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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quinta ed ultima parte

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – quinta ed ultima parte

“Playtime”, il film che segue nella produzione di Tati, è datato 1967: sono passati dieci anni da “Mon oncle” ed alcuni, pensando siano tanti, hanno potuto credere si sia trattato di un inaridirsi della vena creativa, mentre, proprio per quanto si è detto dianzi, non vi è attimo della sua vita che non sia impegnato nel rilevare attentamente gli eventi e quindi questo film è il risultato di una cernita fra tutte le osservazioni compiute in quel lungo periodo.
Lo sguardo di Tati si posa in questa nuova occasione sulla città, dopo la campagna, dopo lo stabilimento balneare, dopo i quartieri periferici borghesi e popolari. La città di “Playtime” è guardata con gli occhi di chi si sente estraneo di fronte alla ormai dilagante tecnologia elettronica, di fronte ai palazzi tutti alti ed uguali fra loro, all’interno di questo universo futuristico in cui ormai si è costretti a vivere incasellati ed irreggimentati senza alcuna speranza. La contraddizione, tra il bisogno di sentimenti e di ideali ed il necessario ricorso ad un mondo innaturale ed asettico viene posta in evidenza con sagacia da Tati nell’atto di M. Hulot che porge alla ragazza americana un mazzolino di fiori di plastica. Raccontare il film risulta fondamentalmente impossibile, nel breve spazio a nostra disposizione; esso è costruito in maniera del tutto antitetica rispetto alle normali tecniche di narrazione: è certo il più moderno ed avanzato (e quindi più difficile da intendersi) dei film di Tati. Anche sul piano del successo, esso ottiene in particolar modo quello della critica, che riconobbe in “Playtime” una geniale intuizione di un altrettanto geniale “artefice”; gli mancò il consenso, pur importantissimo, del pubblico, che sarebbe invece stato necessario a coprire il sostanzioso “deficit” finanziario della produzione.
Il film con il suo “fiasco” non costrinse fortunatamente Tati a rivedere le sue idee, nei rapporti con i produttori, anche se gli comportò un ritardo nella definizione e messa a punto del film seguente, che è “Trafic” (1971), in cui viene presa in esame la società sempre più disumanizzata dalle “macchine”. In effetti, ed è ovvio, Tati rinnega questa realtà e sorride di fronte alla catastrofe apocalittica di numerosi cimiteri di auto, di giganteschi ed inestricabili ingorghi, di dispettosi e fastidiosi guasti. Tutta la storia (si ritorna ad una sequenza di vicende molto usuali) ruota intorno ad una invenzione geniale di M. Hulot, una nuova automobile, che può diventare casa, luogo di lavoro e di vita, ed anche, se si volesse, di morte; è la narrazione per immagini, per gags, di come l’uomo si sia innamorato della macchina ed ormai non riesca a farne a meno. Nel viaggio che si compie verso Amsterdam accadono numerosi contrattempi ed incidenti vari che sollecitano Tati-Hulot a sfrenarsi nelle sue pur sempre composte trovate.
L’ultimo dei film di Tati è “Parade” del 1974. Non vi appare più come Hulot; egli interpreta un ruolo di presentatore e di coordinatore per uno spettacolo di artisti del circo e si chiama M. Loyal. Prodotto per la televisione svedese, “Parade” potrebbe apparire ancora una volta ciò che non è mai un film di Tati: un insieme di vicende, di numeri, di gag senza un filo logico che le colleghi fra di loro. Il ruolo di Jacques Tati è propriamente doppio: accanto al suo lavoro di animatore egli si presenta anche come protagonista con una serie di pantomime, quelle più importanti e decisive per la sua carriera. Ma, ciò che è più importante, da un lato lo spettatore è ripreso nel circo continuamente coinvolto nel meccanismo dello spettacolo sia come individuo che come collettività, dall’altro lo spettatore che è al di qua dello schermo si trova allo stesso tempo coinvolto nella struttura particolare di questo film che consente di poter vivere qualsiasi momento dello spettacolo: dai lavori dietro le quinte al rincorrere, in ogni istante le diverse reazioni dei partecipanti. Il film ha ottenuto nel 1975 il “Grand Prix du Cinéma Francais”.

