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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – ottava parte – la testimonianza di un grande protagonista delle lotte operaie nel “pratese”: PIETRINO VANNUCCI

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – ottava parte – la testimonianza di un grande protagonista delle lotte operaie nel “pratese”: PIETRINO VANNUCCI

Pietrino Vannucci è stato dirigente sindacale, segretario degli edili, negli anni ’50, poi membro della segreteria CGIL, segretario dei tessili dal 1963 e negli anni ’70 segretario della Camera del Lavoro.

‘Giovanna’ e le lotte operaie a Prato negli anni ‘50. Testimonianza di Pietrino Vannucci

La realizzazione di Giovanna avviene in un momento molto difficile per il movimento sindacale e democratico. Con la cacciata delle sinistre dal governo nazionale finisce quella esaltante stagione della unità nazionale che tanti frutti politici aveva dato al nostro paese per il suo risorgere e che tanta speranza aveva riposto nell’animo dei lavoratori e delle masse popolari. La cacciata del fascismo, la nascita della Repubblica, la Costituzione erano marcati da questa partecipazione, e la stessa ricostruzione morale, civile e democratica del nostro paese era avvenuta attraverso le lotte popolari e l’unità nazionale.

A Prato i lavoratori e il movimento partigiano riuscirono da soli a salvare dalla distruzione buona parte delle attrezzature industriali tessili. Il sacrificio dei fratelli Buricchi e di altri partigiani è un esempio del prezzo pagato per questa dura lotta, per la quale, oltre ai fratelli Buricchi, perirono molti lavoratori e partigiani. Immediatamente dopo la liberazione fu così possibile riprendere l’attività produttiva. Le macchine che erano state smontate dai lavoratori e portate in vari luoghi furono rimontate, ed iniziò prima del previsto la ripresa produttiva, che avveniva sotto l’egida dei comitati di gestione, dei consigli operai, secondo una volontà ed una decisione espressa dai comitati di liberazione nazionale. Il potere dei lavoratori si era potuto così positivamente affermare, sia nelle fabbriche che nel paese.

I capitalisti italiani ed anche gli industriali pratesi, che erano stati emarginati da questi processi politici liberatori, anche perché molti di questi erano compromessi col fascismo, approfittarono della nuova situazione politica per tentare la restaurazione alla vecchia maniera. L’attacco ai lavoratori ed ai diritti sindacali e democratici si giustificava e avveniva in nome dell’anticomunismo e poco importava se il Partito Comunista e il Partito Socialista erano dalla parte dei lavoratori e in difesa della democrazia. Lo scopo era di giungere ad una piena restaurazione capitalistica e quindi alla eliminazione del potere contrattuale dei lavoratori nelle fabbriche e nel paese.

Nel pratese l’attacco fu duro e veemente. Gli industriali, invece di affrontare il rinnovo del macchinario e lo sviluppo produttivo dell’industria tessile, scelsero la via dell’attacco alle libertà dei lavoratori, la via dei licenziamenti e della smobilitazione. Sono questi anni terribili e di grandi sofferenze per il movimento sindacale pratese, per i lavoratori. e le loro famiglie, in particolare per coloro che perdevano il lavoro. Sono gli anni della nuova resistenza, caratterizzata da memorabili lotte, da un grande impegno in difesa del posto di lavoro contro il ricatto della fame, per lo sviluppo economico, democratico e sociale del paese. Il 1953 e tutti gli anni ’50 sono caratterizzati in tutta Italia dalla lotta per il lavoro, con l’occupazione delle terre incolte o mal coltivate, con gli scioperi a rovescio nel quadro del piano di lavoro promosso dalla CGIL. Sono anche anni segnati dal sangue operaio e contadino, con gli eccidi di Avola, Montescaglioso, Modena, Reggio Emilia, dove operai e contadini vengono uccisi solo perché partecipavano alla difesa del posto di lavoro, chiedendo di poter vivere assieme alle loro famiglie in libertà e in democrazia. Il 1953 è anche l’anno in cui la sinistra e il movimento sindacale ottengono un primo grande successo con l’affossamento della ‘legge truffa’, che doveva rafforzare e far avanzare la tentazione autoritaria nel paese. I lavoratori e le masse popolari bocciano, con le elezioni, questo disegno ed è per tutto il movimento una boccata d’ossigeno. Riprendono le lotte con più vigore e più fiducia, e continuano per tutti gli anni ’50, culminando nel ‘60 nei grandi movimenti popolari dove i primi giovani con le maglie a strisce sconfiggono la prepotenza del governo Tambroni.

