: dai lavori dietro le quinte al rincorrere, in ogni istante le diverse reazioni dei partecipanti. Il film ha ottenuto nel 1975 il “Grand Prix du Cinéma Francais”.

Jacques Tati è morto. Non credo gli si addica l’immobilità. Soffrirà molto per questo! Ma Jacques Tati non è morto, ognuno di noi è Jacques Tati, la sua umanità è sempre presente: lui indubbiamente è più bravo, perché è tutti noi indistintamente, i suoi personaggi, il suo mito, come per tutti i grandi, non sono morti con lui. Ed ora, buona visione! Scusate se non si può essere più eloquenti dei suoi film!

Sylvain Chomet nel 2010 realizzò un suo importante film basato su una sceneggiatura inedita scritta nel 1956 dal mimo, attore e regista francese Jacques Tati. La figura del protagonista riprende in disegni animati le sembianze di Tati, che aveva scritto quel soggetto nel 1956 per farne un film da interpretare insieme alla figlia.

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