Jacques Tati è morto. Non credo gli si addica l’immobilità. Soffrirà molto per questo! Ma Jacques Tati non è morto, ognuno di noi è Jacques Tati, la sua umanità è sempre presente: lui indubbiamente è più bravo, perché è tutti noi indistintamente, i suoi personaggi, il suo mito, come per tutti i grandi, non sono morti con lui. Ed ora, buona visione! Scusate se non si può essere più eloquenti dei suoi film!

Sylvain Chomet nel 2010 realizzò un suo importante film basato su una sceneggiatura inedita scritta nel 1956 dal mimo, attore e regista francese Jacques Tati. La figura del protagonista riprende in disegni animati le sembianze di Tati, che aveva scritto quel soggetto nel 1956 per farne un film da interpretare insieme alla figlia.

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IL RITORNO DI JACQUES TATI – prima parte

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DAL FILM “I MISTERI DEL GIARDINO DI COMPTON HOUSE” (1982) DI Peter Greenaway (richiamo colto per i più curiosi che ne verificheranno il motivo per cui qui vengono inseriti)

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La cinematografia francese nel corso della sua storia non ha annoverato in realtà molti nomi nel genere del “comico”; ma quando li ha avuti questi sono riusciti, con la loro maestria e la loro fama, a varcare i confini sulle terre e sugli oceani: basterebbe accennare a Max Linder, Louis De Funès, Fernandel per dare notizie per l’appunto dei più famosi. Si sarebbe tentati di andare “controcorrente”, considerando invece Jacques Tati un semplice realista, avendo verificato che le azioni dei suoi film sono sempre ispirate tutte alla vita quotidiana, alla normalità più assoluta; si sarebbe tentati anche di non ammetterlo fra i “grandi” perché la sua produzione è molto ridotta rispetto a quella dei suoi compagni; si sarebbe tentati di catalogarlo più come “mimo” o “attore di cabaret” che come “comico cinematografico”. Ma tutte queste tentazioni vanno ovviamente accantonate di fronte alle immagini filmiche, così come è accaduto quest’anno (ndr 1983) in una scuola di Empoli, con gli allievi attenti a seguire i numerosi “gag” del nostro “eroe di tutti i giorni”. La proiezione di “Mon oncle” oltre a divertire con grande razionalità, ha fatto scattare in alcuni allievi – la maggior parte in verità – il desiderio di conoscere qualcosa di più su Jacques Tati.
Sulla storia di Jacques Tati (questo cognome – con l’accento alla francese – ha aiutato indubbiamente alla sua divulgazione più ampia l’arte di Jacques Tatischeff) ci conforta poco la bibliografia ancora abbastanza scarna, ma alcuni particolari, alcune scelte, un certo tipo di impostazione anche tecnica del fare teatro e del fare cinema ce li possono svelare le sue argomentazioni e proprio la sua storia biografica.
Jacque tati nasce a Pecq, nei dintorni di Saint-Germain en Laye (e cioè alla periferia ovest di Parigi) il 9 ottobre del 1907. La sua famiglia era formata dal padre, russo di origine, figlio dell’ambasciatore dello zar e dalla madre francese, figlia di un corniciaio amico di Van Gogh. Dal nonno paterno gli deriveranno una certa tristezza e quei movimenti scarni ed essenziali, il suo sguardo spesso glaciale da Pierrot lunare con cui si presenta davanti al pubblico; quei suoi tratti aristocratici non gli impediranno tuttavia di “rifare” al cinema, in particolare, ed in teatro modi ed abitudini tipici del popolo e della media borghesia.
Suo padre, scegliendo anche lui –come il suocero – il mestiere di corniciaio (con lui lavorerà spesso anche il giovane Jacques), finì con il favorire non poco le future scelte tecniche del grande Tati. L’ “inquadratura” rievoca per l’appunto la “cornice” (la parola inglese “frame” significa alternativamente “fotogramma” o “cornice” ed in francese “cadre” è “quadro” e “cadrage” è “inquadratura”). Leggete ciò che egli dice quanto al suo modo particolare di fare cinema: “Bisogna che siano i miei attori a muoversi, e non la mia macchina da presa a spostarsi…Ho cercato di dare, mediante la fissità del quadro, un’impressione di rilievo…”. Egli scopre che il primo cinema di ognuno di noi è quello fantastico dello sguardo attonito che voglia penetrare al di là di una cornice – sia essa piena, sia essa vuota -, cioè quelle fantasticherie che si fanno davanti alla scena ritratta in un quadro o in una fotografia (e Jacques apprezzerà molto l’opera di Jean Renoir, figlio di Auguste, ed in particolare “Une partie de campagne” che più ampiamente si ispira all’opera pittorica del padre) o affacciandosi a qualsiasi finestra e guardando la vita scorrere, le azioni compiersi, immaginando i dialoghi, gli alterchi, le emozioni ed i sentimenti della gente, il loro rapporto con gli oggetti e con gli altri, tutte questioni essenziali che vengono riprese nel futuro impegno artistico di Tati.