…fine ottava parte… prosegue testimonianza di Pietrino Vannucci

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TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – un nuovo esempio

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venerdì 27 febbraio ore 17.30 – Circolo ARCI San Paolo di via Cilea – presentazione progetto TRAMEDIQUARTIERE

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – un nuovo esempio

“Sì, in quella foto che ti ho mostrato ieri ero proprio in questo giardino! Ma, e tu lo hai visto, non c’era ancora. C’era un cantiere e, senza il nostro impegno, in questo posto ci sarebbe stato un altro palazzo….Erano altri tempi, ero giovane, lo hai visto no? Avevo ancora tanti capelli! Incazzato sì! Forse più di ora, anche se oggi non ho più la “speranza”.”

Chissà perché ma pochi giorni prima mi ero arrampicato sull’alto della libreria “Antica Venezia” con una scala, uno “scaleo” di legno, molto incerta e traballante e ne avevo estratto una vecchia cartella arabescata ricolma di vecchie fotografie. Qualche giorno prima avevo partecipato ad un work shop con Enrico Bianda e ne avevo tratto lo stimolo per fotografare il territorio ma anche per recuperare quel che avevo nei cassetti o nelle parti alte dei mobili antichi. Chissà perché i nostri ricordi li collochiamo così fuori dalla nostra portata; non ho soffitte in casa: da quaranta anni vivo in un condominio di sei piani ma abitiamo solo al quinto. Forse sarà una forma di difesa o la volontà di allontanare da noi il passare del tempo, la volontà di contrastare in modo infantile i segni che il tempo ci infligge.
Ho provato poi a metterle in ordine… le avevo lasciate lì da un po’ di anni in maniera confusa… ma sentivo da tempo una formidabile esigenza di riordinarle ed il lavoro comune al Circolo l’aveva moltiplicata… foto senza date, di difficile collocazione all’interno di un diagramma cronologico… E così, mentre ero sul tavolone nella stanza luminosa della mia casa abbastanza alta sui tetti di San Paolo con centinaia di fotografie buttate a casaccio in ogni suo angolo è venuta a trovarmi come fa ogni fine settimana mia figlia Arianna con il mio nipotino Andrea che ha cinque anni ma è un ragazzino in gamba che dimostra di essere ben più maturo di quelli della sua età, un ometto, un uomo in miniatura con un’esuberante curiosità. Ed è così che tutta quella roba, forse anche lo stesso disordine lo ha attratto immediatamente.
Avevo poco più della sua età quando sono arrivato in questa periferia di Prato; con la mia famiglia abitavamo nelle “baiadere” in una zona di confine oltre la quale ampi erano gli spazi verdi quasi tutti coltivati. Venivamo da un’altra periferia, quella non troppo lontana di Firenze e trovai qualche difficoltà ad inserirmi fra i miei coetanei a scuola perché, a volte può apparire ben strano, non parlavamo proprio la stessa lingua.
Tardai anche per questo ad inserirmi in uno dei gruppi di ragazzi che in San Paolo erano nati, tranne che con Ginotto, la cui famiglia era venuta già da qualche anno prima della mia giù dal Mugello: il padre lavorava come stalliere in una importante Fattoria ai piedi del Monteferrato e la madre andava a servizio in una casa signorile appena fuori delle Mura di Prato.
Di quegli anni e di quelle avventure non ho foto; non le facevamo mai e quelle che ho conservato riguardano solo la mia famiglia. Non so cosa sia stato di Ginotto… e non ho nemmeno una sua foto.

“Vedi, Andrea, il più della volte i territori sono il risultato della volontà delle comunità che le abitano. E questo accade anche quando la volontà è debole e vi prevalgono interessi di pochi. Questo giardino non ci sarebbe stato senza l’impegno di alcuni di noi”.

…fine prima parte….

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – (ri)mettiamoci alla prova – terza parte e conclusione

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – (ri)mettiamoci alla prova – terza parte e conclusione di Giuseppe Maddaluno

