LEZIONI DI CINEMA 6

Famiglia Ruocco Retaggio Maddaluno
Cosa significa “lezioni” nel titolo di questa raccolta di momenti diversi che in questi anni si sono susseguiti davanti a me e che hanno contribuito a farmi essere quello che sono, con tutti i limiti che posseggo e che spesso caratterizzano il mio lavoro più di quanto non lo riescano a fare i pregi?
Con il termine “lezioni” ho voluto asserire il mio ruolo di acquisitore più che quello di venditore di cultura; le “lezioni” di cui parlerò sono infatti quelle che mi hanno formato nel corso degli anni anche quando ero io a proporre, ad organizzare momenti diversi nella società, nella cultura, nella politica, nel sindacato. Le “lezioni” dunque non sono quelle che ho impartito nel corso di questi anni ai miei allievi oppure ai cittadini, quando ho dovuto svolgere il ruolo, con grande fatica, di relatore o di professore, ma sono quelle che mi hanno regalato i grandi autori del cinema attraverso i loro capolavori oppure i grandi esperti e critici dell’arte cinematografica oppure gli artisti, i grandi interpreti del cinema, oppure ancora alcuni giovani che appassionandosi al cinema mi stimolavano ad operare insieme a loro su alcuni argomenti, oppure ancora altri giovani che mi hanno insegnato a realizzare cinema pensando di poterlo imparare da me.

LEZIONI DI CINEMA 6

Nel buio della sera si attraversavano alcuni stretti sentieri fra i campi per raggiungere una casa che si trovava proprio al di sopra del cimitero, l’unico cimitero di Procida, che affaccia sulla spiaggia detta del Pozzo Vecchio, la spiaggia che è poi stata “location” de “Il Postino” ultimo film di Massimo Troisi. Se devo parlare di un vero e proprio primo amore o forse di un primo vero e proprio capriccio d’amore è lì infatti che è nato, si è evoluto ed è finito. Nelle “controre” accaldate da ragazzini nel tentativo di dormire a terra nella sala da pranzo, sopra delle lenzuola e dei cuscini appoggiati si parlava e si scherzava, ma difficilmente si riusciva a dormire. Ed in una di queste occasioni, oltre a raccontarci le solite inutili banalità, avevo provato un profondo duraturo eccitamento assolutamente irrisolto e per me in quel momento incomprensibile. “Tardivo” come molti maschi e forse del tutto sorpreso da quanto stava accadendo (ma l’ho capito soltanto qualche giorno dopo) non fui in grado di aggiungere nulla.
Quando la televisione non c’era, nei pomeriggi assolati delle caldi estati, si dormiva sul mezzanino al quale si accedeva attraverso una scala di legno con pioli molto larghi ed in questo luogo assolutamente magico ed unico nella storia della mia infanzia e della mia adolescenza a volte si svolgevano anche lavori particolari ai quali eravamo invitati a partecipare, come allargare la lana dei materassi e dei cuscini. Se nel mio ricordo sono indelebili i tuffi dall’alto dei letti nei morbidi ciuffetti di lana già lavorata vuol dire che il mio peso era minimo e che anche l’età era giovanissima. Ma quello che più ricordo è la narrazione della storia di “Pinocchio” fatta da mia zia, un racconto avvincente che serviva a tenere in quel piccolo spazio tutti i nipoti non di certo per farci lavorare, perché più che altro con i nostri giochi, i nostri scherzi, i nostri tuffi non facevamo altro che intralciare il lavoro dei grandi.
Quando non c’erano lavori quasi sempre si riposava e si sognava e si preparava il nostro futuro, quello immediato e quello lontano ma eravamo tutti ancora veri e propri bambini. Una delle cose che mi piaceva era aprire la porticina del mezzanino e verso sera guardare il mare solcato da qualche nave, con la scia che permaneva e la mia immaginazione che andava alle onde di risacca che sarebbero arrivate al Pozzo Vecchio oppure a Ciraccio. A volte riuscivo a scappare e correvo correvo fra i sentieri per andare verso il mare: la conoscevo a memoria, non avevo bisogno di guardare dove mettevo i piedi nudi, fra i sassi, la polvere ed i ciottoli del basolato, attraversando i campi e correndo sulla stradina “principale”, passando poi davanti all’ingresso del cimitero ed imboccando l’ultima discesa verso il mare, ed era un piacere arrivare sulla piccola e corta spiaggia del Pozzo Vecchio dove di sera prima che scendesse il buio non c’era più nessuno. Bagnarsi i piedi e tuffarsi per un breve bagno e sentirsi al centro della vita e del mondo ascoltando solo il mare e lo stridio dei gabbiani e delle rondini marine sempre particolarmente attive in quella fase dell’anno: era questo il mio piacere di allora. E non comprendevo i più grandi che si affacciavano dall’alto della rupe a picco sulla spiaggia, lontani dalle onde del mare ad osservare inosservati gli innamorati che a volte si appartavano forse convinti anche di godere di una privacy assoluta in qualche angolo della spiaggia in un inconsapevole quasi sempre esibizionismo: a volte c’era anche chi praticava il nudo integrale per una completa abbronzatura ed allora si radunava dall’alto una folla di morbosi curiosi.
Ed in alcuni pomeriggi c’erano anche le “partite” di calcetto: sulla sabbia, lo si sa, ci vogliono tecniche speciali – occorre giocare “di prima” – ed io le avevo acquisite, mentre avevo difficoltà a giocare sui prati normali dei campi da gioco. In una di queste occasioni per l’appunto pomeridiane (al mattino la spiaggia, un po’ corta nella sua profondità, era facilmente affollata dappertutto) nel ripulirmi dalla sabbia dopo una giocata mi feci un taglio, non ho mai capito con che cosa, al piede destro e fui costretto ad andare da solo sanguinante a piedi al “pronto soccorso” che era rappresentato negli anni Sessanta da un piccolo presidio subito dopo la chiesa di San Giacomo in via Vittorio Emanuele. A piedi perdendo sangue per circa cinquecento metri su una strada polverosa dalla quale in quel tardo pomeriggio non transitò anima viva e poi – fosse passato qualcuno – sarebbe andato in direzione opposta alla mia. Al Pronto Soccorso trovai solo alcune infermiere (c’erano due cugine di mia madre) che ripulirono il piede, mi fecero l’antitetanica e, senza anestesia, mi cucirono la ferita con quattrocinque punti. Fu, quella, una prova da “grande” stoico; il dolore era lancinante, ma alla fine, saltellando, tornai a casa di una delle mie zie, quella più vicina, zia Nunziatina, che abitava alla Madonna della Libera…