Fine prima parte – continua…

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PRIMO CIAK – quarta ed ultima parte

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PRIMO CIAK – quarta ed ultima parte

E non c’erano molte risorse da utilizzare.
Filippo Citarella si pose a completa disposizione. Prestò alcuni mobili alla troupe e se stesso per uno straordinario “cameo” davvero impagabile. Le scarse risorse implicavano peraltro che Andrea e i ragazzi trasportassero i mobili piuttosto pesanti ed ingombranti con mezzi di fortuna e poi li sollevassero a mano attraverso ingressi e scale anguste senza rovinarli e senza fare danni, ma il risultato finale ha dell’incredibile, soprattutto quando all’interno di una strettissima casa-torre alcuni di questi oggetti contribuiscono alla creazione di un’atmosfera surreale di un pessimismo mortale incombente che riporta alla mente alcuni versi da “Spleen” di Baudelaire.

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l’horizon embrassant tout le cercle
II nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l’Espérance, comme une chauve-souris,
S’en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D’une vaste prison imite les barreaux,
Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrement.
— Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,
Vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

….Dopo il “primo ciak” i ragazzi si adattarono al comportamento imposto dalle circostanze e costituirono un gruppo nel quale ciascuno aveva un ruolo, una funzione da svolgere.
Nella villa Rucellai, concessa totalmente dalla famiglia Piqué, Andrea un ricevimento nel corso del quale si evidenzia la personalità decadente del protagonista. Gli ambienti austeri aiutano non poco a stabilire questo rapporto con la particolare sensibilità del personaggio, che tende a sfuggire i luoghi frequentati dai suoi coetanei ed a vivere esistenze parallele fuori dal suo tempo. Anche i tramonti occasionali ripresi con l’accompagnamento di panorami tardo-romantici col sottofondo di “Hyperborea” dei Tangerine Dream tendono ad accrescere il senso di precarietà nell’eternità della vita che venendo da un misterioso affascinante passato si proietta verso un futuro di interrogativi e di incertezze.

Andrea non è diventato un grande regista ma ha continuato ad impegnarsi nella gestione dei gruppi.

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MORIRE PER LE IDEE – vita letteraria di Pier Paolo Pasolini di Roberto Carnero – un percorso multimediale tra le pagine e le parole di Pier Paolo Pasolini – mercoledì 18 maggio ore 21.00 Circolo “Matteotti” via Verdi 30 PRATO

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MORIRE PER LE IDEE – vita letteraria di Pier Paolo Pasolini

MERCOLEDI’ 18 MAGGIO ORE 21.00 Circolo “Matteotti” via Verdi 30 PRATO

Un approccio didattico multimediale all’opera di Pier Paolo Pasolini

Incontro con Roberto CARNERO

curato da Giuseppe Maddaluno con il contributo di Altroteatro – Circolo letterario Pier Paolo Pasolini – Edoardo e Matilde Michelozzi