Lungo il tratto – via Puccini via Respighi via Rota, tutti grandi musicisti – che porta verso via Pistoiese, si incrociano etnie orientali islamiche, donne velate e bardate da drappeggi variopinti di gran buongusto. Anche io fotografo qualche scorcio e privilegio la figura umana e la documentazione del lavoro dei nostri giovani. Inquadro infatti la realtà in movimento e per questo temo sempre che vi sia qualcuno che possa non gradire queste mie intromissioni. Ecco infatti che da un auto ferma c’è qualcuno dall’interno, che a me sembra proprio un cinese, che mi apostrofa – lo vedo agitare la mano – e suona per tre volte anche se non in modo imperativo il clacson: faccio finta di nulla, potrei non essere io il destinatario, anche se sembra proprio il contrario, di tale protesta; ma il tizio insiste ed un signore dai tratti occidentali che gli è accanto all’esterno mi fa segno di avvicinarmi. Diamine, che vorrà da me, ora; e temo per la mia incolumità. Ma no! E’ un amico che ha voglia semplicemente di scherzare, dal momento che mi vede in mezzo a tanta bella giovane compagnia. Lo saluto con cordialità, rinfrancato. Una parte della bella compagnia se ne va verso la Stazione di Porta al Serraglio. Rimaniamo in cinque e ci inoltriamo nel cuore di quella che chiamano “Chinatown” un guazzabuglio di corpi e linguaggi in luoghi pittoreschi ma maleodoranti. Procediamo in questi ambienti e ne cogliamo alcuni aspetti conservandoli nei nostri “aggeggi” elettronici: ristoranti, pescherie, ortofrutta, supermercati caotici, sale giochi e per la strada avventori, passanti casuali, garzoni di bottega, signori ben vestiti con valigette e computer accesi ed operanti si mescolano in ambienti degradati. In una di queste strade, leggermente più riservata, accanto ad un’officina meccanica chiaramente italiana ( in questo settore i cinesi non si sono mai inseriti) c’è una chiesa cristiana rivolta ad ospitare parte della comunità cinese (è in un capannone industriale ) e di fronte ad essa si nota un asilo nido anche questo in tutta evidenza – oltre che per le insegne esterne bilinguistiche dalle decorazioni interne – al servizio delle famiglie cinesi, che attualmente sono le più prolifiche.
Si va facendo sera e così si ritorna verso il Circolo. Attraversiamo di nuovo via Pistoiese e per via Umberto Giordano (ritorniamo ai musicisti!) costeggiamo le mura ben mantenute della vecchia fabbrica Forti. Ne ammiriamo alcune parti soprattutto gli spazi antistanti via Colombo che ne evidenziano l’abbandono. La luce sta venendo meno ed è sempre più difficile fotografare; ci limitiamo a documentare ed infatti riprendo alcuni atti del gruppo residuo sulla “rotonda” di via Giordano/ via Colombo con la cornice bassa delle fabbriche abbandonate. E poi in un’istantanea Siria è con Valeria ed in fondo lungo la recinzione Gino leggermente voltato indietro verso un auto della Polizia Municipale “apparentemente” ferma allo Stop.
Diciamoci la verità: quell’auto si era messa in posa per essere fotografata! La foto “istantanea” casuale scattata senza una vera e propria volontà non avrebbe alcun significato. E non avrei potuto scattarne altre per documentare i fatti per non aggravare la situazione del “povero” Gino, malcapitato. L’auto era ferma, proprio, non apparentemente, ferma, ben piantata sullo Stop. Così come fermo era Gino, impietrito e stupito.
Cosa era accaduto? Fa parte della relativizzazione di cui accennavo soprattutto nell’avvio. Ciò che si vede può essere realtà ma anche impressione, suggestione. Questo lo sapevo, ma vaglielo a spiegare ai due solerti vigili urbani.
Lo dico sempre a mia moglie quando la sento imprecare contro quel tizio che ha parcheggiato malissimo ed ha occupato parte del posto nel quale lei dovrebbe parcheggiare. Ma cosa succede al ritorno? La macchina dell’autista che le ha maledetto è andata via ed ora è inevitabile che sia proprio la sua, quella di mia moglie, ad essere parcheggiata “da bestia”. Apparenza ma anche parte di realtà! Anche ai due vigili urbani era parso che il nostro Gino avesse divelto quel reticolato rugginoso ed incerto che si sbriciolava a pezzi solo a toccarlo: il nostro amico a tanti tipi può somigliare ma non di certo all’incredibile Hulk. Oppure sì? È forse un altro esempio di “relativizzazione” della realtà? Siamo di nuovo a chiederci se sia o meno “reale” quel che vediamo, quel che percepiamo? O soltanto ci illudiamo? Forse sì, la vita davvero è un sogno, bello a volte brutto in altre, ma pur sempre un sogno.

G.M.

