2 febbraio – Cani gatti e figli – il nostro “primo figlio” era “peloso” – parte terza (per la seconda vedi 19 gennaio)

Cani gatti e figli – il nostro “primo figlio” era “peloso” – parte terza

Con Saverio, il cui cognome è identico a quello di un politico verso cui non ho stima (non lo menziono per non fargli alcun tipo di pubblicità), abbiamo anche organizzato iniziative culturali di prestigio e delle escursioni di tipo storico sul Grappa e sull’Altopiano di Asiago alla ricognizione delle vecchie trincee della Prima Guerra Mondiale, che a quel tempo – metà anni Settanta – non erano state delimitate a uso turistico: di quest’ultima gita conservo una foto nella quale sono proprio con il suo cane. Ho scritto questa parte  per dimostrare quanto i miei giudizi sui “cani” siano chiari e non del tutto indicativi di un rifiuto totale nei loro confronti: detto questo, spero che non mi mordano!

Poi, i miei colleghi uno dopo l’altro andarono via per trasferimento. E d’altra parte Mary ed io avevamo deciso di sposarci e la mansarda “arredata” sarebbe stato il nostro primo appartamento per la nuova vita in comune.

Una notte di inverno (era gennaio) non particolarmente gelida in quella realtà del centro della città antica, dove non ci sono rumori nemmeno nei periodi di festeggiamenti, sentimmo un pigolio come si trattasse di un paperottolo. Era incessante e accorato. All’alba quel pianto proseguiva ad interrogarci: “Cosa fate?”

“Che facciamo!?”, ci affacciammo alla luce tenue del giorno per capire da dove provenisse; lo facemmo dalle piccole finestrelle della cucina e del bagno che davano su un cortile interno dove c’erano ambienti disabitati ormai abbandonati come ruderi e pieni di una vegetazione varia.

Vi si accedeva attraverso un vano stretto e buio adibito al pianterreno come deposito di attrezzi per spalare la neve e per accatastare legna per il camino. Anche per questo motivo (l’inverno era ancora lungo e a Feltre dura fino al marzo inoltrato)  lo spazio per transitare verso il cortile era ridotto. Mary ed io andammo a vedere dove fosse il paperottolo e, con grande sorpresa scoprimmo che si trattava di un minuscolo gattino, di pochi giorni, quasi del tutto sfinito dalla fame e dalla disperazione. Mary corse su a prendere un panno, una vecchia maglia sdrucita con cui agguantare la bestiolina, sia per difendersi dalla naturale ritrosa aggressività, solo potenziale ma non reale visto che aveva ancora gli occhi chiusi e doveva essere venuto al mondo da pochissime ore, sia per dare a quel corpicino un po’ di calore.

Lo avvolsi nella lana e lo portammo su in mansarda. Mary si vestì e corse alla Farmacia che distava un trecento metri da casa subito dopo la Porta da cui si accede sul “liston”. Su consiglio della dottoressa acquistò un piccolissimo biberon e poi si fermò alla Standa per comprare del latte. Intanto io avevo recuperato uno scatolo di scarpe e, inseriti a giaciglio altri panni un po’ riscaldati sui termosifoni, vi avevo adagiato il micetto, che appariva sempre più tranquillo. Era un gatto europeo dal pelo striato tra grigi chiari e rossicci. Un esserino indifeso, il cui destino sarebbe stato segnato in modo negativo se non ne avessimo percepito la presenza.