Vorrei non fuorviarvi con questa mia sorta di affermazione – quella che farò – anticipatrice e di per sè apparentemente risolutrice: il libro che andiamo a presentare all’interno di questo contenitore multimediale è di una straordinaria inconsueta “semplicità”, di una linearità che rende piana e comprensibile la vicenda “pasoliniana”, anche se la stessa vita del “poeta” (e con questa “accezione” ne sintetizzo la fondamentale caratteristica, aggiungendo che anche Dante nella sua complessa multiforme poetica viene indicato come “il Sommo” – Poeta per l’appunto) e, quindi, la stessa vita di Pasolini ha nella sua complessità il segno distintivo della semplicità negli approcci tematici, semplicità che facilita – allo stesso modo che il libro di Roberto Carnero – la comprensione per il lettore sia esso d’accordo o in disaccordo con quanto espresso. Tale semplicità è collegata ad una inesauribile capacità di sintesi che va immediatamente a segno anche quando ci si trovi a contatto con una visione lucidamente apocalittica – ed a volte disperata – della società italiana nel passaggio cruciale dal Fascismo all’epoca del boom economico.
Ecco forse spiegato l’assunto di partenza.
Ma non sarebbe possibile raggiungere tale risultato senza la sensibilità e la preparazione professionale di colui che ne è autore, capace di avvicinare noi e soprattutto i “giovani” cui il libro è diretto in modo specifico all’universalità pasoliniana. Non sempre gli uomini di cultura, gli intellettuali lo sono, ma forse l’attributo di intellettuale “tout court” a Roberto sta troppo stretto e quell’abito non gli calza, soprattutto quando pensiamo a quali debbano essere le qualità per esserlo che non corrispondono a quelle di coloro che purtroppo credono di poterlo (o doverlo per influenza divina) essere. La gran massa di costoro li identificherei in “venditori di fumo contornato da parole o semplicemente “parolai”. E ne è purtroppo pieno il mondo.
Ho avuto modo di esprimere già a Roberto in una forma pur necessariamente vaga e sintetica come dalla lettura di queste pagine (circa 200) emerga la “passione” che lo sostiene, rivelandogli come, pur conoscendo io la produzione pasoliniana, egli sia riuscito a far riemergere in me ancora una volta il desiderio di andarne a rileggere alcune parti; ed ho sperato fortemente, essendo forse stato e sperando – di poterlo ancora essere, un educatore, che ciò capiti anche ai giovani ed agli altri che avranno questo libro tra le mani e vorranno proseguire ad inoltrarsi poi nei sentieri della poetica pasoliniana.

Lettura da “Scritti corsari”
“lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”
“Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io, purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano (la banalità del loro linguaggio lo dimostra), ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo.”

Quando parlo di “semplicità” e in questo caso di “semplicità riflessa” mi vengono in mente decine di esempi da cui traspare un altro elemento caratteristico e distintivo, l’umiltà che PASOLINI ricavò in modo antropologicamente diretto (sentendosene pienamente “parte”) dalla CULTURA del popolo, dal popolo stesso, quel sottoproletariato rurale prima ed urbano o suburbano poi con il quale egli si confrontò vivendone in modo intenso le vicende storiche e sociali del suo tempo (quelle agrarie dei contadini del Friuli nel tempo del cosiddetto “Lodo De Gasperi” e quelle suburbane nell’emarginazione dei ghetti a ridosso della Capitale.
Pasolini praticò a distanze variabili questa “umanità” e la descrisse nei suoi romanzi, la fece vivere mostrandocela in diretta nei suoi film, ne approfondì i contesti in decine di riflessioni, sia in versi che in prosa.

Nel saggio di Carnero – e qui inevitabilmente sintetizzo al massimo – i temi dell’incessante ricerca antropologica culturale, della mutazione genetica e del genocidio, dello scontro feroce con la borghesia chiusa e retriva si respirano in ogni pagina attraverso un costante ricorso ai testi.

“Povero come un gatto del Colosseo” Le ceneri Gramsci – Il pianto della scavatrice
II
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città

e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno

era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte

ammucchiate sul tavolo, tra le strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte….

Passavano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva

frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.

E, ritornando ai temi dello scontro con la borghesia , egli non poteva non scontrarsi con coloro che disprezzava e dai quali era continuamente attaccato…
(come è evidenziato nell’intervista che il giornalista tenta di fare ad Orson Welles ne “La ricotta” o in tante altre pagine)

Il libro ha una struttura solo in parte “cronologica” e si occupa nelle ultime pagine – come si evince dal titolo – di ricostruire le fasi finali della tragica morte del Poeta, andando poi a toccare anche vicende più recenti che hanno in pratica riaperto il caso, connotandolo di ulteriori misteri. Uno spazio ampio viene dato – e questo è molto utile didatticamente – ai due “romanzi romani”, caratterizzati entrambi dalla parola “vita”, ed alla produzione “polemista” e “cinematografica”.
Ecco, se pensiamo che ci troviamo di fronte ad un libro formato “tascabile” di poco più di 200 pagine, non possiamo che gridare al “miracolo”!

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Se permettete… continuando a parlare di donne – e parlo di Brigidina Gentile

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Se permettete… continuando a parlare di donne – e parlo di Brigidina Gentile, dolce per il nome, “GENTILE” per il suo cognome…la sua dolcezza è elemento naturale connaturato in antitesi con la sua omonima della celebre canzone “’A tazza ‘e cafè” dove Brigida si presenta con i suoi modi “sprucidi”.