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – settima parte

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – settima parte

prosegue e si conclude la testimonianza di Armida Gianassi la protagonista del film

“Poi abbiamo lasciato la campagna. Con tanto rimpianto. Per chi nasce in campagna è difficile vivere nella città. Firenze la conoscevo fin da bambina, perché mio padre qualche volta mi ci portava. Prato invece era una città anomala, si lavorava, si lavorava e basta. L’unico respiro era salire su un autobus e andare a Firenze, lì c’era un’altra atmosfera. Poi sono passati gli anni, mi sono abituata a Prato. Era la città che mi aveva accolto, che mi aveva dato da vivere, che mi aveva fatto crescere, in cui avevo mosso i primi passi nella vita, e sono sempre pieni di entusiasmo e di sogni. Quindi sono riconoscente a questa città, e qui sono ritornata a vivere dopo averla lasciata. Però è una città che mi ha fatto anche soffrire.
Io non ho vissuto l’esperienza della grande fabbrica. Quando mi proposero di fare Giovanna lavoravo alla ditta Suckert, in via S.Silvestro all’angolo di Piazza Mercatale. Ho lavorato lì perché conoscevo i proprietari, la famiglia Suckert. Li avevo conosciuti nel Mugello quando ancora stavo lassù. Era una piccola ditta che fabbricava corde per filature, con poche persone a lavorarci. In tutto, al completo, eravamo sette o otto. Era una ditta a dimensione familiare in cui si stava bene, se c’era qualche problema ci aiutavamo, se c’era qualche rivendicazione da fare al titolare parlavamo una per tutte e la cosa veniva definita.
Mi ricordo che quando ho avuto l’occasione di Giovanna non sapevo come fare, perché in ditta c’era molto lavoro. Chiesi il permesso al titolare, vennero sia Montaldo che Pontecorvo a chiedere se poteva concedermi i permessi per girare il film. Durante la lavorazione non ho mai smesso completamente di lavorare in fabbrica. C’erano giorni in cui dovevo essere tutto il giorno sul set, altri in cui ci stavo mezza giornata, e mezza giornata andavo a sbrigare il mio lavoro in fabbrica. I proprietari non mi crearono problemi, anzi furono quasi contenti di darmi i permessi.
Dopo il film Giovanna ho continuato a lavorare, ho fatto le stesse cose che facevo prima, anche se c’era qualcuno in più che mi salutava per strada o mi riconosceva. Poi mi hanno invitata a Roma, ho visto il film. Ho anche avuto qualche proposta, però l’ho rifiutata perché già a quel tempo avevo conosciuto mio marito, e quindi…. Insomma, avevo preso un’altra strada.
Ho continuato a lavorare nella stessa ditta, nell’attesa di farmi poi una famiglia. Poi mi sono sposata e ho lasciato Prato per andare a vivere a Firenze, e così ho fatto la vita di tante donne che si sposano, che lasciano la propria città, le amicizie, e ho ricominciato daccapo. Ho avuto i miei figli, la prima una bambina, e per guardare mia figlia ho rinunciato a lavorare. Così la mia vita è continuata come quella di tante e tante altre donne. Poi ho avuto un’altra figlia, ho cambiato ancora città, ho lasciato Firenze. Insomma un susseguirsi di cose, cose normali di una vita normale. Ho cercato di trasmettere alle mie figliole i sogni che io forse non avrei realizzato, ma il cammino continuava e sarebbe continuato con loro, e forse in parte i miei sogni gli avrei realizzato attraverso di loro. Ho sempre insegnato alle mie figlie che, pur essendo nate donne, non per questo non dovevano avere la loro vita. Dovevano cercare soprattutto di studiare. Io ho sempre avuto il pallino dello studio, forse perché, quando ero giovane, non ho potuto realizzare questo desiderio.
Confesso che soltanto quando vidi il film tutto montato ho capito l’importanza della cosa, più grande di quella che mi era sembrata durante la lavorazione; ho capito che valeva la pena averlo fatto, perché Giovanna rappresentava nel film il problema di tante donne, specialmente a Prato dove le fabbriche erano così tante: rappresentava la sofferenza della donna nella fabbrica, la fatica della donna che lavorava e che aveva il doppio lavoro, in fabbrica e alla sera in casa, in famiglia. Quando vidi il film mi sono detta che era proprio quello che pensavo, che intuivo ma non riuscivo ad esprimere con tanta chiarezza.”

G.M.

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—prosegue….

TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – (ri)mettiamoci alla prova

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TRAMEDIQUARTIERE E METANARRAZIONE – (ri)mettiamoci alla prova

il 4 febbraio scorso avevo già pubblicato una prima parte – il titolo è più o meno lo stesso – ci manca solo il (ri)
Ma fate attenzione: è solo una “prova” di metanarrazione (le altre che ho già peraltro pronte non le pubblicherò “in chiaro”!)
Giuseppe Maddaluno o, se preferite, Joshua Madalon (e su questo nome c’è ben poco da scherzare: ah già! lo dovevo spiegare e lo farò nei prossimi giorni. Sappiatelo che è una cosa seria!).

