LE LEZIONI DI GRAMSCI – Abdon Alinovi e “Rosso pompeiano” (quel che disse quando fondammo il Circolo Sezione Nuova San Paolo di quel che fu il PD)

LE LEZIONI DI GRAMSCI – Abdon Alinovi e “Rosso pompeiano”

Studiando Gramsci, leggendone e rileggendone le pagine, non posso dimenticare chi, pur non incontrandolo direttamente per motivi se non altro leggermente divaricati dal punto di vista temporaneo, si è sentito suo allievo e compagno nel corso della vita, attraversando le esperienze della lotta all’antifascismo, del dopoguerra e di larghissima parte della storia repubblicana fino ai giorni nostri.

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Abdon Alinovi è stato uno straordinario punto di riferimento di tantissime generazioni di militanti nella Sinistra soprattutto quella meridionale; non ha mai smesso di credere nel valore profondo della Cultura e dell’impegno politico totale. Cinque anni fa nel corso del processo di fondazione della Sezione Nuova San Paolo di quello che fu il Partito Democratico in quella realtà avemmo la fortuna di incrociarlo su Facebook ed invitato formalmente così come di norma si fa con gli amici di quel “social” egli ci rispose:

Grazie di quest’invito, partecipo da…Napoli. Interessa me, ma anche voi, capire perché Prato è stata una delle prime città italiane, 1912, ad avere un Sindaco socialista. Si chiamava Ferdinando Targetti. Nel dopoguerra e fino agli anni ’80, la maggioranza è stata sempre di sinistra e così il Sindaco. Eleggeva da sola un deputato della circoscrizione di Firenze e un senatore. Fare l’analisi, che cosa è cambiato nell’economia, nella società, nella politica , nella testa della gente? Se volete esplorare il futuro dovete analizzare il passato. Non per restaurarlo; al contrario per cogliere le contraddizioni e superarlo in avanti. Alla cieca non si va da nessuna parte. Tutto quel che vi sto dicendo viene da Gramsci. Non sono io un maestro. Grazie.
Abdon Alinovi

Ho conosciuto anche Valeria, sua figlia, e da lei ho saputo che aveva tracciato le sue memorie in un libro, “Rosso pompeiano” (il significato del titolo è qui sotto spiegato da Giuseppe Vacca che recensisce l’opera su “l’Unità”, luglio 2016). Sarebbe molto bello avere tra noi questa straordinaria figura di militante “integrale”, testimone della nostra Storia.

Riprendo il testo di quell’articolo dello studioso gramsciano trascritto dallo stesso Abdon Alinovi sulla sua bacheca Facebook:

Abdon Alinovi, varcata la soglia dei novant’anni, ha affidato a un affascinante racconto il bilancio intellettuale e civile della sua vita, scritto con grande passione e maestria narrativa. Accade a quanti vivo- no una vita degna di sentire quasi il dovere di trasmetterne il significato alle generazioni successive e questo ha fatto anche Alinovi con l’aiuto della figlia Valeria in Rosso pompeiano (Città del Sole, 2015), memorie dense di messaggi fin dal titolo semplice e familiare solo all’apparenza. Esso richiama il colore della “casa dell’infanzia” ritratta in copertina: “una villa che tutti chiamavano la casa rossa per il rosso pompeiano dell’edificio” in cui Abdon visse l’infanzia a Eboli. Ma inoltrandosi nella lettura non si sfugge alla sensazione che egli abbia scelto quella coloritura di rosso per evocare un modo particolare di vivere la sua esperienza: la scoperta del “Partito italiano del comunismo” e la dedizione di una vita alla politica.
Il genere è la memorialistica dei comunisti italiani, ma per avvicinarci al libro di Alinovi viene subito in mente un paragone con due grandi modelli: Una scelta di vita di Giorgio Amendola e Il dubbio dei vincitori di Pietro Ingrao. Se del primo condivide l’orgoglio per il contributo eccezionale dei comunisti italiani alla lotta antifascista e all’edificazione della Repubblica, del secondo ricorda lo spirito di ricerca e l’assillo per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, narrato non con il senno di poi, ma ripercorrendo momenti topici dell’esperienza.
Alinovi non ha scritto un’autobiografia; ha concentrato il racconto sugli anni di guerra, l’ingresso nella lotta clandestina, lo sbarco degli alleati a Paestum, la “svolta di Salerno”, la guerra di liberazione, la nascita del “partito nuovo” e della Repubblica: una doppia iniziazione, sua e della nazione democratica, in un intreccio stringente. Con grande generosità, ma anche per ragioni strategiche, egli racconta la sua esperienza attraverso la figura di Ma- rio Garuglieri, confinato a Eboli negli anni ’30 e suo “maestro”, che gli trasmise la lezione di Gramsci ben prima che divenisse noto ai militanti del “partito nuovo”. Chi studia Gramsci si imbatte prima o poi in Garuglieri perché dopo la testimonianza di Giuseppe Ceresa, pubblicata da Togliatti a Parigi nel 1938 e ripubblicata in Italia una decina di anni dopo, quella di Garuglieri fu la prima memoria di Gramsci in carcere pubblicata su “Società” alla fine del 1946; e fra le testimonianze dei comunisti che vissero accanto a lui nel carcere di Turi quelle di Ceresa e Garuglieri appaiono le più fedeli sia perché più vicine nel tempo, sia perché “disinteressate”. Non è possibile tratteggiare qui la figura di Garuglieri; giova invece soffermarsi sulla felice escogitazione con cui Alinovi, attraverso l’apostolato di Garuglieri, racconta la sua formazione gramsciana antelitteram. Quando Togliatti l’11 aprile 1944 illustrò al cinema Modernissimo di Napoli “la politica di unità nazionale dei comunisti italiani”, Alinovi vi ravvisò i fondamenti del pensiero gramsciano trasmessigli da Garuglieri e questo, a ventun’anni, decise la sua vita. Ma cosa sono per Alinovi il “partito nuovo” e la “democrazia progressiva”? Sono innanzitutto la conciliazione di classe e nazione, per cui attraverso l’unificazione politica delle masse lavoratrici si può cambiare il corso della vita nazionale, creare una democrazia in cui le classi dirigenti superano i vecchi stecca- ti corporativi e dare inizio a un nuovo cammino di cui non si possono prestabilire i tempi e la meta finale. La “democrazia progressiva” mette continuamente alla prova le finalità particolari delle classi e dei gruppi sociali perché traccia un percorso che non ha un fine preordinato, ma deve rispondere alle esigenze profonde della nazione nel- l’affrontare le sfide che le vengono dal vivere, contendere e forgiarsi nell’aspro cimento di un mondo “grande e terribile”. Per questo la formazione di un “partito di governo delle classi lavoratrici” è una “necessità storica” della vita nazionale: esso è un partito di massa, ma non è solo la rappresentanza politica di una o più classi subalterne; è un reagente della vita intellettuale che rimette in discussione la storia del Paese e vuole plasmarne i destini. Questo è per Alinovi lo “intellettuale collettivo”, e l’espressione, di conio togliattiano, assume un significato preciso che ne illumina la narrazione e la riflessione retrospettiva. “Partito nuovo” e “democrazia progressiva” furono due grandi i- dee-forza che già guidavano il ”maestro” Garuglieri nel calibrare l’azione clandestina di un partito che apriva la strada a una pluralità di gruppi e personalità antifasciste via via che tornavano all’azione dopo la caduta di Mussolini: le attirava a sé unificandole in un organismo ricco e plurale, ma aspramente insidiato da lotte intestine e tenaci resistenze settarie vecchie e nuove.
Le memorie di Alinovi sono un affresco della vita italiana fra il 1943 e il 1946 riguardante un’area geografica limitata ma significativa all’incrocio tra la Campania, la Basilicata e la Puglia. Esse ricostruiscono vividamente un paesaggio meridionale in cui il fascismo, l’antifascismo, la guerra e la costruzione del Pci furono cosa diversa dal Nord e dal Centro; e diverso sarebbe stato il partito per tutta la sua storia. La riflessione retrospettiva ne mette in luce l’ambivalenza con un acume di giudizi che scombinano gli stereotipi della riflessione storiografica. Un grande partito di massa, di classe e di popolo, concepito per superare le fratture culturali delle classi subalterne e dei ceti intellettuali, che però per impellenti necessità di crescita si alimenta fin dall’inizio del mito dell’URSS di cui si giova soprattutto l’apparato burocratico. Questo gli imprime una pesantezza e una duplicità che non scaturiscono solo dalle contrapposizioni della Guerra Fredda, ma derivano anche dall’interesse di ampi strati della sua classe dirigente ad alimentare la “boria” di partito su cui poggia il loro modesto potere. L’introiezione del “legame di ferro” con l’URSS blocca, quindi, il progetto originario del “partito nuovo” e ne impedisce la possibilità di svilupparsi come un partito della nazione secondo il disegno togliattiano.
Alinovi ci offre così una chiave per comprendere le difficoltà di riprodursi di quella “connessione sentimentale” col popolo-nazione che aveva spinto una nuova generazione antifascista ad aderire al “partito nuovo” divenendone nel giro di un decennio la classe dirigente. Quell’afflato rivive con straordinaria intensità nella lettera Caro Pietro, caro Centenario scritta a Ingrao nel maggio 2015 e inserita nel volume, la quale testimonia l’affinità fra la lezione gramsciana trasmessa ad Alinovi da Garuglieri e l’ispirazione cristiana di tanta parte del cattolicesimo democratico. Ma queste costituirono una risorsa eccezionale, difficile da rigenerare dopo la stagione eroica della Repubblica e soprattutto quando negli anni ’70 entrò in crisi la sua impalcatura democratica.

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