All’interno di “Per donna sola” uno spazio era dedicato alla nostra amica poeta e scrittrice dai modi delicati. La bravissima Francesca Vannucci ha letto con grande passione e partecipazione emotiva uno dei monologhi che Brigidina ha dedicato, mescolando l’originalità con la traduzione, alla figura archetipica di Penelope, declinandola in modo contemporaneo. La tradizione ce la impone come fedele ancella e custode della sua “appartenenza” aristocratica alla figura del suo più celebre compagno, Ulisse, anche se è donna capace di reggere un “regno” e mantenersi a dovuta distanza dalle figure – esse sì “arrogantemente maschiliste” dei Proci. Ma, chissà, ce lo suggerisce l’approfondimento in oggetto, chissà se già a quel tempo (ed Aristofane con acuta precursione del contemporaneo alcuni secoli dopo, nel 411, con “Lisistrata” traccerà un ritratto di “femministe “ante litteram) non vi fosse questo tipo di sensibilità. Tutto sommato la narrazione veniva condotta da “maschi” che preferivano evidentemente una donna docile, umile e sottomessa, pur se – nel caso di Penelope – a difesa dell’integrità del “potere” maschile. Il monologo presentato nella messa in scena di Altroteatro ci presenta una Penelope che avendo atteso per venti anni il ritorno del suo Ulisse non lo accoglie con la “classica” sottomissione (in realtà l’agnizione di Ulisse da parte di Penelope è nell’”Odissea” connotata da un apparato rituale ed avviene con molta cautela):

Non irarti,Ulisse,con me,tu che il più saggio
degli uomini sei in ogni cosa:gli dei
affanni ci diedero solo:non vollero
che noi giovinezza godessimo insieme
nè che insieme la soglia toccassimo
della vecchiaia.Non volerti crucciare con me
se al primo vederti l’amore ho taciuto.
Sempre temeva nel petto il mio cuore
che un mortale qualunque venisse a ingannarmi
con fole:tramano molti astuti vantaggi.

Voglio peraltro segnalare una delle liriche inserite in “Penelope Misunderstandings” (bellissimo ed elegantissimo il libro edito da “Libellula” che contiene anche il gustosissimo “Notturni à la carte – Parole da mangiare”):
La tela
porto con me
tutte le donne che sono stata
la violenza dell’indifferenza
le parole di cui non posso
fare senza
le carezza che non ti ho dato
l’amore che non hai voluto
l’attesa paziente della vita
che non ho mai tessuto

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C’è poi un’opera tradotta di Brigidina Gentile, quella da cui è tratto il monologo rappresentato a Prato: si tratta de “La otra Penélope”; e poi c’è “Voces desde el telar y un perchero” monologhi per sola attrice di Elisa Constanza Zamora Perez, professoressa di Lingua e Letteratura spagnola a Jerez de la Frontera nella provincia di Cadice in Spagna, tradotto dalla Gentile (“Voci dal telaio e un attaccapanni”), che riporta interpretandolo in chiave contemporanea – con beneficio d’inventario – il pensiero di Penelope, Ipazia, la Giullaressa, una suora Juana Inés de la Cruz, una rivoluzionaria cubana), che a mio parere andrebbe proposto qui a Prato.

Elisa Costanza

Dopo l’ 8 marzo – se permettete – parlando ancora di donne

Dopo l’ 8 marzo – se permettete – parlando ancora di donne

“Repetita iuvant” Ieri, ma anche l’altro ieri e in gran parte dei miei post ho parlato di Cultura, di Poesia e di Letteratura valorizzando soprattutto (quasi esclusivamente) il genere femminile. D’altronde, anche la mia invenzione tipografica-editoriale riportava questa peculiarità: “POESIA SOSTANTIVO FEMMINILE”! per 12 anni ho costruito e pubblicato questa silloge.
Ma in riferimento a quel che scrivevo ieri per quel che riguarda la performance di ALTROTEATRO – “Per donna sola” – aggiungerò qualche dettaglio.