……Gli altri sono già agli “orti sociali”, una bella realtà, non c’è che dire: e di spazi così, abbandonati e ricettacolo di sterpi, rettili e qualche oggetto di arredamento fuori posto ma ancora degno di essere esposto in qualche “mercatino dell’usato” o in qualche “installazione di arte contemporanea”, ve ne sono altri qui in giro. Spazi che potrebbero essere utilizzati proprio come “orti sociali” destinati ad anziani, a famiglie, a bambini. I giovani del workshop si sbizzarriscono nel chiedere e nell’impostare inquadrature di uomini e natura. E qualcuno vi si perde e smarrisce. E il gruppo lo perde, proseguendo il suo viaggio pomeridiano tra strade, giardini privati, spazi verdi ordinati e spazi grigio-verdi disordinati e polverosi, antiche fabbriche dagli eleganti sontuosi aristocratici contorni architettonici che emanano sensazioni vetuste ma ancora caratterizzate da una certa nobiltà: quante operaie ed operai vi hanno agito? Quali tragedie quante e quali sofferenze e quante e quali festose ricorrenze hanno vissuto? Dentro esse abita la Storia di questa città e ne respira ora solo un lontano sentore colei o colui che vi transita riconoscendone i profondi valori storici che da lì promanano. Ora esse, pur rimanendo ancora erette con grande signorile apparente dignità, rischiano di essere destinate dall’incuria dei contemporanei ad essere abbandonate al degrado. Qualche espressione da “terzo paesaggio” attira le attenzioni dei giovani fotografi ed in particolare una struttura muraria che divideva gli spazi fra San Paolo e quello che era al di là di San Paolo, che poi solo di recente è stato identificato da Bernardo Secchi come “Macrolotto Zero”, mostra ad ogni modo di possedere una sua peculiare storica distinzione. Fra un’area coltivata ed uno spazio dove il disordine regna indisturbato si giunge al grande Giardino di via Colombo, luogo di incontro e raduno dal mattino alla sera della pacifica e disciplinata comunità cinese – con orari scanditi da ordinanza sindacale dopo le vibranti assurde proteste di un cittadino che lamentava la confusione ingenerata dagli strumenti che accompagnano la pratica del Tai-chi. Altre etnie – Prato ne è piena e ne conta più di cento – frequentano questo luogo. Ci sono anche gli italiani, ma provate per credere e venite pure a vedere, i cinesi – ebbene sì – sono la maggioranza. E ce ne sono davvero tanti, cosicché Valeria si appresta a rubare istantanee con le quali intende dimostrare ( e ce lo dirà solo dopo ) che è pur sempre un lunedì pomeriggio e c’è ancora luce e dunque non può essere del tutto vero che i cinesi lavorino soltanto, che lavorino tanto come si dice così spesso. Racconto a chi mi sta vicino l’esperienza di Emma Grosbois, una giovane fotografa che installa provocazioni artistiche e narro del comportamento dei cinesi, la loro compostezza, la ritrosia, la timidezza su cui però poi, quando Emma aveva completato l’installazione e se ne allontanava, prendeva corpo e forza la curiosità. Andiamo oltre e Valeria si diverte a fotografare i panni stesi dentro e fuori i terrazzini delle abitazioni cinesi lungo il nostro percorso. Li ricerca con curiosità: utilizzano gli “stand” industriali non potendo, per limiti regolamentari dei condomini, esporli all’esterno alla maniera delle famiglie mediterranee; ma non tutti in effetti sono rispettosi e Valeria di questo non può che essere contenta: riprenderà questi tessuti colorati che creano una sarabanda cromatica di straordinaria bellezza.

J.M.

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prosegue il viaggio ———-

PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SU “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – sesta parte

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PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SU “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – sesta parte (continua la testimonianza di Armida Gianassi, interprete del personaggio di “Giovanna”)

di Giuseppe Maddaluno (J.M.)