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COSI’ VICINE COSI’ DISTANTI di NITASHA AFZAL – seconda ed ultima parte

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Il giorno successivo, all’ora di religione, Fariha se ne andò al bar lasciando le sue cose in classe. Clara vide il diario di Fariha dove lei spesso annottava delle cose. Non le piaceva ficcare il naso nelle cose altrui, ma fu incuriosita, voleva vedere cosa è che Fariha scriveva dopo ogni ora e che non voleva far vedere a nessuno. Aprì il diario e vide dei fogli dove Fariha scriveva i suoi pensieri, frasi che le piacevano, informazioni e tutto quello che le veniva in mente. Clara ne prese uno che la incuriosì particolarmente e lesse:
“Vorrei sfondare il mare di paure che ricopre la mia vita ma non ci riesco, non ne ho le forze… a volte ci provo ma la mancanza di forze mi blocca, allora me ne sto muta e immobile nella mia nicchia a contemplare infelice il lieto scorrere del tempo che beffardamente ride, ride prendendosi gioco di me. Incapace, incapace di alzare la cresta di fronte alla mie ferite, sempre pronta a crogiolarmi nel mio dolore, a considerami un essere indegno, incapace di vivere, una smidollata, come se la vita non fosse fatta per me… E’ inutile mentire a se stessi. La verità va oltre le prigioni della mia coscienza, ma ci vuole forza, forza e coraggio per osare quel salto che la vita ci impone lasciandoci in balia di un vuoto divoratore davanti a noi, un vuoto che le nostre paure ci impediscono di sfidare… qual è il limite di tutto? Quale diabolico incantesimo ha costretto le nostre anime dietro le mura delle nostre prigioni? Quale prezzo la nostra umanità deve ancora scontare? E se fossimo un errore, nient’altro che un errore della natura? Che sciocca, la natura non fa errori… come puoi pensare che l’assoluto possa sbagliare? Che sciocca, come fai a porti queste domande? E’ la natura, è la mia natura che me lo impone, la voce della follia che dalle viscere della mia anima scuote avidamente il mio cuore per condurmi a lei e ritrovare finalmente me stessa… ”
Sorpresa da queste parole, da queste verità che pure lei conosceva nel suo inconscio fu sopraffatta dalla fame della conoscenza dei pensieri altrui. Non per pura golosità di soddisfare il proprio bisogno di pettegolezzo, ma di leggere le crude verità o le domande che ciascuno di noi si pone davanti all’infinito.
Su un altro foglio con un pennarello rosso c’era scritto:
“Mi sono confinata nel mondo dei confini. Sì confini. Creati da me per me, per non invadere quelli degli altri, che se invasi creerebbero delle intersezioni, che darebbero vita a parole, sguardi, emozioni e sentimenti. I miei confini sono per proteggermi da ciò che a prima vista sembra bene, felicità, ma poi col tempo, quando i nostri confini vengono calpestati dagli stessi rapporti che noi creiamo uscendo da essi per far sì che delle persone possano avvicinarsi a noi per soddisfare quell’incommensurabile bisogno d’affetto e d’amore che affligge ogni essere umano, perdono senso e da protettivi diventano l’arma che lacera il corpo, il cuore e la psiche”.
Clara era allibita, ciò che aveva letto era vero ma non il vero assoluto. L’uomo non conosce l’infinito e non conoscendolo è inutile porsi dei limiti che possano misurarlo. Decise di farle capire che i limiti “personali” sono diversi da quelli “religiosi” e che la vita è troppo breve per poter perdersi nei pensieri o domande che non avranno mai una risposta se non nel caso in cui si giochi tutto per tutto per trovarne una. Decise di farle provare l’importanza di vivere la vita in prima persona invece di criticarla. Voleva che lei provasse il sapore della vera amicizia, della felicità, della libertà ma aveva un po’ di paura: così facendo non avrebbe mancato di rispetto ai confini di Fariha? Magari lei era felice così, magari aveva deciso di vivere la vita così e aveva il diritto di viverla secondo il suo volere. La sua mente era fusa. Sapeva solo che voleva starle vicino senza oltrepassare i suoi limiti. A quel puntò vide arrivare Fariha in classe, si avvicinò a lei con un dolcissimo sorriso e la abbracciò

Nitasha Afzal