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Come vi dicevo, uno dei brani dedicati alle figure femminili nel corso di “”Per donna sola” di Altroteatro era sotto forma di “musica e canto” per l’interpretazione di Benedetta Tosi ed il contributo musicale di Vincenzo Santaniello – Antonio Lombardi e Giancarlo Rossi. Si tratta di una rielaborazione dal testo che qui sotto riporto in originale (Coral Bracho) e nella sua traduzione (Chiara De Luca). Di quest’ultima abbiamo già parlato; di Coral Bracho trattiamo oggi. Si tratta di una delle più importanti poete del panorama mondiale. Nata a Città del Messico si distingue per la sua profonda ed acuta sensibilità artistica. Fa parte del Sistema Nacional de Creadores de Arte ed ha ricevuto una borsa di studio della Fondazione Guggenheim

Il brano è inserito in una raccolta “Quello spazio, quel giardino” (Ese espacio, ese jardin”, 2003) tradotto da Chiara De Luca e pubblicato dalla casa editrice Kolìbris). Di seguito, prima dei testi, il commento riportato nel risvolto di copertina scritto senz’altro da Chiara De Luca.

Quello spazio, quel giardino, annuncia il titolo della raccolta poetica della messicana Coral Bracho, recentemente pubblicata in Italia (Kolibris, 2014) e in Messico nel 2006. Libro che per la sua compattezza si configura piuttosto come una sola poesia di ampio respiro e ci chiediamo dove voglia portarci la poetessa messicana, dove si trovino esattamente quello spazio, quel giardino. Ben presto ci rendiamo conto che l’autrice intende condurci nel mondo della sua infanzia, aprircene le porte segrete, invitandoci a entrare, a osservare ogni cosa; ci chiama a visitare l’eterno giardino dell’innocenza, situato fuori dal tempo e dallo spazio, eppure sempre presente, fisicamente presente. Così come sono fisicamente presenti i ricordi, i volti che sembrano materializzarsi da vecchie foto per poi tornare a sorridere, i bambini che ci sembra di sentir gridare e di veder correre a perdifiato nel giardino, il padre perduto, il padre guida muta, assenza onnipresente.
Tutto nella poesia di Coral Bracho è pervaso da una inesausta vitalità, anche la morte vi si personifica, e prende il suo legittimo posto tra le cose. Con questo suo canto sospeso, misterioso e spesso oscuro, la poetessa sembra voler entrare in contatto con l’anima degli oggetti, che tutto hanno visto e preservato, per guardare attraverso gli occhi delle finestre, schiudersi come le porte della casa, lasciando entrare le ombre, mai esorcizzate, bensì evocate.
Nella solitudine accogliente della notte i fantasmi non fanno più paura e i ricordi, in punta di piedi, vengono a trovarci e si fanno più vivi, più nitidi, come lo sono le storie dei bambini, in cui angeli e mostri convivono. Così come nella memoria convivono il dolore dell’assenza e la gioia della presenza che la perdita non ha potuto estinguere. E la realtà si trasfigura come neve che si scioglie.

–En la mirada que entrecruzan los niños,
en su fulgor,
frente al estanque iluminado.
Es la frescura de sus voces recorriendo el espacio, vertiendo
entre hondonadas de luz,
su azar de viento y de extensiones. Es la tersura
de sus voces ardiendo en desbandadas de gozo,
de brillo intacto, de plenitud.

Nada

toca,
entre las carnes de la vida, su centro,
nada lo alcanza y lo despeja,
como esas risas,
esas carreras embriagadas y eternas
que van urdiendo los jardines, los bosques,
las planicies que cimbran y atraviesan el tiempo.

Nada lo ciñe y lo ahonda como esos ecos. Ojos niños que irradian
infinitud.

Nada encarna en la vida
y la estremece; nada afirma su cuerpo y su sed, su voz,
como esa cifra de lo eterno en su centro:
un gesto puro
y claro.
Una mirada diáfana. Un arranque gozoso: Una gota,
un arroyo,
una corriente: Es el mar reverberando sus formas,
irguiendo en espesores de fuego sus masas,
su orbe
encabritado y frondoso; montañas de agua, de sol

*

– Nello sguardo che si scambiano i bambini,
nel suo fulgore,
di fronte allo stagno illuminato.
Nella freschezza delle loro voci che percorrono lo spazio, sfociando
in avvallamenti di luce,
è la loro unione di vento e d’estensioni. È lo splendore
delle loro voci che ardono in sbandamenti di gioia,
di lucentezza intatta, di pienezza.