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I ricordi di allora sono tanti, vengono in mente così…un ricordo tira l’altro. Come quando si prende una pallina in mano e via via vengono in mente le filastrocche di quando eravamo bambini. Al tempo di Giovanna facevo la vita delle ragazze di allora: il lavoro, il sabato a ballare, le passeggiate a Firenze e così via; non c’era molto altro da fare a quei tempi. Alla sera andavo spesso al circolo a Grignano, mi ero iscritta alla Federazione Giovanile Comunista, ma non facevo molta attività, perché contemporaneamente avevo ricominciato ad andare a scuola, frequentavo i corsi serali alle scuole Calamai di via Pugliesi: cultura generale, storia, italiano, matematica, stenodattilografia. I corsi erano fatti abbastanza bene e molto interessanti , con vecchi professori che avevano insegnato al Cicognini, Mi ricordo del prof. Bresci, del prof.Balugani. Non era che un diploma di scuola serale, però a me serviva, perché volevo migliorare.la mia condizione. Lavoravo dalle otto del mattino fino alle cinque e mezza di pomeriggio, alle sei cominciavano i corsi, fino alle otto mezzo o anche alle nove. Insomma il tempo era quello che era e anche l’attività al circolo diminuì.
Sono nata nel Mugello. Mi ricordo quando venivo a lavorare a Prato, avevo soltanto 13 anni la prima volta. La mia mamma era terrorizzata all’idea di mandarmi in questa città di lavoro, e mi accompagnava la mattina all’autobus. L’autobus passava sulla strada provinciale tra S.Piero a Sieve e Barberino di Mugello e sul ponte a Bilancino faceva la fermata. La mamma si raccomandava all’autista e diceva “Piero – così si chiamava l’autista, era un uomo piuttosto grosso – mi raccomando questa bambina, dà un occhio!”, diceva proprio così: “dà un occhio!”. Così venivo a lavorare a Prato. Allora lavoravo alla tipografia Rindi, proprio dietro Piazza Duomo.
La mattina mi alzavo alle cinque, alle sei avevo l’autobus, dopo aver fatto un chilometro a piedi, sempre in corsa, sempre all’ultimo momento. E molte volte di lontano vedevo l’autobus fermo e sentivo che mi chiamavano (nella notte i suoni si sentono bene). Bastava che urlassi “eccomi!” e mi aspettavano. L’ho fatta per cinque anni quella vita. D’inverno non vedevo il sole durante la settimana, partivo alle sei la mattina e ritornavo a casa alle otto di sera. Solo la domenica vedevo il giorno.
Mi ricordo che quando arrivavo in piazza Duomo, la mattina, guardavo i ragazzini che andavano a scuola. Era il sogno della mia vita andare a scuola, però non potevo permettermelo: nella mia famiglia eravamo quattro sorelle e un ragazzino piccolino, c’era solo mio padre che lavorava, e non sempre. Sicché studiare era un sogno e basta. Io nella vita non ho mai invidiato null’altro, solamente i libri sotto il braccio di quei ragazzi. Era una cosa che mi faceva male dentro. Non so se era invidia… era dolore, proprio dolore. Ho sempre sognato di andare a scuola, anni dopo ho frequentato le scuole serali, ma era un’altra cosa.

fine sesta parte (prosegue la testimonianza di Armida Gianassi, interprete del personaggio di “Giovanna”)……

TRAMEDIQUARTIERE E GRANDI SPERANZE – venerdì 27 febbraio ore 17.30 CIRCOLO ARCI SAN PAOLO VIA CILEA – vale come invito

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VENERDI’ 27 FEBBRAIO ORE 17.30 PRESSO CIRCOLO ARCI VIA CILEA SAN PAOLO – PRATO PRESENTAZIONE UFFICIALE DEL PROGETTO ALLA CITTADINANZA – CHI LO DESIDERA E’ INVITATO A PARTECIPARE

