“FUGA GRANDIOSA VERSO L’INFINITO” – FRANZ KAFKA “Lettera al padre”

Federica Nerini

 

FRANZ KAFKA E LA SUA “FUGA GRANDIOSA VERSO L’INFINITO”.
Di Federica Nerini
“E’ come quando uno sta per essere impiccato. Se lo impiccano sul serio, allora muore ed è tutto finito. Se invece deve assistere a tutti i preparativi dell’impiccagione e poi apprende di essere stato graziato solo quando il cappio gli penzola davanti alla faccia, forse ne avrà un trauma per tutta la vita”. Così declamava Franz Kafka nella sua lunghissima lettera al padre (oltre sessanta pagine), scritta nel 1919 e mai consegnata al destinatario. Ciò che ci deve di più interessare è il sentimento di paura presente già dalle prime righe. Ogni singolo uomo nella vita ha il diritto ad aver paura: “La paura è un modo per trovarsi”. E’ ciò che non ci fa dormire la notte, non fa passare il giorno, e non ci fa vivere. La paura non è angoscia, perché l’angoscia è essenza.
Solo attraverso la fobia si ha la consapevolezza della presenza del nostro essere come sofferenza, e questo “l’inadatto alla vita” lo aveva capito fin da subito. Per Kafka, il padre era “la misura di tutte le cose” e la sua educazione gli aveva cambiato l’esistenza, insieme al modo di capirsi e comprendersi. Si sentiva una nullità, era avvolto da un senso di colpa insostenibile, provocandogli così la limitazione del respiro, quasi assente. Il senso di colpa è dato dalla presenza insistente di una Autorità Superiore, dal giudizio duro, da auto-rimproveri ossessivi, dal senso del dovere, dal meccanicismo dell’anima, dalla punizione e dalla indegnità. Tutto questo è alla base della struttura portante delle nevrosi. Una persona libera non soffre, cerca come dicevano i greci la propria “qualità interiore”, rigetta il senso di colpa e ha voglia di toccare la gioia della vita.
Purtroppo l’essere umano è una macchina più che complicata, poiché chiunque può essere condizionato nei modi di fare e di agire, dopo aver vissuto determinati eventi nel corso del cammino esistenziale. Nella lettera Kafka descrive con lucida esattezza un evento appartenente alla memoria emotiva della sua infanzia: “Una notte non la smettevo più di piagnucolare chiedendo dell’acqua , non perché avessi sete, ma probabilmente un po’ per dare noia, un po’ per tenermi compagnia […] Mi hai preso di petto dal letto, portato sul ballatoio e lasciato lì per parecchio tempo, in camiciola, davanti alla porta chiusa. Intanto ne riportavo un danno interiore”. Il sentimento di nullità che spesso assale lo scrittore ceco, deriva in maniera diretta dall’influenza del padre tirannico. Molti anni più tardi Kafka verrà tormentato dall’idea che suo padre, l’ “istanza superiore”, quasi senza motivo lo porti in piena notte, dal letto al ballatoio. L’evento ha fatto sì che si creasse una nevrosi ossessiva post-traumatica, peggiorando progressivamente il suo stato psichico. Dopo la sua nevrosi è degenerata in un “disturbo ossessivo-compulsivo” scaturito dal complesso di inferiorità.
Una delle sue famose paranoie, oltre all’innata predisposizione a sentirsi inferiore (per l’educazione sostenuta), è il “rimando sistematico” della data del matrimonio, infatti il fatidico giorno non verrà mai. Tre donne ebbe nell’ arco della sua vita, ma non si sposò, poiché l’immagine del padre e della famiglia felice lo turbavano, riempendolo di malinconia, paura, disperazione, noia; anche se più tardi avrebbe detto: “il matrimonio è la garanzia della più potente autoliberazione e indipendenza”. Ma il “matrimonio” è soprattutto l’elemento che lo lega al padre “in maniera più intima”, per questo motivo c’è l’azione meccanica del “rimando” dell’evento tanto annunciato e sperato. È una conseguenza della psicopatologia della vita quotidiana: “il dimenticare” è l’allegoria dell’ “indesiderato”. La mancanza di autostima dipendeva molto dal padre, più di qualsiasi altra cosa, come ad esempio un successo esterno, che poteva tutt’al più irrobustirlo solo per qualche istante, mentre sull’altro piatto della bilancia, il peso del padre spingeva sempre verso il basso.
Inoltre come diceva il suo amico Max Brod, Kafka era “felice” nella sua “infelicità”, poiché il disturbo ossessivo-compulsivo aveva fatto sì che diventasse ipocondriaco, infatti nei suoi Diari scriveva: “Sono arrivato ad una conclusione, che la forma di tubercolosi che ho non è una malattia vera e propria, non è un morbo, ma soltanto la parvenza del germe della morte”.
La domanda che più mi sorge spontanea è: “Ma se Kafka, grandissimo scrittore del Novecento europeo, e grande esistenzialista si sentiva un’emerita “nullità”, noi in questo mondo come ci dobbiamo sentire?”.
Noi non siamo Nessuno.