Nulla

tocca,
nelle carni della vita il centro,
nulla lo raggiunge e rischiara,
come quelle risa,
quelle corse ebbre ed eterne
che vanno ordendo boschi, giardini
le pianure che fluttuano e attraversano il tempo.

Nulla lo cinge e scava come quegli echi. Occhi bambini che irradiano
infinità.

Nulla s’incarna in vita
e la scuote; nulla ne afferma il corpo e la sete, la voce,
quanto quella cifra dell’eterno nel suo centro:
un gesto puro
e chiaro.
Uno sguardo diafano. Un impulso gioioso: Una goccia,
un ruscello,
una corrente: È il mare che riverbera le sue forme,
ergendo in spessori di fuoco le sue masse,
il suo orbe
impennato e frondoso; montagne d’acqua, di sole

Anche da questi esempi si può comprendere come il lavoro dei Altroteatro e dei suoi interpreti sia straordinario e prezioso.

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DOPO l’ 8 marzo – viva le donne!

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Ieri, ma anche l’altro ieri e in gran parte dei miei post ho parlato di Cultura, di Poesia e di Letteratura valorizzando soprattutto (quasi esclusivamente) il genere femminile. D’altronde, anche la mia invenzione tipografica-editoriale riportava questa peculiarità: “POESIA SOSTANTIVO FEMMINILE”! per 12 anni ho costruito e pubblicato questa silloge.
Ma in riferimento a quel che scrivevo ieri per quel che riguarda la performance di ALTROTEATRO – “Per donna sola” – aggiungerò qualche dettaglio.

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Parlavo di Chiara De Luca e di “Nonna Irma”, una delle liriche presenti nel suo “Alfabeto dell’invisibile” che ho avuto personalmente modo di presentare a Ferrara. Eccone il testo:

Irma era la terza nonna honoris causa
nessuno lo sapeva ma lei era regina
della strada che abitavo da bambina;

con la vita fina e i fianchi danzanti
le gambe di giunchi e i gigli dei denti
e camelie di capelli cotonati con cura
attorno al capo come una corona,

Irma non perdeva un solo colpo
a bordo dalla bianca Cinquecento
quando in tacchi alti e completo elegante
le unghie laccate e il parasole sgargiante
partiva dritta e fiera verso il mare;

Irma che fingeva d’infornare
la mitica ciambella “superiore”
che dal pasticcere in segreto comprava
per noi bambini nel fine settimana;

Irma che diceva di parlare con i fiori
di non lasciarli mai nel silenzio da soli,
lei che riesumava ciclamini e spuntava
nel centro sorridente al davanzale
sporgendosi per invitarci a salire;

Irma che senza una ragione
un giorno mi ha donato il sole
giallo del mio piccolo tenore

Cippi il canarino che sapeva

scrosciare con la voce come un fiume
perdersi in onde e vortici nel mare
del suo lungo assolo che sembrava risalire
all’infinito per sfumare solo quando il sole
esausto tramontava con il capo sotto l’ala;

Irma che mi ha lasciata sola
quando ero già così lontana
da questa nostra città tanto sorda o burlona.

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E sempre ieri menzionavo un’altra figura eccellente della poesia e della canzone colta italiana – Claudia Fofi che “è umbra, di Gubbio. Scrive poesie da sempre, da quando giovane e ribelle voleva “trovare nuovi modi di scrivere nell’aria”. Studia pianoforte da bambina. Si laurea in lingue. Una notte prende un microfono in un pub…inizia a cantare. Le poesie diventano canzoni, le lezioni prese da bambina si rivelano utili alle composizioni originali.
Diventa cantautrice e vince concorsi importanti: Premio Ciampi, Grinzane Cavour è finalista al Premio Musicultura.
Franco Arminio l’ha definita “Ostetrica della Voce” per la sua capacità di far cantare chiunque.

Voglio qui accennare al suo libro d’esordio, “ODIO LE RAGIONIERE”, che di certo presenteremo qui a Prato. Riporto quel che è trascritto sulla “brochure” che mi ha inviato:
“Odio le ragioniere. Forse, ma non sono sicura. Odio è una parola grossa. Di sicuro odio le ragioniere che mi rubano il marito. Non tutte quindi, solo alcune. Amzi, solo una. La Ragioniera.”