https://www.facebook.com/events/362352447285577/?fref=ts

TRAMEDIQUARTIERE E GRANDI SPERANZE di Giuseppe Maddaluno

Vivo un periodo di grandi cambiamenti e di grandi straordinarie prospettive legate soprattutto alla mia vita “culturale”. Da qualche mese ho ripreso a percorrere le “antiche strade” e sono diventato un “viaggiatore frenetico e curioso”; mi vado rioccupando di Cinema, di Teatro, di Letteratura, di Arte: ho ripreso a scrivere e lo vado facendo con piacere, escludendo da questo impegno l’ambizione di conseguire successi che quasi certamente non merito. Lo faccio, dunque, con “piacere” intimo e non racconto soltanto di me ma per lo più, osservando la vita, racconto le donne e gli uomini che incontro che, con le loro ansie, le loro paure, le contraddizioni, costruiscono le loro storie, le storie del mio Paese, della mia gente, del mio quartiere. Lo faccio utilizzando tutte le occasioni di conoscenza e questo mi spinge ad ampliarle o comprimerle in sintesi; lo faccio con un’avidità bulimica che non conosce appagamenti e godo infinitamente delle grandi opportunità che le amiche e gli amici mi forniscono anche quando lo fanno involontariamente. Tramediquartiere – scritto così – è una di queste splendide occasioni; con alcune amiche ed alcuni amici ci siamo ritrovati ad operare nella società che ci circonda alla ricerca di una Conoscenza e di una Cultura che dal popolo salga su su fino ad innalzarsi a valore universale. Non è difficile spiegare il senso di Trame; il suo valore è di tipo sperimentale e si basa su argomentazioni sociologiche, antropologiche, urbanistiche ed ambientali, in parole semplici “CULTURALI”. L’ambito in cui si svolge è quello di San Paolo e del Macrolotto Zero! Un ambito ristretto ma complesso nella zona Ovest della città di Prato, quella parte caratterizzata dalla presenza di vaste comunità straniere, in primo luogo quella cinese. E’, questa, una parte della città sacrificata all’accoglienza disordinata delle migrazioni prima interne (anni settanta ) e poi esterne (anni Novanta in avanti); è un luogo “chiuso”, un ghetto prima involontario poi, con l’incuria delle Amministrazioni , volontario: da una parte la Ferrovia impedisce il collegamento con la zona Nord della città per larga parte , da Ovest la Tangenziale e da Sud la Declassata la imbottigliano definitivamente.
Le vie verso il centro sono un ingorgo continuo.
A questi problemi si aggiungano le ormai croniche mancanze di spazi pubblici per una fruizione diversificata del tempo libero, la riduzione di servizi essenziali e l’inadeguatezza di quelli già presenti. Tramediquartiere è un progetto che abbiamo seguito fin dalla sua “nascita”; anzi, se vogliamo essere concreti, abbiamo partecipato al suo concepimento: ce ne sentiamo “genitori” alla pari dei suoi proponenti principali. E, come “genitori” gli vogliamo un bene dell’anima. Non ce ne voglia “nessuno”; al Circolo di via Cilea avevamo compreso il valore di questo Progetto. Lo avvertiamo “ambizioso” e ci sentiamo orgogliosi di parteciparvi, soprattutto perché ne abbiamo intuito le potenti potenzialità strutturali. Abbiamo anche noi delle ambizioni ma coloro che aspirano ad ottenere posti in alto, in mezzo o in basso (disponibile anche qualche strapuntino di stramacchio o straforo) non se ne preoccupino: non è questa la “nostra” AMBIZIONE, anche se qualcunao ad usum dei fessi volesse farci credere che è d’accordo con noi (lo si sappia: siamo in una fase pre-elettorale nella quale la nostra collocazione non è in discussione “in assoluto”).
La nostra AMBIZIONE è quella di poter costruire nei prossimi anni una realtà più accogliente, più ricca di opportunità, più a misura di bambino, di uomini e donne soprattutto giovani, genitori ed anziani in questa parte della città di Prato. Ed uno degli strumenti di sperimentazione per il futuro è di certo questo TRAMEDIQUARTIERE.

J.M.

NOI SIAMO I RIBELLI (E FORSE ANCHE BELLI!)

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NOI SIAMO I RIBELLI (E FORSE ANCHE BELLI!)

UN PARTITO – IN PRIMO LUOGO I SUOI DIRIGENTI – SE NON E’ IN GRADO DI ASCOLTARE LE “SOFFERENZE” DEL POPOLO CHE IN ESSO SI RICONOSCE NON E’ UN PARTITO – IN PRIMO LUOGO I SUOI DIRIGENTI – DA RISPETTARE
QUEL CHE E’ ACCADUTO IN TANTE PARTI DEL NOSTRO PAESE IN TANTI CIRCOLI (non solo nel piccolo Circolo di San Paolo) DA UN ANNO A QUESTA PARTE (COSA C’E’ DA FESTEGGIARE?) NON E’ STATO DEGNATO DI ATTENZIONE SE NON ATTRAVERSO FORME BUROCRATICHE DA “muchiosurde” (‘O TELEFONO NUN FUNZIONA!) – E’ UNA FORMA DI “ARROGANZA DEL POTERE” CHE NON SI PUO’ ADDIRE AD UN PARTITO CHE SI VUOLE CHIAMARE “DEMOCRATICO”!
DICIAMOCI LA VERITA’ – UN CIRCOLO CHE, A DETTA DEL SEGRETARIO PROVINCIALE (TALE BOSI GABRIELE!), DISCUTE TROPPO, E’ PROPRIO PER QUESTO MOTIVO UN CIRCOLO SCOMODO
COSA C’E’ DI STRANO DUNQUE A QUESTO PUNTO CHE ALCUNE PERSONE – FRA QUELLE PIU’ ATTIVE, FRA QUELLE – dunque – CHE PARLANO TROPPO, CHE SI CONFRONTANO, CHE PROGETTANO – NON SI RICONOSCANO PIU’ NELLA PIEGA CHE IL PARTITO DAL NOSTRO TERRITORIO A QUELLO NAZIONALE HA INTRAPRESO?
AFFOSSATE LE ECCELLENZE, LE SPERIMENTAZIONI RIMANE IL SERVILISMO PURO, CHE E’ QUELLO CHE PIU’PIACE – DA QUALCHE PARTE IL MALESSERE SI ESPRIME CON IL SEMPLICE MUGUGNO, DA ALTRE SI RICORRE AL SEGNO DELL’OMBRELLO, DA ALTRE ANCORA – a San Paolo – SI CONTINUA A LAVORARE “FUORI” DAL PARTITO – E QUESTO DA’ NOIA, ANCOR PIU’ CHE SE CI SI FOSSE RITIRATI IN UNA CAMPANA DI VETRO – ECCO LA CLASSE DIRIGENTE GIOVANE DEL NOSTRO FUTURO – SI VUOLE FARE LA “RIVOLUZIONE” MA SEMPLICEMENTE PER SOSTITUIRE IL POTERE
ORWELL NE PARLA NE “LA FATTORIA DEGLI ANIMALI” C’E’ CHI HA AMBIZIONI DA MAIALE E CHI CONTINUA A FARE LA PECORA O IL CAVALLO – NOI SIAMO I RIBELLI!