 

Kafka

reloaded – MA COSA E’ QUESTO AMORE

Federica NeriniPoveri in riva al mare

“L’AMORE AI TEMPI DELLA GENERAZIONE 2.0”
di Federica Nerini

“Poveri in riva al mare” è uno dei quadri più comunicativi ed immediati, riguardante il periodo “blu” del pittore catalano: Pablo Picasso. L’incomunicabilità e la staticità dei componenti della famiglia sono l’emblema dell’incomprensione, che sta attraversando la nostra Società odierna. Solo una parola bisogna annotare in fretta, dopo averla dipinta sopra i muri e i tetti delle case: “immobilismo”. Solitudine, chiusura, melanconia, dolore, disperazione, angoscia, terrore, paura e inettitudine: questo è lo spettro inquietante, che si proietta verso il nostro futuro. Insicuri difronte ai giorni venturi; indifesi nei confronti di un presente cupo, spento, senza sogno, fantasia e aspettativa. Noi siamo tutti inermi come foglie semi-morte, che saranno gettate al suolo, aspettando il primo maestrale.
Tra tutti i sentimenti, quello che deve essere difeso con la stessa foga del cavaliere, che salva la principessa su una torre infuocata è: l’ “amore”. L’amore non è un’arte, ma è una condizione intensa di perdizione dell’apparato sensoriale, una destabilizzazione del sistema razionale, un’estasi mistica generata da situazioni non-programmate, uno stato di incoscienza psichico, una migrazione dell’anima personale, una totale donazione estranea, e un piacere infinitamente desiderato in tutto l’arco della vita. L’”a-mors” è ciò che ci fa sentire “vivi”, ma anche “morti” allo stesso tempo; è ciò che ci fa disperare come i bambini piangenti, quando non vengono più coccolati e adorati, perché ogni uomo ha il bisogno e il diritto di essere amato, almeno una volta nella propria esistenza.
L’essere umano è consapevole di se stesso, della propria persona, della brevità della vita, del senso di vuotezza del nulla, del vivere senza averlo voluto, e sa che prima o poi, come in un sogno tutto questo finirà. Quindi la “brevitas” temporale è troppo incessante per vivere la vita da soli, così cerchiamo l’altro per pura necessità e mero istinto narcisistico. Siamo reattivi solo per sconfiggere la solitudine, una delle condizioni più brutte ed imperdonabili che l’anima deve sopportare. “Solo un Dio ci può salvare”, non abbiamo più forza per sopravvivere ormai. Ci lasciamo sopraffare dal vento, che diventerà freddo e ci distruggerà pian piano. Quest’ è l’amore: lasciarsi attraversare incondizionatamente, perché noi siamo deboli di fronte all’immensità della sua vastezza.
“Il conoscersi” è alla base del sentimento umano dell’amore: noi pensiamo di essere liberi, di vivere svolgendo azioni che appartengono alla nostra persona, mentre agiamo secondo cuore, inconscio e irrazionalità. Dobbiamo quindi sovrastare le barriere invalicabili dell’isolamento e fonderci simbioticamente con l’altra istanza appartenente alla coppia amorosa, solo per l’illusione di gioire affogando nel piacere di un attimo fugace. Ma allora se l’amore genera felicità e piacere, perché la maggior parte delle coppie combatte contro l’infelicità e la menzogna? Perché poche storie d’amore si basano sulla fedeltà e il rispetto? E perché si parla sempre di sogno d’amore e mai di realtà? Sfido chiunque a rispondere senza sfiorare la paranoia.
L’amore è uno dei più alti sentimenti cristiani, e alla base di tutto c’è un verbo: “dare”. Cosa significa dare? Lo psicanalista Erich Fromm, nel suo libro “L’Arte di Amare” a tal riguardo scrive: “La risposta sembra semplice, ma in realtà è piena di ambiguità e di complicazioni. Il malinteso più comune è che dare significhi «cedere» qualcosa, essere privati, sacrificare […] Dare è la più alta espressione di potenza. Nello stesso atto del dare, io provo la mia forza, la mia ricchezza, il mio potere. Questa sensazione di vitalità e di potenza mi dà gioia. Mi sento traboccante di vita e di felicità. Dare dà più gioia che ricevere, non perché è privazione, ma perché in quell’atto io mi sento vivo”.
“Amare” per sentirsi “vivi”, questo è il terreno fertile su cui costruire il futuro, magari dando tutto ciò che di vivo si ha in corpo, solo così possiamo raggiungere la splendente felicità. Ma allora c’è speranza di ristabilire e di ricostruire il sentimento amoroso, cercando di crederci come abbiamo fatto in passato? Spero di sì, perché gli uomini solitari devono gioire prima o poi. Tutti, in un modo o nell’altro, aspettano insistentemente di essere abbracciati ed amati. D’altronde, parafrasando Lucio Dalla: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io”…