Ma, se consultate il sito che qui sotto vi riporto vi troverete altre motivazioni in altre liriche altrettanto gustose, ironiche, icastiche e pungenti….

https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/02/20/silloge-dellabbandono-di-claudia-fofi/

Cosa sia la performance che accompagna la presentazione del libro ce lo dice il testo qui sotto riportato:

ODIO LE RAGIONIERE
Concerto poetico per voce, pianoforte e loop machine.
di e con Claudia Fofi
Regia di Riccardo Tordoni

Un’azione poetica e di improvvisazione vocale dove tutto può succedere.
Piangere, ridere, far di conto, tirare le somme sulla propria vita e sui propri amori naufraghi.
Questa performance può servire a curare, a passare un balsamo sulle proprie ferite, a riderci sopra, a scoprire di non essere soli.
Alla fine si può decidere di acquistare il libro. Rileggerlo a casa. Ed usare la propria. Di voce.

E, dunque, buon dopo 8 marzo a tutte le donne ed agli uomini che le amano e che da queste sono amati!!!

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ALTROTEATRO presenta “PER DONNA SOLA” – parole e musiche per la Giornata della donna

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ALTROTEATRO presenta “PER DONNA SOLA” – parole e musiche per la Giornata della donna

8 marzo 2016 – tradizionalmente dedicata alle donne la giornata dell’8 marzo pullula di iniziative. ALTROTEATRO non si sottrae alla partecipazione anche perché ha sempre avuto un’attenzione particolare alle tematiche civili ed ha fortemente sottolineato con la sua attività la parità di genere. Dell’Associazione fanno parte soprattutto donne in ruoli di primissimo piano. E quest’anno non ha mancato l’appuntamento, riproponendo ed aggiornando “PER DONNA SOLA – parole e musiche”. Si tratta di un collage di brani di alcune protagoniste della poesia e della letteratura moderna e contemporanea, con qualche eccezione di genere maschile. Benedetta Tosi, Francesca Vannucci, Antonio Lombardi e Giancarlo Rossi, guidati da Antonello Nave e Carlo Bellitti hanno presentato domenica 6 marzo questi brani recitati, musicati e cantati nella cornice sontuosa oltre che austera del Teatro “Cicognini”.

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Dal palco Benedetta Tosi ha presentato poesie di Saffo, la tormentata poeta greca che riflette sulla gelosia; un brano di Anne Sexton, una delle più grandi poete “naturali” della letteratura mondiale degli anni Cinquanta, attiva a Boston insieme a Sylvia Plath ed altri rappresentanti della poesia-confessionale ispirata al vissuto personale, come centro principale di esplorazione; un brano di Claudia Fofi, una delle voci più attente alle tematiche sociali del panorama contemporaneo italiano, “La mia coinquilina cinese”, acuta ed ironica-amara riflessione sulle vicende intime e personali di una donna tradita; un monologo di Arnold Wesker, prolifico drammaturgo inglese, che in “Divina Monella” riflette sulle dinamiche quotidiane relative ai rapporti madre-figlia; in conclusione Benedetta ha cantato una delle poesie più belle di Coral Bracho, poeta messicana contemporanea, nella traduzione di Chiara De Luca (la poesia è stata musicata da Vincenzo Santaniello ed è stata inserita nello spettacolo “Fulmini rondini e colibrì” della compagnia ALTROTEATRO andato in scena la scorsa estate).

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Francesca Vannucci ha cantato, accompagnata da Giancarlo Rossi (percussioni e basso) e Antonio Lombardi (chitarra), canzoni da Giorgio Gaber (“Chiedo scusa se parlo di Maria”, che riflette sulla contemporanea esigenza umana di parlare di questioni civili e problematiche sentimentali: è uno dei brani meno conosciuti del cantautore milanese inserito nell’album del 1973 “Far finta di essere sani”); da Enrico Ruggeri e Fiorella Mannoia, “I dubbi dell’amore” straordinario esempio di lirica poetica musicata ed interpretata in modo sublime; e poi Francesca Vannucci ha dato voce ad un brano tratto da “L’altra Penelope” della splendida scrittrice Brigidina Gentile nel quale il personaggio femminile riflette con orgoglio sulla condizione tradizionalmente ancellare della donna nella tradizione classica.
Lo spettacolo è stato seguito da un pubblico scelto ed attento che ha espresso il suo apprezzamento con applausi a scena aperta. Si replica sdoppiandosi in un DOPPIO IMPEGNO questo sabato 12 marzo sia nel salone consiliare del Comune di Prato sia a Polesella in Provincia di Rovigo.

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