J.M.

PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – quinta parte

PERCHE’ GIRAI UN DOCUMENTARIO SUL FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO – quinta parte

– continua intervista a Gillo Pontecorvo (gennaio 1991 – Hotel “Flora” di Prato

Abbiamo anche avuto fortuna perché abbiamo trovato le persone giuste, con i volti che cercavamo, molto belli, a partire da quello della donna che interpreta Armida, l’operaia di media età, una persona con un volto straordinario, e poi soprattutto abbiamo trovato un bambino eccezionale che si chiamava Ronaldino, talmente eccezionale che l’ho ricercato due anni dopo per una parte nel film La lunga strada azzurra. E mi ricordo che Yves Montand, il protagonista, era veramente entusiasta, e diceva che quel bambino era un attore nato, che non aveva mai visto nessuno recitare in maniera così naturale, così diretta.
Naturalmente in un film come Giovanna la ricerca dei volti è una delle cose più importanti, direi che è decisiva. La cosa principale era di trovare delle facce vere, delle facce di persone che pur non essendo attori, con la sola presenza somatica, fisica, dessero dei suggerimenti, delle suggestioni, comunicassero. Per cercare questi protagonisti abbiamo girato le Feste dell’Unità, ci siamo fatti aiutare dalla Camera del Lavoro, siamo andati nelle fabbriche, e questa ricerca è stata una delle esperienze più interessanti. Direi che la cosa che dà più soddisfazione è quando, cercando, trovi il volto giusto e allora sei felice come se avessi girato già la scena, come se in una scena un attore ti avesse dato un grande contributo. Una delle soddisfazioni più grandi in questa ricerca di personaggi fu quando abbiamo trovato la persona che poi ha interpretato Giovanna. Armida era esattamente quella che pensavamo scrivendo la sceneggiatura. Era un personaggio, e abbiamo veramente avuto fortuna. All’inizio nel recitare era un poco in difficoltà, ma poi pian piano imparò a gestirsi, a muoversi e alla fine il risultato fu molto buono.
Non è affatto passato il tempo di interessarci della realtà che ci sta intorno, anzi direi che la decadenza del nostro cinema è dovuta proprio ad una certa cecità verso la realtà che ci circonda, e che era un tempo il pane quotidiano, all’epoca del realismo, le cui glorie non sono state più raggiunte dal cinema italiano.

Giovanna 1

inizia l’intervista ad
Armida Gianassi, interprete del personaggio di Giovanna

Mi ricordo un pomeriggio in cui eravamo, come succedeva spesso, a ballare al circolo Rossi. Ad un tavolino c’erano dei signori nuovi. Li notammo perché siamo un po’ abituati a vedere sempre le stesse facce nei locali dove abitualmente andiamo. Quei signori guardavano, guardavano, osservando le coppie che ballavano. Dopo un po’ si alzarono e mi vennero a domandare cose un po’ strane – chi ero, cosa facevo – poi mi chiesero se mi andava di fare un provino per un film. Lì per lì mi venne da ridere – mah…, mi dissi, un film, io…- Li guardai un po’ e poi ricominciai a ballare. Loro sedettero di nuovo e continuarono a osservare, e di nuovo dopo poco si avvicinarono. Mi dissero: “guardi che noi facciamo sul serio, non è che scherziamo”. Intanto li avevo visti seduti con il sindaco Giovannini, con Bruno Fattori, con persone che conoscevo da tanto tempo e quindi cominciai a pensare che forse forse non scherzavano. E così, sia il sindaco che Fattori mi dissero: “ma guarda che fanno sul serio, vuoi fare un provino?” Io accettai. Ho fatto il provino e dopo qualche giorno mi dissero che tutto andava bene, che se volevo…e così abbiamo fatto il film.

fine quinta parte – continua intervista ad Armida Gianassi, la protagonista del film “Giovanna”

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